L’universo di virus e batteri

Inside Micro

22 aprile 2008 - 5:39 pm

I prioni

Metto questo post nella categoria “virologia”, anche se in effetti i prioni hanno poco a che fare con i virus: la parola prione fu coniata da Prusiner per indicare un agente infettante di natura proteica (proteinaceous infetcive agent), cioè una proteina con capacità di infettare, di agire come un vero e proprio agente patogeno. I virus sono molto semplici, ma hanno comunque un codice genetico per la loro replicazione, i prioni sono invece privi di acidi nucleici: sono semplicemente delle isoforme di proteine normalmente presenti soprattutto nei neuroni, ma la cosa sorprendente è che sono in grado, in qualche modo, di infettare e replicarsi in un organismo dopo un inoculo.

Le malattie prioniche

Tutte le malattie sono caratterizzate da una degenerazione lenta e progressiva del tessuto cerebrale, con esito fatale. La prima malattia per cui è stata dimostrata una correlazione con i prioni è la scrapie, che colpisce le pecore e, meno frequentemente, le capre. Il nome deriva da uno dei suoi sintomi: un prurito molto intenso che spinge a grattarsi contro qualunque oggetto verticale fino a danneggiarsi gravemente (dall’inglese to scrape=graffiare).
Negli anni ’50 venne poi associato il prione ad una malattia umana, nota in Nuova Guinea, il kuru, parola che significa “morte che ride” per via della paralisi ai muscoli facciali che ne deriva. La dimostrazione che il kuru poteva essere trasmesso tramite inoculo da un soggetto malato ad uno scimpanzé fu la prova che la straordinaria diffusione di questa malattia nella tribu dei Fore dipendeva anche da una trasmissione orizzontale. Da questi presupposti si è partito per dimostrare la trasmissione orizzontale di tutte le encefalopatie spongiformi umane, dalla malattia di Creutzefeldt-Jacob (CJ), passando per la malattia di Gerstmann-Straussessler-Scheinker (GSS), fino alla più recente insonnia familiare fatale (FFI), scoperta in una famiglia bolognese a metà degli anni ’80.
Infine non si può non citare la famosa (famigerata) encefalopatia spongiforme bovina (BSE), che ha portato la paura in Europa qualche anno fa, causando quella che viene chiamata nuova variante della malattia di Creutzefeldt-Jacob (CJ-nv), che ha comunque manifestazioni cliniche e anatomo-patologiche diverse dalla CJ sporadica.

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Tags: encefalopatie spongiformi, prioni
3 aprile 2008 - 9:49 pm

I vaccini

La vaccinazione ha origini molto antiche, basti pensare che già nel 1700 si sapeva che persone che avessero contratto il vaiolo e che fossero riuscite a sopravvivere, sarebbero diventate immuni. Alla fine del diciottesimo secolo, in effetti, ebbe inizio quella che potremmo definire come l’era delle vaccinazioni, con il discutibile ma senza dubbio fondamentale esperimento di Edward Jenner. Nel 1796 questo medico inglese prese del pus da una mungitrice che aveva contratto il vaiolo bovino (forma meno grave del vaiolo umano) e lo inoculò tramite due incisioni in un braccio in un bambino di 8 anni, per poi infettarlo, sei settimane più tardi, con il virus umano. Ripeté l’esperimento più volte, ottenendo sempre lo stesso risultato, e basandosi sui suoi studi la Francia napoleonica fu completamente vaccinata nel 1806.

Perché il contatto col virus bovino (o vaccino, da cui il nome) impedisce il contagio con il virus umano? Al di là delle implicazioni etiche del suo metodo, Jenner ha applicato una legge oggi molto nota della immunità: il sistema immunitario “ricorda” gli antigeni con cui viene a contatto ed è pronto a difendersi al ripresentarsi dello stesso corpo estraneo. Jenner ha usato il virus del vaiolo vaccino, che nell’uomo causa immunità al vaiolo umano dando una malattia molto più lieve, quindi più sicura. Al giorno d’oggi esistono vaccini di diversi tipi, più o meno efficaci ma tutti utili a contrastare molte malattie ancora oggi ritenute molto pericolose.

