Viaggio nella biologia cellulare e molecolare

Inside the Cell

11 December 2010 - 22:08

Un’altra vita?

GFAJ-1

Non capita tutti i giorni che gli scienziati si mettano a parlare di alieni. Ma di “alieni” invece se ne è parlato molto negli ultimi giorni, in seguito ad un annuncio da parte della NASA, la ben nota agenzia spaziale americana. In realtà, la parola alieni è stata utilizzata solo a scopo divulgativo, probabilmente per destare l’attenzione del pubblico. Pur avendo a che fare con una scoperta di un certo interesse, non si tratta in realtà di alcun essere venuto dallo spazio. La notizia diffusa dagli scienziati americani riguarda piuttosto un batterio, più terrestre che mai, in grado di sopravvivere sostituendo il fosforo con l’arsenico per il suo sostentamento.
La scoperta rientra in quella disciplina nota come astrobiologia (o esobiologia), una scienza che ha come oggetto di studio la vita al di fuori del pianeta Terra. Come tutti noi sappiamo, al momento non esistono forme di vita extraterrestri conosciute, di conseguenza l’astrobiologia non si occupa direttamente della vita su altri pianeti, ma piuttosto lavora formulando teorie su dove e come la vita potrebbe esistere in altre parti dell’universo. Gli astrobiologi elaborano i dati che le osservazioni spaziali forniscono, dati sulla presenza di pianeti intorno ad altre stelle, sulla loro distanza dal proprio sole, e sulla composizione dell’atmosfera. Queste informazioni servono a far capire agli scienziati se altri pianeti possano o meno avere le caratteristiche geofisiche e chimiche che sulla Terra hanno permesso la nascita della vita, ipotizzando di conseguenza se la vita possa essere presente anche su quei corpi celesti. In questo senso l’astrobiologia potrebbe essere considerata una scienza fondamentalmente speculativa.

Le recenti scoperte della NASA sono state presentate, prima dell’annuncio, come qualcosa che avrebbe dato nuova linfa alla scienza dell’astrobiologia. Non si sapeva ancora in cosa consistesse tale scoperta, ma come è facile immaginare l’annuncio ha presto fatto il giro del mondo ed è stato accolto come una possibile rivelazione della scoperta di vita extraterrestre.
Così non è stato. Non è stata trovata nessuna forma di vita aliena su Marte, su Titano o su qualche altro corpo extraterrestre. Quello che avevano scoperto gli scienziati della NASA era piuttosto un batterio terrestre, vivente nel Mono Lake, un lago salato californiano. Piuttosto vicino, si direbbe, rispetto ai pianeti extrasolari. Anche se vivente sulla Terra, questo batterio è stato comunque chiamato con l’appellativo “alieno”. Questo non tanto per il luogo dove vive, ma piuttosto per le condizioni in cui è in grado di vivere. Il microrganismo in questione è un ceppo degli Halomonadaceae chiamato GFAJ-1. Esso è in grado di crescere anche quando la concentrazione di fosforo è troppo bassa per permettere la vita, usando per il suo sostentamento l’arsenico, che è presente in concentrazioni relativamente elevate nell’ambiente in cui vive.
Come sappiamo il fosforo, sotto forma di fosfato, è un elemento necessario per la vita. Esso fa parte della struttura fondamentale degli acidi nucleici (DNA e RNA) ed è determinante per il funzionamento di proteine e lipidi. L’ATP, la molecola usata da tutte le cellule viventi come unità di scambio dell’energia, funziona proprio usando il legame altamente energetico fra gruppi fosfati.

