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E tutto successe in laboratorio, un batterio racconta...



Con questa storia ho provato a spiegare cosa avviene in un laboratorio di biologia molecolare, e ho voluto farlo con gli occhi per una volta non del ricercatore ma del “ricercato”.
Questo lavoro l’ho proposto in questo modo per far capire ai non addetti ai lavori, in maniera semplice, qual è il lavoro del ricercatore e il servizio che egli offre alla società; chi è invece un esperto o professionista non potrà che divertirsi leggendo questo racconto.
Forse questa mia opera potrà aprire gli occhi a chi scetticamente condanna lo studio scientifico in tutti i suoi contesti.
Partendo dalla semplice ma profonda frase di Judah Folkman “ il progresso scientifico è lento e difficile, ma è bene che sia così” scopriamo che la divulgazione può essere veloce e facile, basta volersi mettere da tutte le parti in causa per capire tutto ciò che ci circonda.

Stefano Spagnulo


E TUTTO SUCCESSE IN LABORATORIO,

UN BATTERIO RACCONTA….


“…ai piccoli uomini sofferenti ”


Molti di voi non mi conoscono, fin’ora sono stato al buio trasferito e lavorato, sono stato usato per produrre delle sostanze, disparate sostanze. Adesso però, che ho la possibilità di narrarvi di me, voglio raccontarvi tutto ciò che mi è successo e suppongo succederà con la biotecnologia medica, poiché oramai sono un veterano, un’audace cavia di laboratorio usata come scopo della scienza: migliorare la qualità della vita dell’uomo.
Dovete sapere che gli scienziati si sono molto specializzati grazie a me, mi hanno studiato e sicuramente hanno migliorato la conoscenza sulla mia struttura e funzione, quello che però non sanno è che io “osservandoli” e “ascoltandoli”, ho percepito le loro intenzioni che vi assicuro già da adesso sono a mio parere delle migliori.
Dalle loro parole ho capito meglio come sono fatto pur non recependo subito il loro modo di agire, al primo momento mi sono posto tante domande del tipo “ma cosa ci faccio qua? , dove mi trovo?”. Non sono riuscito a darmi una risposta fino a quando queste persone non hanno operato direttamente su di me. Capendo come sono costituito e cosa ho d’interessante, facevano delle cose che credevo di non dovere tollerare, ma poi ce l’ho fatta e sono contento per due motivi: il primo perché sono stato forte, ho resistito a tutti gli interventi, che queste persone studiose hanno compiuto su di me; raccontandoveli vi lascerò a bocca aperta e vi chiederete come ho fatto a sopravvivere, il secondo motivo lo esporrò alla fine altrimenti la storia non avrebbe senso.
Perdonatemi! Ho iniziato a raccontare di me e non mi sono nemmeno presentato. Sono un batterio, un normalissimo batterio. Organismo che i signori ricercatori hanno definito alla base dell’evoluzione, l’unico processo che non sono riuscito a capire in tutta questa storia. Se volete capirci di più di come io sia fatto dovete leggere qualche libro di biologia o chiedere agli studiosi che hanno operato su di me, loro sì che mi conoscono bene. In ogni modo vi dirò qualcosa su di me, partendo dal fatto che molta gente che sente il mio nome mi paragona subito alle malattie che i miei colleghi parassiti provocano.
Io non sono un parassita, i ricercatori mi hanno definito saprofite e cioè colui che rende la sostanza organica da complessa a pronta all’uso, io in natura prima che entrassi in questa situazione, producevo delle molecole che avevano il potere di decomporre la sostanza organica presente nell’ambiente, a quanto pare questo mio scopo in natura si è rivelato utile nel laboratorio dove mi trovo.
A questo proposito, devo informarvi che mi trovo in un posto dove producono delle sostanze chiamate ORMONI DELLA CRESCITA, confessandovi che in tutta quest’esperienza ci ho capito molto poco di tali prodotti, però non aggiungo altro altrimenti vi rovinerei il finale.
Ritornando alla mia attuale residenza, è un posto molto carino: ci sono tutti gli strumenti scientifici per un buon laboratorio di biotecnologia farmaceutica; questo ho letto sulla porta d’ingresso quando sono arrivato. E’ un posto molto grande con molte stanze, questa può essere di cinque metri quadri, ed è il laboratorio di manipolazione genetica su geni ipofisari. Parole grosse vero? Ma vi assicuro man mano che vi racconterò questa storia vi apparirà chiaro anche questo. La mia stanza si affaccia sul giardino di questo istituto e su un'altra camera da dove osservo esseri simili agli scienziati, uomini più piccoli e devo dire graziosi, hanno forme più paffute di loro e leggo nei loro volti una certa malinconia e sofferenza. Sono sempre stesi in letti e ogni tanto si lamentano. La causa delle loro sofferenze non mi è stata chiara da subito. Il gran da fare degli scienziati è stato sempre il miglior modo per farli soffrire di meno.