Microrganismi inattivati

E’ fatto da batteri uccisi o virus inattivati (cioè incapaci di riprodursi). L’inattivazione virale avviene spesso tramite formaldeide, che lascia la struttura proteica inalterata e quindi non interferisce con il riconoscimento degli epitopi da parte delle immunoglobuline. L’inoculazione del vaccino porta alla produzione di IgG, con una scarsa memoria, quindi c’è bisogno di inoculi ripetuti (i richiami).
Uno dei vaccini inattivati più famosi è il vaccino antipoliomielite di Salk: virus inattivati in formalina e somministrati per via parenterale in grosse quantità e più volte.

Microrganismi attenuati

E’ come nell’esperimento di Jenner: si usano patogeni che replicano nell’uomo ma per qualche motivo non sono gravi, o perché sono adattati ad un organismo diverso, oppure perché sono stati fatti crescere in cellule diverse da quelle che usano normalmente come bersaglio. La vaccinazione con patogeni attenuati porta molti vantaggi ma anche molti più rischi: il vaccino più famoso è di nuovo antipolio ed è stato sviluppato da Sabin. La somministrazione di questo vaccino è molto più simile ad un’infezione vera (per via orale o per inalazione) e fa produrre, oltre le IgG, anche IgA, che impediscono l’infezione virale anche a livello intestinale, impedendo quello che può succedere con il virus di Salk: una persona infetta con il virus della poliomielite può essere un portatore sano, perché il virus replica nel suo intestino ma è fermato nel sangue (dalle IgG). I lati negativi di questo tipo di vaccinazione sono facilmente intuibili: dopotutto si usano patogeni vivi, il pericolo di ammalarsi proprio a causa del vaccino non può essere trascurato.

Altri tipi di vaccino

Oltre all’utilizzo di patogeni inattivati e attenuati esistono molti altri tipi di vaccino, anche questi con punti a favore e punti contro.

Tossoidi: si usano per il tetano e la difterite. In queste infezioni l’importante non è evitare il diffondersi del patogeno nell’organismo, che per sua natura non è portato a farlo, quanto limitare o meglio annullare l’azione delle tossine da essi prodotti. Per questi vaccini si usano tossine fissate in formalina.

Vaccini a subunità: non serve inoculare un intero virus o un intero batterio, spesso basta inoculare una sua parte, un frammento di parete o una proteina esterna, perché venga riconosciuta dagli anticorpi e possa creare immunità. Ad esempio è usato questo tipo di vaccino per la Neisseria gonorreae, l’immunità è data dall’inoculo delle sue fimbrie, parti importanti per l’adesione alle cellule dell’ospite; per lo Streptococcus pneumoniae contro la capsula; per Hepadnavirus contro il cosiddetto antigene Australia, un complesso che comprende alcune proteine esterne del virus.

Vaccini sintetici: identificando un epitopo e il gene che lo produce posso far produrre quell’epitopo inserendolo in un plasmidie e legandolo ad un carrier. Poi inoculo in un coniglio, creando così degli anticorpi protettivi contro quell’epitopo.

Ci sono inoltre anche altre possibilità, come quella di utilizzare le tecnologie del DNA ricombinante o quella di creare piante transgeniche che producano il vaccino, in fin dei conti l’unica arma veramente efficace che abbiamo per contrastare i microrganismi è il nostro sistema immunitario, e bene o male va allenato. Ogni possibilità è una nuova arma a nostro favore.