L’ambiente dove vive GFAJ-1 è un lago salato che contiene alte concentrazioni di arsenico (200 μM). Gli scienziati hanno inserito un inoculo di sedimenti lacustri in un terreno contenente glucosio, vitamine e tracce di metalli, ma completamente privo di fosfato e additivi organici. L’unico fosfato presente nel mezzo derivava da impurità dei suoi componenti salini, ed era in concentrazione di solo 3,1 μM.
Addizionando arseniato in concentrazioni diverse i ricercatori sono riusciti ad isolare il ceppo in questione, che è risultato in grado di crescere nel terreno contenente il fosforo in basse concentrazioni e addizionato con l’arsenico. Per verificare che l’arseniato venisse effettivamente acquisito dal microrganismo è stata usata la spettrometria di massa. L’utilizzo di arseniato marcato con un  isotopo radioattivo di As, inoltre, ha permesso di osservare la localizzazione intracellulare dell’arsenico utilizzato dalle cellule. L’arsenico è stato osservato in frazionamenti cellulari di proteine, metaboliti, lipidi e acidi nucleici. La presenza dell’arsenico nella struttura del DNA è stata in seguito verificata con ulteriori metodi spettroscopici, mentre la concentrazione di fosforo nel DNA dei batteri cresciuti nel terreno quasi privo dell’elemento sono risultate incompatibili con la vita.
Bisogna sottolineare che, tuttavia, il batterio non è un arsenofilo obbligato. GFAJ-1 cresce più velocemente quando gli si fornisce fosforo invece di arsenico, anche se il fosforo è di un ordine di grandezza meno concentrato dell’arsenico. Questo perché il fosforo dà luogo a molecole più stabili di quelle contenenti arsenio, e quindi è un elemento migliore per la costruzione delle biomolecole. Tuttavia gli esperimenti condotti dalla NASA hanno dimostrato che il microrganismo scoperto è in grado di sostituire il fosfato con l’arseniato nelle sue molecole biologiche nel caso il fosforo scarseggi. L’arseniato deve dunque poter adempiere a tutte quelle funzioni chimiche e dare luogo alle stesse interazioni del normale fosfato all’interno delle cellule.

Quali conclusioni scientifiche, e forse anche filosofiche, potremmo trarre da queste osservazioni? La scoperta della NASA non è importante in quanto conferma diretta di vita aliena, come molti speravano prima che i dettagli della scoperta venissero diffusi. Essa è probabilmente importante su un livello concettuale. Questo infatti è forse l’indizio più consistente del fatto che la vita, forse, può funzionare anche in assenza di tutte quelle condizioni che sulla Terra sono fondamentali per gli organismi, come la presenza di una sufficiente concentrazione di fosforo. Questa scoperta apre la strada ad un modo diverso di lavorare e ad ipotesi più flessibili riguardo la presenza di vita nell’universo.
Il fosforo è stato da sempre considerato un elemento di fondamentale importanza per il DNA e l’RNA, le molecole alla base della vita. Nonostante sappiamo da tempo che alcuni elementi accessori alla vita, come il ferro, possono essere sostituiti con altri, fino a poco tempo fa pochi biologi, probabilmente, avrebbero preso in considerazione che molecole come DNA e RNA potessero funzionare anche senza fosforo. Per quanto ne sapevamo, infatti, la composizione di tali molecole fondamentali è la stessa in tutti gli organismi conosciuti.

Si tratta questa di “un’altra vita”? Dobbiamo considerare GFAJ-1 un organismo a parte rispetto a tutti gli altri? La risposta credo che sia negativa. Nonostante la strategia usata dal batterio per sopravvivere sia per il momento unica, dobbiamo ammettere che tale caratteristica deve essere stata acquisita secondariamente durante l’evoluzione. Il batterio condivide antenati comuni a tutti gli altri organismi terrestri, antenati che si sono evoluti, probabilmente, con un DNA di struttura tipica. Dunque gli alieni ancora non sono scesi sulla terra e GFAJ-1 è più terrestre che mai. Ma questa scoperta dopo tutto ci porta ad una riflessione: forse la vita ha più assi nella manica di quello che pensavamo. Forse in futuro ci riserverà altre inaspettate sorprese che, perché no, potrebbero riguardare ambienti esterni al nostro pianeta.

Tags: Arsenico, Astrobiologia, DNA, GFAJ-1, NASA
17 November 2010 - 18:13

Questione di identità: le nuove frontiere del controllo del differenziamento cellulare

blood cells

I ricercatori hanno ottenuto cellule del sangue a partire dalla pelle

Negli scorsi articoli, parlando di possibili trattamenti per il ringiovanimento cellulare, abbiamo accennato alle iPSC, le cellule staminali pluripotenti indotte. Vediamo di approfondire l’argomento, parlando anche degli ultimissimi sviluppi che si stanno avendo in questo campo.