Ma andiamo per gradi; da molto tempo che mi trovo in un barattolino quasi piatto dove galleggio in un materiale che gli uomini hanno chiamato Agar; è un terreno di coltura in cui inizialmente hanno somministrato dei composti nutritivi, che mi hanno appunto ben nutrito e non obbligato ad andare a cercare del cibo. All’inizio di fatto è stata come una vera e propria vacanza che “voi uomini” usate trascorrere al mare: noi batteri in Agar.
Allo stato naturale usiamo decomporre la sostanza organica, amiamo riprodurci e abbiamo modi diversi per farlo; il processo che noi batteri utilizziamo per la riproduzione è chiamato Scissione Binaria e consiste nel riprodurre cloni di noi dividendoci in due. Gli individui che sono scaturiti da questo processo sono copie identiche al batterio che dividendosi le ha generate.
Questa operazione è stata ripetuta per diverse volte, per assecondare gli scopi della ricerca sull’ormone della crescita. C’è una riflessione da fare: i ricercatori, hanno sempre confidato su di una certezza: la mia struttura è cellulare facile da lavorare. Io non so cosa realmente significhi, però so che sono fatto in questo modo: ho la forma di un uovo di Pasqua e al mio interno ci sono diversi “oggetti” biologici: due componenti molto importanti che sono il DNA principale e quello circolare, chiamato plasmide, che loro hanno utilizzato per la ricerca. Sono inoltre composto da tanti altri “oggetti” biologici che loro hanno definito organuli; sinceramente non mi piace per niente questo nome poiché mi sembra una definizione riduttiva per l’importanza di questi miei componenti che come un maestro d’orchestra devo dirigere. Vi posso assicurare che non è cosa facile. Vedendo e osservando i volti di quegli umani piccoli e paffuti mi chiedo quanti di questi laboratori esistono dove loro soffrono.
Un giorno ascoltando la conversazione tra due ricercatori ho realizzato che uno di loro era molto infelice, parlava di un “piccolo uomo” che aveva problemi nel sviluppare le sue capacità e caratteristiche per una cosiddetta malformazione genetica: era il caso che li venisse somministrato l’Ormone della crescita. Appena ho ascoltato queste parole mi sono chiesto quale ruolo potevo rivestire io in questa vicenda. In coscienza ho avuto in un primo momento la paura che potessi essere io la causa di ciò che era successo a quel piccolo uomo. Come vi ho riferito prima io ho due tipi di DNA: il plasmide che ha la forma di un cerchio e il materiale genetico che sembra più disperso e meno organizzato del plasmide. Dunque rendendomi conto che non ho mai interagito con gli uomini ho pensato che io dovessi servire a qualcos’altro. Seguendo il mio percorso storico insieme a voi andrò a definire il mio ruolo in questo caso specifico.
Dopo avermi prelevato dal mio ambiente naturale mi sono ritrovato al buio, in questo barattolo chiamato piastra Petri con il terreno nutritivo di cui vi ho parlato prima.
Un lungo periodo ho trascorso nell’ombra senza contatti e sprazzi di luce; quanto ho pianto chiedendomi cosa avessi fatto per meritare questa galera. Isolato dalla natura dove ho sempre vissuto insieme ai miei compagni batteri saprofiti.
Improvvisamente una grande liberazione, fui tolto dal buio e venni a stare in questo grazioso laboratorio dove conobbi gli scienziati, gli strumenti e i piccoli uomini sofferenti.
Trascorsi una settimana all’interno della piastra nutrito come vi ho detto artificialmente. Era un vero “spasso”, avere del cibo dopo essere stato isolato al buio, la intesi come un’azione che riscattava il mio perdono nei confronti di coloro che mi avevano portato nell’ombra.
All’inizio fu bello però dopo iniziai a sentire la mancanza del mio ambiente naturale e dei miei compagni batteri.
Arrivò dopo una pace indescrivibile, il progetto che riguardava gli esperimenti sull’Ormone della crescita.