Fonti: http://www.xagena.it/medicina/azguide/storia1.html
appunti di lezione
Creative Commons License Photo credit: Inferis

Tags: vaccino
20 marzo 2008 - 4:49 pm

Farmacoresistenza e società moderna

Tutti noi sappiamo che certe volte un comune antibiotico non basta per far passare “la fastidiosa sinusite che mi affligge da mesi”, e in genere a quel punto il medico ci consiglia di cambiare farmaco. A volte io stesso, pur non essendo medico, vengo preso da parte da qualche amico/parente che mi chiede “ma secondo te se mi prendo un altro antibiotico sto meglio?” al che io in genere alzo gli occhi, sospiro e tiro fuori la frase che ormai mi sono preparato da anni: “può darsi, ma può anche darsi di no”, giusto per dare una risposta che possa concludere il discorso il più in fretta possibile. E’ che non mi va di cominciare con i pistolotti, e sono sicuro che nemmeno chi mi chiede consiglio ne vuole uno, ma visto che in questo blog si parla di microorganismi, qui posso permettermi di sviluppare il discorso come meglio credo. Premetto però che in questa occasione i meccanismi della farmacoresistenza saranno giusto accennati, mi riservo di dedicar loro un post in futuro. Continue Reading »

Tags: farmacoresistenza
7 marzo 2008 - 9:59 am

Colorazione di Gram e pareti batteriche

GramPosCellEnvelopeLa colorazione di Gram è forse la colorazione batterica più nota. E’ una colorazione cosiddetta differenziale, perché impiega più di un colorante (a differenza delle colorazioni semplici che ne impiegano uno solo). E’ talmente nota che è diventata una caratteristica per differenziare i batteri, a seconda del colore che assumono: in linea generale si chiamano Gram positivi tutti i batteri che si colorano in violetto, mentre si chiamano Gram negativi tutti i batteri che si colorano di rosa. Per colorare un preparato lo si tratta con una colorazione di cristalvioletto per 2-3 minuti, poi si lava e si fissa il colorante con una soluzione di iodio e ioduro di potassio in acqua (liquido di Lugol) per 1 minuto; a questo punto si tratta con un decolorante (alcol etilico o acetone) e infine con un secondo colorante (fuxina, safranina) rosso. I batteri che si colorano col secondo colorante sono Gram negativi, quelli che non lo fanno sono Gram positivi. Perché questa differenza? Tutto è definito dalla parete dei batteri che si presenta diversa nei primi o nei secondi Continue Reading »

Tags: didermi, gram, lipopolisaccaride, monodermi, parete
21 febbraio 2008 - 10:24 am

Nuovo recettore per HIV

Immagine anteprima YouTube

Il video qui sopra mostra brevemente la classica replicazione del virus HIV, un po’ semplificata e schematizzata ma comunque riassume abbastanza bene quello che è scritto su tutti i libri riguardo questo virus: il virus entra nella cellula tramite interazione tra la sua glicoproteina gp120 e il CD4 dei linfociti, avviene la fusione delle membrane tramite la gp41, il capside entra nel citoplasma, comincia il processo di trascrizione inversa che sintetizza il DNA, questo va a integrarsi nel nucleo cellulare e il virus replica. Fino ad oggi si è parlato sempre di recettore (il CD4) e al massimo di co-recettori (CXCR4 e CCR5) per l’ingresso del virus nella cellula, è notizia recente però che il virus può entrare nei linfociti anche attraverso una seconda porta: quella offerta dalla integrina alpha-4 beta-7. Uno studio pubblicato su Nature Immunology mette alla luce questa interazione.

Durante l’infezione il virus invade rapidamente il tessuto linfoide associato all’intestino (gut-associated lymphoid tissue o GALT), che di conseguenza subisce un impoverimento dei linfociti T CD4+, guidando quindi la malattia verso la fase conclamata, meglio nota come AIDS.