Ringiovanire le cellule

Le iPSC non sono né staminali embrionali né staminali adulte, ma sono ottenute attraverso la riprogrammazione di cellule mature, le quali sotto opportune manipolazioni regrediscono ritornando indifferenziate. Attualmente una dozzina di tipi cellulari (fra i quali la pelle) sono stati riprogrammati per trasformarli in staminali.

Per ottenere le iPSC gli scienziati hanno prima di tutto identificato quei geni che sono attivi nelle cellule pluripotenti e non in quelle differenziate. Di questi geni (circa una ventina) ne sono stati poi selezionati quattro che sono risultati quelli fondamentali per ottenere la riprogrammazione.

La messa a punto di questa tecnologia ha prima di tutto avuto delle implicazioni a livello concettuale: è stata di fatto smentita la convinzione che, una volta differenziata, una cellula non possa più tornare indietro allo stadio immaturo di staminale. Oltre a questo le staminali indotte hanno aperto anche nuove prospettive terapeutiche ed hanno risolto, almeno a livello teorico, molte delle problematiche legate all’applicazione terapeutica delle staminali “classiche”.

Quali sono i vantaggi che offrono le cellule staminali indotte rispetto alle tipiche cellule staminali embrionali o adulte? Anzitutto i problemi etici che spesso limitano gli scienziati nel lavorare con le cellule staminali embrionali non sussistono più con le iPSC, e questo non è poco. Le staminali indotte possono infatti essere fenotipicamente simili alle staminali pluripotenti ottenute da embrioni, ma di fatto esse non sono embrionali, cioè non si sono generate grazie ad un evento di fecondazione. Questa caratteristica le rende teoricamente immuni da discussioni di carattere etico o religioso, che nel nostro paese hanno un peso particolarmente elevato. Le iPSC sono cellule “qualunque”, che si erano differenziate, e che semplicemente sono state riprogrammate per tornare staminali. Insomma, cercare di riconoscere una dignità di “individuo” alle staminali indotte (come si fa con gli embrioni) sarebbe abbastanza forzato.

Oltre ai problemi etici con le iPSC sono stati risolte anche alcune difficoltà tecniche. Ottenere le iPSC è un processo più semplice a livello tecnico di quello che passa attraverso la clonazione per l’ottenimento di staminali embrionali.

Tuttavia la tecnologia delle staminali indotte è ancora acerba e necessita di perfezionamenti prima che possa essere sfruttata attraverso applicazioni pratiche. Le difficoltà, infatti, non sono ancora state del tutto superate. Sebbene le iPSC appaiano del tutto simili alle staminali pluripotenti normali ed esprimano i diversi marker di pluripotenza, non sempre riescono a comportarsi veramente da cellule pluripotenti. La ricerca è quindi attualmente concentrata a sviluppare metodi efficaci per riconoscere e selezionare le cellule staminali indotte in grado di funzionare bene dalle altre.

Cambio di identità

Mentre c’è che cerca di risolvere i problemi legati all’uso delle iPSC, non mancano altri sviluppi paralleli che riguardano il campo del controllo del differenziamento cellulare. Alcuni scienziati annunciano di essere già andati oltre questa tecnologia. Recentemente infatti la rivista Nature ha pubblicato un articolo nel quale alcuni ricercatori descrivono come siano riusciti a superare il concetto di staminale indotta, ottenendo cellule del sangue a partire da fibroblasti dermici senza passare per lo stadio di staminale. Grazie alle iPSC avevamo già capito che una cellula differenziata può tornare sui propri passi e rinunciare all’identità che aveva acquisito, diventando staminale e poi eventualmente differenziando in altri tipi di tessuti. Grazie a questo nuovo studio adesso sappiamo che lo stadio di staminale può essere scavalcato, ed un tessuto può essere indotto ad essere convertito in un altro direttamente.

