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Incroci tradizionali invece degli OGM


Uno studio ha dimostrato che sull’ambiente influisce non la pianta in se’, ma il protocollo per gli

Requiem per gli OGM? Sembra questa la conclusione implicita negli articoli apparsi in quasi tutti gli organi di informazione europei dopo la pubblicazione dei risultati di un esperimento progettato per valutare l'impatto sull'ambiente della coltivazione di vegetali geneticamente modificati (GM). Anche i governi e gli ambienti politici in generale sembrano orientati a interpretare questi dati come una condanna definitiva delle moderne biotecnologie agricole. Ma in che cosa è consistito questo esperimento e quali conclusioni se ne possono trarre? Si è trattato in effetti di una serie di studi promossi dal governo inglese, due dei quali erano stati già pubblicati nel corso del 2003 e ignorati dai mezzi di informazione. Il primo era una rasssegna di dati di letteratura scientifica che ha permesso di concludere che la coltivazione e l'uso in campo alimentare di vegetali geneticamente modificati non presenta rischi apprezzabili per la salute umana. Il secondo studio era invece una analisi economica che dimostrava come le coltivazioni geneticamente modificate potrebbero in definitiva offrire un vantaggio economico sia per i coltivatori sia per i consumatori. Il terzo studio, iniziato nel 1999 e pubblicato nell'ottobre 2003 su «Philosophical Transactions of the Royal Society», era volto a determinare eventuali effetti nocivi della coltivazione di vegetali geneticamente modificati sulla biosfera locale, in pratica sulle erbe selvatiche e sugli insetti. I vegetali studiati erano il mais, la colza e la barbabietola da zucchero, resi geneticamente resistenti ad erbicidi a largo spettro mediante l'introduzione di opportuni geni. Nell'esperimento, metà di ogni campo (200 campi in tutto) veniva coltivata con il vegetale geneticamente modificato e metà con la sua controparte tradizionale, cioè non resistente ad erbicidi. Ovviamente i geni introdotti nel corredo genetico delle varietà geneticamente modificate non avevano alcuna parte diretta nello studio (le proteine prodotte da questi geni non hanno alcun effetto sulle erbe selvatiche né sugli insetti).
Ciò che cambiava nelle due metà di ogni campo era lo schema di trattamento con erbicida, che per il raccolto geneticamente resistente può essere fatto anche quando le piantine sono già germogliate, mentre per le varietà tradizionali l'irroramento più vigoroso viene fatto prima dello spuntare dei germogli. I risultati hanno mostrato che il trattamento usato nella coltivazione di colza e barbabietola geneticamente modificate era più efficace nel rimuovere erbe selvatiche (un terzo della biomassa rispetto alle coltivazioni tradizionali) e che in quella parte dei campi il numero di api e di altri insetti che traggono nutrimento da queste erbe era (prevedibilmente) minore. Nel caso del mais invece il rapporto si invertiva, quasi certamente perché nella coltivazione tradizionale di mais i campi vengono irrorati con atrazina, un potente erbicida che dovrebbe presto essere messo al bando per la sua nocività anche sull'uomo. Da questa breve descrizione risulta evidente che l'esperimento rivelava in pratica l'effetto sull'ambiente non delle piante geneticamente modificate in quanto tali, bensì del protocollo di trattamento con erbicida, come chiaramente dicono gli autori del rapporto. In altre parole, se le piante GM fossero state coltivate come quelle normali non si sarebbe osservata alcuna differrenza. La conclusione che le piante geneticamente modificate sono dannose per l'ambiente non è quindi giustificata e andrebbe così riformulata: i metodi di coltivazione usati per le piante geneticamente resistenti agli erbicidi possono essere dannosi per le erbe selvatiche e per gli insetti circostanti. I dati mostrano inoltre che la semplice scelta del vegetale da coltivare, indipendentenente dal fatto che sia tradizionale o GM, può avere un effetto più o meno rilevante sull'ambiente locale. Nei campi di mais, ad esempio, sia transgenico che tradizionale, il numero di insetti era meno della metà di quello osservato nei campi di barbabietole geneticamente modificate. Due considerazioni sorgono spontanee di fronte a questi risultati e alle reazioni che hanno (non sorprendentemente) suscitato. La prima è che le grandi ditte di agrobiotecnologia, nella foga di portare sul mercato dell'agricotura i primi vegetali GM, sembrano aver clamorosamente dimenticato coloro che, in definitiva, decidono del successo di un prodotto, cioè i consumatori. Se, invece di concentrarsi unicamente su proprietà che offrono vantaggi economici agli agricoltori (come appunto la resistenza ad erbicidi), avessero portato sul mercato vegetali transgenici con proprietà allettanti per il consumatore (migliori sapori, migliori qualità nutritive, quantità e tipi di grassi controllati), anche coltivabili con metodi tradizionali, il responso, almeno nel mondo occidentale, sarebbe stato quasi certamente diverso. La seconda considerazione è che le stesse ditte si lanceranno ora a produrre varietà vegetali con le stesse caratteristiche di quelle geneticamente modificate usate in questo studio, utilizzando però incroci tradizionali invece delle tecniche biotecnologiche moderne. La resistenza genetica agli erbicidi è già stata ottenuta con questi metodi e potrà quindi essere applicata ai vegetali di interesse agricolo. Il procedimento sarà molto più lungo, ma alla fine porterà agli stessi risultati: piante geneticamente resistenti ad erbicidi che verranno coltivate con gli stessi metodi applicati oggi per gli OGM e con gli stessi eventuali danni all'ambiente. Ciò che non si vuole capire o si finge di non capire è che tutti i vegetali che mangiamo da secoli sono geneticamente modificati, con metodi molto più approssimativi e più lenti di quelli offerti dalla biotecnologia moderna.

Fonte: lastampa (22/01/2004)
Pubblicato in Biotecnologie
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