L’integrina alpha-4 beta-7 è una molecola molto importante per le interazioni tra i linfociti T e le cellule mostranti l’antigene (antigen presenting cell o APC) soprattutto in quel tratto. Il linfocita T che interagisce con una APC, riconoscendo un peptide non-self, aderisce alla cellula in maniera più stabile, appunto tramite il legame tra questa integrina e il suo ligando presente sulla membrana dell’altra cellula, questo porta alla produzione di un’altra integrina, chiamata LFA-1 (Leukocite Function-associated Antigen 1 o anche CD11aCD18), che lega molecole della famiglia ICAM. LFA-1 è essenziale per la maggior parte delle funzioni linfocitarie mediate dall’adesione, come ad esempio la stimolazione dei T-helper, l’uccisione delle cellule da parte dei linfociti T citotossici (CTL), l’adesione agli endoteli.
L’interazione tra molecole così forte è quindi essenziale per il corretto funzionamento del sistema immunitario, ed è chiamata sinapsi: molti virus usano questo meccanismo per diffondere tra le cellule che aderiscono, ora si è visto che anche HIV è capace di farlo.

Sulla glicoproteina gp120 esistono delle regioni cosiddette ipervariabili, sono cinque e sono nominate come V1, V2, e così via. Si è visto con questo studio che la regione V2 è capace di imitare il legame tra l’integrina alpha-4 beta-7 e il suo ligando, facendo così esprimere LFA-1, che media l’adesione stabile tra le cellule, aiutando quindi il virus a diffondere tra una cellula infetta e una sana.

Fonti
http://www.eurekalert.org/pub_releases/2008-02/nioa-nsi020808.php
Abbas, Lichtman, Pober: immunologia cellulare e molecolare

Tags: APC, HIV, integrina, linfociti T
14 febbraio 2008 - 11:17 am

Virus influenzale (3/3)

Vaccinazioni e trattamenti

Ogni anno, nel periodo autunnale, comincia la campagna di vaccinazioni contro l’influenza, che normalmente è indirizzata soprattutto agli anziani e ai più piccoli: il fatto che non basti un vaccino per tutta la vita come succede per molte altre malattie è dato dall’estrema variabilità del virus, che ogni anno si presenta con mutazioni sui vari antigeni che rendono inefficace la precedente immunizzazione. Il vaccino influenzale può essere formato da virus interi inattivati, da parti dello stesso o da specifici antigeni come l’emoagglutinina o la neruaminidasi. Ovviamente però, questo vaccino non mette al riparo da infezioni di altro tipo, che possono andare dal raffreddore (rhinovirus e altri), alle comunemente note come “influenze intestinali” che possono essere dati da vari patogeni sia virali che batterici (il nome è popolare, in gergo tecnico nessuno si sognerebbe mai di chiamare una gastroenterite da Rotavirus “influenza intestinale”), passando per altre polmoniti con eziologia diversa.

I trattamenti per l’influenza generalmente sono sintomatici: antipiretici per abbassare la febbre e analgesici per i dolori, la malattia è quasi sempre autolimitante. Per i casi più gravi esistono alcuni farmaci come l’amantadina e il ribavirin che agiscono inibendo la replicazione virale in vari stadi, inoltre da qualche tempo si cominciano a testare prostaglandine ciclopentenoniche.

Influenza aviaria

Il virus influenzale ha il suo serbatoio naturale negli uccelli, che normalmente non presentano i sintomi dell’infezione. E’ quindi normale, se deve nascere un nuovo ceppo patogeno per l’uomo, aspettarselo di origine aviaria. Il virus aviario che si sta diffondendo nei paesi asiatici e che qualche hanno fa è arrivato fino ai confini europei è chiamato H5N1, dal tipo di proteine Ha e Na che presenta. Porta una polmonite molto più grave del virus umano comune, con una mortalità globale che si aggira intorno al 74% (fonte). Tuttora è presente una epidemia molto diffusa in Indonesia, dove attualmente si registrano 103 morti su 127 casi (fonte). Siamo di fronte al nuovo virus pandemico, che andrà a scalzare il virus della spagnola dal suo triste primato? Alcuni sono convinti di sì, ma esistono molte ragioni per essere in pensiero, non angosciati.