I ricercatori della Mc Master University che hanno portato avanti questo studio sono riusciti quindi a cambiare l’identità delle cellule della pelle in quella delle cellule sanguigne. Questo è stato ottenuto attraverso l’induzione dell’espressione di fattori di trascrizione che di solito sono attivi durante l’ematopoiesi e grazie alla stimolazione con alcune citochine. Ciò ha portato prima alla generazione di cellule che esprimono il marker leucocitario CD45, e poi alle diverse cellule della linea leucocitaria ed eritrocitaria. L’aspetto importante è che tuttò ciò si è ottenuto per attivazione dei meccanismi adulti di ematopoiesi, e non di quelli delle cellule embrionali indifferenziate.

Dovrà passare ancora del tempo prima che si possa avere un’applicazione pratica e terapeutica di questi nuovi passi avanti della nostra conoscenza dei meccanismi di differenziamento cellulare. Sia le iPSC che le tecnologie che permettono il cambio diretto di identità cellulare sono ancora da perfezionare e ottimizzare. Questi risultati però arricchiscono sempre più la convinzione che lo sviluppo di biotecnologie simili sarà alla base della medicina di domani. I problemi etici derivanti dall’uso di cellule staminali embrionali potranno un giorno essere definitivamente scavalcati, e la cura di molte malattie potrà essere più semplice, più efficace e forse anche più economica.

Tags: IPSC, pelle, sangue, staminali
24 October 2010 - 15:38

DNA, questo sconosciuto

Dal 1953, anno in cui Watson e Crick pubblicavano la struttura tridimensionale della doppia elica del DNA, sono stati fatti ampi progressi nel campo della genetica. Questi passi avanti hanno portato, negli ultimi 60 anni, a nuove incredibili conoscenze, dalla definizione degli RNA catalitici negli anni ’80 fino al completamento del progetto genoma umano alcuni anni fa. Nonostante questi grandi progressi, e nonostante oggi sequenziare un genoma sia diventato quasi una routine in alcuni laboratori, il sequenziamento dei genomi ci ha insegnato un’importante lezione: la conoscenza anche completa della sequenza nucleotidica rappresenta solo il primo passo nella scoperta delle funzioni del DNA, molecola che sembra riservare sempre nuove sorprese agli scienziati che si occupano di genetica.

L’era postgenomica

La differenza di sequenza fra il genoma umano e quello delle scimmie è estremamente bassa. Questo porta in evidenza un importante interrogativo: cosa rende diverse specie così simili per la sequenza del DNA? Se in passato si credeva che sequenziando il genoma di un organismo si potesse comprenderne tutti i processi biologici, oggi sappiamo invece che il pattern di espressione proteico di due cellule con contenuto genomico simile può essere molto diverso e la sua diversità non può essere compresa a pieno osservando la sola sequenza del DNA. Questo è il motivo per il quale, da qualche anno, è nata una nuova importante disciplina, chiamata proteomica. La proteomica ha lo scopo di studiare il cosiddetto proteoma, vale a dire l’insieme delle proteine espresse nelle cellule in un determinato momento o nel contesto di determinati processi. Lo scopo è anche quello di caratterizzare i meccanismi di regolazione che portano, da uno stesso genoma, alla definizione di quadri di espressione proteica anche molto diversi in tessuti differenti o in momenti diversi dello sviluppo. Si pensi al bruco e alla farfalla: stesso organismo e stesso DNA, ma fenotipo decisamente diverso.

RISC

Modello tridimensionale di RISC, complesso proteico implicato nel silenziamento a microRNA