Prima di tutto, se si vanno a vedere bene le statistiche, si nota che la maggior parte dei decessi è a carico di popolazioni povere, con condizioni igieniche molto scarse e in cui il contatto con animali potenzialmente infetti è quotidiano e molto stretto.
Secondo: il virus ha mostrato di seguire le rotte migratorie degli uccelli selvatici, questo porta di sicuro ad un rallentamento dell’epidemia, anche se in questo modo viaggia molto velocemente: non sono stati riportati casi, fin ora, che presentino infezione umana da parte di un uccello selvatico, ma solo da pollame domestico, quindi il virus prima deve infettare dei polli, poi può passare all’uomo.
Terzo: il contagio interumano per ora è escluso, o almeno molto difficile. Nel 99,9% dei casi ci vuole un contatto diretto con animali infetti, e questo è un altro ostacolo alla pandemia

Il vaccino per l’aviaria ancora non esiste, ma esistono studi che suggeriscono una parziale copertura anche da parte del vaccino comune, inoltre la vaccinazione permetterebbe di rendere ancora più difficile l’evento di antigenic shift, perché ostacola la diffusione del virus umano.

In conclusione, l’aviaria è una malattia per ora tenuta sotto controllo, non c’è alcun motivo di allarme, anche se non è consigliabile abbassare la guardia.

Fonti:
R. Dulbecco, H.S. Ginsberg: Virologia

http://www.who.int/eng/

http://www.flu.iss.it/vaccinazione.htm

Tags: antigenic shift, emoagglutinina, influenza, neuraminidasi, orthomyxovirus
10 febbraio 2008 - 11:35 am

Virus influenzale (2/3)

Replicazione

I diversi ceppi di virus influenzale sono tutti capaci di replicarsi nella cavità amniotica di uova di pollo embrionate , che in laboratorio rappresenta il modo migliore per la propagazione del virus; inoltre molti ceppi si moltiplicano bene in diversi tipi di colture cellulari e nei tratti respiratori di furetti e topi.
L’ingresso del virus nella cellula avviene tramite l’interazione tra la proteina HA e l’acido sialico: questo comporta l’internalizzazione del virus tramite endosoma. La fuoriuscita del virus dalla vescicola avviene dopo l’acidificazione, che causa un cambio conformazionale nell’HA, causando l’esposizione del peptide fusogeno che fonde l’envelope virale e la mambrana dell’endosoma, liberando nel citoplasma il core. A differenza di altri virus a RNA, in Orthomyxovirus la replicazione è nucleare.
PB1, PB2 e PA hanno insieme la funzione di RNA-polimerasi RNA-dipendente (RNA-trascrittasi), e trascrivono il filamento di mRNA a partire dagli RNA a filamento negativo del genoma virale. Il virus utilizza meccanismi eucariotici per aggiungere il cap e la catena di poliA, per questo motivo ha necessità di entrare nel nucleo della cellula.
L’RNA messaggero trasloca nel citoplasma dove è tradotto, si formano le proteine del capside (NP) e gli enzimi PB1, PB2 e PA che saranno presenti nei virioni maturi, inoltre vengono trascritte copie dell’RNA a filamento negativo che sarà il corredo genomico del virus. La maturazione di HA e NA avvene a livello del Golgi, dove vengono glicosilate, per poi essere trasportate alla membrana cellulare. A questo punto avviene l’assemblaggio del virus: anche il nucleocapside è trasportato in membrana e il virus esce per gemmazione. La proteina NA esplica a questo livello il suo ruolo: taglia i residui di acido sialico in modo da evitare interfereze tra la membrana e i virus appena formati.

Patologia

A livello cellulare il virus può causare principalmente due effetti: inibizione della sintesi delle proteine cellulari (con annessa aumento della sintesi di quelle virali) e stress ossidativo.
Il primo effetto si ha sia sulla sintesi di nuove proteine, sia sul blocco della traduzione di proteine che stanno già nascendo. Il virus agisce sul complesso proteico CBP (Cap binding protein): esso è formato da tre subuntuà: eIF4E, eIF4A ed eIF4G, che insieme formano il CBP, o eIF4F. Avviene una fosforilazione della subunità 4A e una defosforilazione di 4E, come conseguenza abbiamo una aumentata efficienza di traduzione per gli mRNA virali e un’inibizione di quelli cellulari.
Il secondo effetto è dato dalla comparsa, durante l’infezione virale, di specie reattive dell’ossigeno.

A livello clinico la malattia si presenta come una polmonite, e i sintomi sono conosciuti da tutti, tanto da essere presi a confronto con quelli di altre malattie: febbre, dolori diffusi, stanchezza, inappetenza, che però non sono causati dal virus in sé, che raramente da viremie, ma da prodotti dell’infezione, come frammenti di cellule morte o citochine di origine leucocitaria. Normalmente è autolimitante, le situazioni più gravi si trovano in pazienti già debilitati oppure in presenza di sovrainfezioni batteriche.

Tags: core, emoagglutinina, envelope, influenza, neuraminidasi, orthomyxovirus, RNA-trascrittasi
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8 febbraio 2008 - 11:04 am

Virus influenzale (1/3)

La fine della prima guerra mondiale coincise con una catastrofe sanitaria che portò più vittime della stessa guerra: 20 milioni di morti in meno di un anno. Tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919 l’influenza colpì con una violenza mai vista, espandendosi rapidamente in tutto il mondo e facendo il doppio delle vittime rispetto alla guerra appena finita. Questa epidemia fu chiamata “la spagnola”, non perché fosse originata in Spagna, ma perché la Spagna era neutrale e non era sottoposta a censure sui giornali, così diede per prima la notizia. Non fu certo la prima, e nemmeno l’ultima tra le gravi epidemie di influenza, ma di sicuro fu quella che causò più danni.

Struttura e classificazione

Il virus influenzale (Orthomyxovirus) è l’agente eziologico della classica influenza stagionale, che si presenta tipicamente come una infezione delle vie aeree superiori  o con una polmonite. Sono stati isolati tre tipi di virus: A, B e C, l’ultimo dei quali molto raramente causa epidemie, inoltre esistono moltissimi sottotipi, alcuni umani, altri aviari, altri ancora che infettano altri mammiferi.
La forma e le dimensioni del virus possono essere vari, ma generalmente si presentano come sferici o ovoidali, con un diametro di circa 100 nm (qui delle foto). Il virione si presenta rivestito da un envelope lipidico su cui troviamo varie proteine strutturali (le proteine di matrice o M), non strutturali (NS) e due glicoproteine transmembrana: emoagglutinina (HA) e neuraminidasi (NA), importanti per l’adsorbimento e l’ingresso del virus nella cellula.
All’interno dell’envelope troviamo il core virale, dove è contenuto il genoma, formato da 8 molecole di RNA a singolo filamento a polarità negativa, nucleoproteine del capside (NP) associate ad essi, e tre proteine importanti per la replicazione del genoma: PB1, PB2 e PA.

Antigenicamente si distinguono delle varianti all’interno dei gruppi A e B, le quali però non sono associate tanto alla traduzione delle proteine, quanto agli zuccheri associati alle glicoproteine. Inoltre però esistono, all’interno del gruppo A, ulteriori differenziazioni che fanno riferimento alla struttura primaria delle due proteine HA e NA, dando così origine a vari gruppi di virus quali H1N1 (responsabile della spagnola), H2N2, H5N1 e così via.
Il virus influenzale può cambiare antigenicamente tramite due meccanismi: antigenic drift e antigenic shift. Il primo tipo di variazione causa i cosiddetti cambiamenti antigenici minori, e si basa sul meccanismo classico delle mutazioni puntiformi del genoma. Il secondo invece è detto anche cambiamento antigenico maggiore, ed è causato da un fenomeno di ricombinazione.