I nuovi livelli della regolazione genica

Tali meccanismi di regolazione dell’espressione genica sono in parte ancora da scoprire. Se infatti sappiamo già molto sulla regolazione della trascrizione basata sull’interazione dei fattori di trascrizione con specifiche sequenze a monte o a valle dei geni, c’è ancora molto da scoprire quando si prendono in considerazione altri livelli sui quali può agire la regolazione dell’espressione genica. Ad esempio, la sintesi di una proteina può essere regolata a livello traduzionale agendo sul blocco o sulla degradazione del suo mRNA. Una strategia di questo tipo fa uso dei cosiddetti RNA antisenso. Essi sono molecole polinucleotidiche in grado di legarsi a mRNA complementari, impedendone così la traduzione da parte dei ribosomi.
I microRNA sono un altro tipo di RNA regolatori. Essi sono in grado di riconoscere mRNA a sequenza complementare e impedirne la traduzione guidandoli verso la degradazione. Sebbene i microRNA siano conosciuti da tempo e siano usati anche a scopo sperimentale per il silenziamento genico, recentemente una nuova scoperta ha reso il quadro ancora più complesso. Alcuni scienziati del Medical Center di Boston, infatti, hanno scoperto che il ruolo di microRNA e mRNA può essere ribaltato: RNA trascritti, ma non codificanti, possono legarsi ai microRNA impedendo che essi possano operare il silenziamento genico, aggiungendo così una altro punto alla lista dei possibili meccanismi di regolazione.

Applicando il modello dell'oscillatore armonico alla molecola del DNAn Elisabeth Rieper ne ha costruito un modello strutturale quantistico

Applicando un modello di oscillatori armonici alla molecola del DNA, Elisabeth Rieper ne ha costruito un modello strutturale quantistico

La rivincita del DNA spazzatura

La scoperta di queste nuove molecole nucleotidiche implicate nella regolazione genica ha contribuito ad assegnare una funzione ad almeno una parte di quella porzione del genoma non codificante proteine, che negli anni passati era stata etichettata con il nome di junk DNA, vale a dire DNA spazzatura. Per molto si è discusso sulla possibile funzione di questa ampia porzione del genoma. Da molti era considerato nient’altro che DNA “egoista” che, simile ad un parassita, si era accumulato nei genomi pur non svolgendo alcuna funzione attiva, ma trasmettendosi di generazione in generazione insieme al DNA codificante. Altri ipotizzavano per il junk DNA una funzione di “tampone” per le mutazioni. Si era pensato cioè che il fatto che i geni fossero diluiti in mezzo ad una grande quantità di DNA inutile contribuisse ad abbassare la probabilità che una mutazione deleteria cadesse all’interno di un gene.
Oggi il DNA per il quale non si conosce una funzione sta diventando meno abbondante. Sempre più psuedogeni e sequenze di RNA non codificante vengono riconosciuti come responsabili della regolazione genica pur non sintetizzando proteine, ampliando così la porzione considerata funzionale del genoma.

Nuove frontiere: DNA quantistico

Una branca a dir poco avveniristica della biologia è la cosiddetta quantum biology, cioè “biologia quantistica”. Essa si prefigge di studiare l’implicazione dei fenomeni descritti dalla fisica quantistica all’interno dei sistemi biologici. Non accade spesso di sentir parlare di questo tipo di studi, ma i risultati ci sono e probabilmente ci aiuteranno in futuro a comprendere meglio i processi biochimici e la vita stessa.
Un fenomeno molto particolare del mondo dei quanti è il cosiddetto entanglement. Due particelle in stato di entanglement sono in grado, almeno apparentemente, di trasmettersi reciprocamente l’informazione sul proprio stato quantistico in maniera non-locale, cosa che da decenni assilla la mente dei fisici. Secondo uno studio condotto da Elisabeth Rieper della National University of Singapore il fenomeno dell’entanglement quantistico avrebbe un ruolo fondamentale nella strutturazione del DNA, affermando addirittura che secondo il modello strutturale classico la molecola del DNA non avrebbe energia sufficiente a rimanere unita.

Tutti questi nuovi dati e scoperte ci suggeriscono che il DNA, la molecola fondamentale della vita, racchiude ancora numerosi segreti che attendono di essere scoperti. Le osservazioni dei dati sperimentali, anche se ci forniscono nuove conoscenze, spesso introducono interrogativi nuovi, rendendo sempre più vario e complesso lo studio del fenomeno della vita.

Tags: DNA, entanglement, junk DNA, microRNA, proteomica
9 October 2010 - 17:03

Sconfiggere l’invecchiamento

Alcuni esperti pensano che la medicina di oggi abbia raggiunto un livello sufficientemente avanzato da potersi dedicare, oltre alla cura delle malattie, anche alla battaglia contro il più endemico dei morbi: la vecchiaia.
Cerchiamo di fare il punto della situazione su quali siano i progetti e le speranze dei moderni scienziati.

Mangia meno e vivi di più?

Osservazioni compiute in vermi e moscerini hanno portato alcuni studiosi a trarre significative conclusioni: una dieta di restrizione calorica aumenta la longevità in questi animali, fino a raddoppiare la durata della loro vita. Questo principio potrebbe essere applicato anche all’uomo? Secondo Valter Longo, scienziato italiano all’estero che ha condotto studi di questo genere, probabilmente non è molto sano portare avanti un regime alimentare di restrizione calorica, ma si potrebbe fare qualcosa modificando il contenuto della dieta.
I risultati osservati negli animali potrebbero essere dovuti ad un fenomeno di adattamento evolutivo: il loro corpo in condizioni di basso apporto nutritivo non riesce a riprodursi in modo ottimale. È per questo che allora i meccanismi di invecchiamento cellulare verrebbero rallentati, in modo che l’individuo possa vivere di più per vedere tempi migliori, e sperare un giorno di nutrirsi sufficientemente per la riproduzione.

L’invecchiamento è regolato?

Queste supposizioni ci fanno intuire un punto importante: i fenomeni dell’invecchiamento sembrano essere regolati in qualche modo, dipendendo dagli agenti che operano sulle cellule e che influenzano le vie biochimiche responsabili. Se è così possiamo pensare, almeno da un punto di vista teorico, di poter agire su questi meccanismi di regolazione, in modo da manipolarli a nostro piacimento.
Secondo gli scienziati basterebbe addirittura modificare il regime alimentare, adottando ad esempio diete più povere di proteine, per riuscire ad allungare la vita.
Alcuni studi nel lievito hanno dimostrato, ad esempio, che esisterebbero delle vie di segnalazione in grado di agire sull’invecchiamento. Una di queste è il cosiddetto “bersaglio della rapamicina”. La rapamicina è una proteina immunosoppressore in grado di bloccare questa via. La sua somministrazione nei topi ha causato un aumento della longevità.

Ringiovanire le cellule

Quando si parla di sconfiggere la vecchiaia pensiamo subito all’invecchiamento dell’organismo in toto. Tuttavia, lasciate a parte tutte le aspirazioni di ottenere l’immortalità, potremmo pensare di agire solamente su determinate cellule e solo in situazioni patologiche, in modo da sfruttare il ringiovanimento cellulare solo a scopo terapeutico.
Grazie all’aggiunta di uno speciale miscuglio di geni che sono attivi solo negli embrioni, infatti, è stata dimostrata la possibilità di trasformare cellule adulte di topo in cellule staminali pluripotenti simili a quelle embrionali (le cosiddette cellule staminali pluripotenti indotte, o iPSC) aprendo la strada a possibili nuove terapie per combattere le malattie e gli acciacchi della vecchiaia.
Sono ancora molti i passi avanti da fare, ma se pensiamo che sono passati solo 13 anni dalla clonazione della pecora Dolly, i progressi scientifici in questo campo stanno procedendo ad un ritmo incalzante e le speranze per il futuro sono ben giustificate.

Le questioni etiche

Quando si parla di cellule staminali è inevitabile che, da qualche esponente politico o religioso vengano sollevate delle questioni etiche. Un esempio dell’ultim’ora è lo scalpore che ha suscitato in alcuni l’assegnazione del Nobel per la medicina all’inventore della fecondazione in vitro.
Cosa succederà quando si parlerà di allungare artificialmente la vita umana? Come reagirà l’opinione pubblica quando, inevitabilmente, gli scienziati cominceranno ad annunciare possibili terapie per vivere mille anni o più?
Difficile predire il futuro, ma si può dire per certo che argomenti così delicati non mancheranno di dare il via a nuovi dibattiti. E se ci guardiamo un po’ intorno, questo futuro sembra non essere neanche lontano, come ci dimostra quello che affermano gli scienziati che gestiscono Il Manhattan Beach Project, controverso progetto scientifico che promette di curare la vecchiaia entro il 2029.

Tags: dieta, invecchiamento, IPSC, staminali