Antigenic shift. La ricombinazione virale può esistere solo nel caso in cui due virus diversi infettino la stessa cellula: nell’assemblamento dei virioni alcuni frammenti di RNA del primo virus si mischieranno con altri del secondo, dando origine così ad un nuovo virus, con caratteristiche diverse da quelli originali. Nel 1919 questo fenomeno ha portato alla pandemia che ha ucciso 20 milioni di persone: un virus umano e uno aviario si incontrarono in un ospite che poteva essere infettato da entrambi: il maiale. Dopo il fenomeno di antigenic shift avvenuto nel maiale, il virus acquistò la capacità di infettare esseri umani e di trasmettersi tra loro, senza bisogno di passaggi intermedi in altri animali.
Questa è la paura odierna nei riguardi dell’H5N1: il virus, normalmente aviario, ha acquistato la capacità di infettare anche gli uomini, ma non di propagarsi tra loro. La malattia portata dall’H5N1 è più grave dell’influenza classica, ma è di difficile diffusione, se dovesse incrociarsi con un ceppo umano ci potrebbero essere molti problemi nel contenerla.

Fonti:
R. Dulbecco, H.S. Ginsberg: Virologia

Tags: antigenic shift, core, emoagglutinina, envelope, influenza, neuraminidasi, orthomyxovirus
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5 febbraio 2008 - 5:24 pm

Neisseria meningitidis (2/2)

Epidemiologia

Il meningococco abitualmente si trova nel nasofaringe umano senza creare problemi, questa condizione è molto importante sia per la sua diffusione, sia per lo sviluppo di difese immunitarie da parte dell’ospite. I portatori sani sono in una percentuale compresa tra il 5 e il 30% e solo pochi sviluppano malattia, questo porta a supporre che siano più importanti le condizioni dell’ospite, rispetto a qualche caratteristica batterica, per sviluppare la malattia.
Occasionalmente ci sono episodi epidemici, in genere tra l’inverno e la primavera da diversi ceppi a seconda della zona geografica.

Diagnosi

La meningococciemina si presenta con una eruzione cutanea, che può essere localizzata, in caso di malattia lieve, o più diffusa. La meningite porta con se sintomi che sono difficilmente riconoscibili, se non ci si trova in stato di epidemia, e in genere la diagnosi è possibile solo tramite esame di laboratorio, su campioni di sangue, liquido cerebrospinale e tamponi nasofaringei, in cui si cerca di individuare il batterio.

Controllo

Esistono vaccini basati sui polisaccaridi della capsula, che però non hanno effetto nei bambini molto piccoli, o hanno durata nel tempo limitata (in quelli di età compresa tra 1 e 4 anni). Il vaccino non è obbligatorio, perché nei paesi industrializzati l’incidenza della malattia è sempre molto bassa, la maggior parte delle volte il contagio è familiare (da 500 a 800 volte più probabile rispetto al contagio nella popolazione generale), quindi solo i familiari in genere subiscono trattamenti profilattici.

Statistiche italiane e situazione attuale

Il sito EpiCentro riporta le statistiche dell’Istituto Superiore di Sanità riguardanti i casi di meningite. Come si può vedere, i casi di meningite ogni anno sono circa 900, e stando ai dati ufficiali un terzo di questi causati dal meningococco, un terzo da pneumococco (che vedremo prossimamente) e l’ultimo terzo da svariati altri batteri meno comuni.
Considerando i numeri, quindi, si può verificare la sensatezza della corsa al vaccino contro la meningite, e l’allarme generale dato dai mass media. Arrotondando un po’ i conti, ci accorgiamo che 900 casi all’anno sono circa 2 o 3 al giorno (ma sappiamo che in genere le epidemie si concentrano tra inverno e primavera), inoltre solo un caso su tre è dato dal meningococco.
Andando a stringere, tutti gli anni c’è un caso al giorno in tutta Italia di meningite da meningococco, che ha tra le 500 e le 800 possibilità in meno di diffondersi nella popolazione di quante non ne abbia di diffondersi nella famiglia di quel caso specifico. La pressione dei media spinge centinaia di persone a chiedere il vaccino contro il meningococco, che da solo è solo un terzo dei batteri che causano meningite, portando quindi ad un allarmismo decisamente ingiustificato.

Fonti:

http://gsbs.utmb.edu/microbook/ch014.htm

Tags: attualità, Italia, meningite, meningitidis, Neisseria, vaccino
4 febbraio 2008 - 6:02 pm

Neisseria meningitidis (1/2)

Negli ultimi giorni mi sono chiesto se partire come tutti i libri, dalle cose generali e poi passare alle cose più specifiche, oppure andare a caso. Ho scelto la seconda possibilità, perché in fin dei conti questo è un blog, non un libro, e non è detto che quello che io scrivo (o chi per me) debba seguire un filo logico troppo rigido. Ho deciso di partire con Neisseria meningitidis, che è un Gram-negativo. Il motivo per cui ho deciso di non parlare della colorazione di Gram prima di un qualunque batterio particolare, ad esempio, è perché la meningite è estremamente attuale come argomento, e credo che sia più soddisfacente sviluppare un argomento anche mediaticamente interessante piuttosto che solo didatticamente. Stesso discorso sarà fatto anche con la virologia. Comunque ho intenzione anche di affrontare temi generali, come metabolismi, genetica e colorazioni varie, basta solo avere un po’ di pazienza!

Struttura e classificazione

Neisseria meningitidis è il più rilevante degli agenti eziologici della meningite batterica, anche se non l’unico. E’ un batterio Gram-negativo, con dimensioni comprese tra 0,6 e 1 micron, spesso ogni batterio cresce insieme ad un altro, formando una coppia, ed è chiamato anche meningococco. Sulla superficie presenta pili, appendici simili a peli importanti per l’aderenza del batterio alle superfici, e la sua membrana esterna presenta proteine, fosfolipidi e il lipopolisaccaride (LPS), che in questi batteri è più corto del solito, per questo è chiamato lipooligosaccaride (LOS). Infine, N. meningitidis è circondato da una capsula polisaccaridica, che è un importante fattore di virulenza. Sono presenti dodici sierotipi, indicati generalmente con una lettera dell’alfabeto, divisi proprio attraverso la composizione della capsula, e la caratterizzazione delle proteine di membrana divide la specie in cinque classi.

Patogenesi

L’unico serbatoio naturale del batterio che finora si conosce è l’epitelio naso-faringeo umano. E’ diffuso per via aerea e l’infezione comincia con l’aspirazione delle particelle batteriche. Pili e proteine di membrana chiamate Opa aderiscono sulle cellule epiteliali, successivamente una seconda proteina di membrana, chiamata Omp-I o Por, media l’ingresso del batterio nella cellula, inducendo endocitosi. Attraversano tutta la cellula con un meccanismo non ancora noto, uscendone nella parte basale, da dove possono entrare nel flusso sanguigno e successivamente nel sistema nervoso centrale. L’infezione da N. meningitidis si manifesta in due modi: meningococciemia, che presenta lesioni sulla pelle, e meningite batterica acuta. La prima è più lieve, e può risolversi in uno o due giorni, la seconda può portare ad una forma fulminante, presente nel 5-15% dei casi e ha un’alta mortalità.

Difese immunitarie

La prima difesa è l’epitelio, che se è integro può fare da prima barriera contro l’infezione.
Nel siero si possono trovare anticorpi IgG e IgM con azione battericida contro antigeni capsulari e non capsulari. L’importanza degli anticorpi nel prevenire le infezioni è messa in evidenza dall’alto tasso di infezioni tra i bambini intorno ai nove mesi di vita: gli anticorpi materni agiscono in difesa del bambino, cosa che dopo un certo periodo di tempo non possono più fare.
Inoltre si è visto come, in soggetti con produzione delle proteine del complemento compromessa, N. meningitidis possa causare malattia anche nonostante la presenza di anticorpi specifici.

Fonti:

http://gsbs.utmb.edu/microbook/ch014.htm

http://textbookofbacteriology.net/neisseria.html

Tags: Gram-negativo, lipopolisaccaride, meningite, meningitidis, Neisseria, sierotipi
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