Le parole degli scienziati facevano paura. Parlavano di sostanze di restrizione, per l’esattezza di enzimi che dovevano ridurre in frammenti il mio plasmide, successivamente doveva essere prelevato l’mRNA dalle cellule umane di un organo che mi sembra abbiano denominato IPOFISI e combinare il DNA umano con quello plasmidico.
In un primo momento mi sentii offeso che tutto dovesse avvenire senza il mio consenso, e oltretutto la paura cresceva in me perché non sapevo se avrei sofferto. La domanda che mi posi fu la seguente: “Come faranno a ridurre in frammenti al mio interno il plasmide?”, “lotterò con tutte le mie forze perché questo non avvenga”.
Il fatto che io non avevo previsto era che dovevano isolare il plasmide da me e lavorarci senza che io me ne accorgessi.
Poi seppi che a coloro che dovevano essere sottoposti al prelievo delle cellule ipofisarie, cioè agli uomini gli veniva richiesto il consenso per operare. Allora mi domandai “perché a loro è stato chiesto un consenso e a me no?”
Passò un altro giorno e gli scienziati continuavano a progettare, la paura in me cresceva sempre di più fino a quando l’uomo non passò dalle parole ai fatti.
Il momento della vera paura arrivò quando udii “prepariamoci”. Misero una piastra che rifletteva dal basso me stesso con tutto il complesso batterio e piastra, chiamato da loro “Petri”. Il ricercatore con adagio, mi trasportò su di una piattaforma che si illuminò quando l’uomo che operava premette il tasto di accensione. Per il momento non sentivo alcun male ma mi preparai ugualmente al peggio. Noi batteri nei momenti difficili ci trasformiamo in cellule di resistenza per superarli, tutto però dipende dal buon funzionamento del plasmide, se non c’è lui, non si supera niente.
La prima cosa che notai subito quando mi trovai su questa macchina, che un ricercatore chiamò microscopio, fu un oggetto di acciaio, che si muoveva verso di me guidato da un supporto del quale non capivo l’essenza e l’utilità.
Si dirigeva molto lentamente, cambiando e perfezionando la sua rotta verso di me, arrivato ad una certa distanza, notai che era indirizzato proprio in direzione del mio plasmide.
In quel momento mi chiedevo sempre con crescente paura cosa dovesse farmi l’ oggetto di acciaio.
Arrivato proprio vicino si bloccò, e subito dopo con maggiore velocità e potenza affondò dentro di me non perforandomi del tutto ma solo recidendo la mia superficie. Il dolore fu tremendo, si spostava con adagio tagliandomi per una lunghezza paragonabile a quella del plasmide e anche se avessi voluto non mi sarei potuto ribellare alle loro azioni. In quel momento pieno di rabbia e sdegno nei loro confronti avrei voluto essere un parassita per attaccarli e infettarli con qualche malattia.
Dopo un certo periodo di tempo, il punteruolo di acciaio venne tolto da me e tornò sempre con adagio nella direzione da cui era venuto.
A questo punto udii da lontano un rumore metallico come se robotizzassero qualcosa. Questo rumore era sempre più frequente e vicino e mi accorsi che un’altra presunta diavoleria si stava attuando nei miei confronti.
Tutto ad un tratto vidi da lontano e dall’alto un oggetto diverso da quello precedente e cercai di definirne i particolari: aveva la struttura di un tubo cui era collegato un vettore, di gomma pareva, come il precedente oggetto di acciaio si dirigeva verso di me con cautela e allo stesso modo penetrò all’interno.
Questa volta il dolore era maggiore proprio perché la punta dell’attrezzo arrivò vicino al plasmide.
Ad un tratto avvertì un forza aspirante che richiamava il plasmide verso la punta dell’oggetto, vedevo muovere il mio plasmide verso di lui e alla fine fui vinto da questa forza aspirante. Mi ritrovai senza il mio codice genetico e dignità di essere vivente.
Osservai, quasi tramortito il tubo contenente il significato della mia vita che si spostava al mio lato destro in un altro recipiente un po’ diverso dal mio. Qui venne depositato il plasmide che io osservavo e desideravo, lo guardavo come se fosse una cosa che era difficile riavere perché ingiustamente tolta.
Tutto ad un tratto ascoltai da lontano “via con gli enzimi di restrizione!”; l’impetuosità della voce dello scienziato mi fece capire che la cosa che stavano per fare doveva essere rapida ed efficace. Pensai che per me era oramai finita.
Osservai un oggetto, sempre in movimento, che però non era indirizzato verso di me ma al plasmide. La poca energia che possedevo si tramutò in rabbia. Mi dicevo “se dovete fare qualcosa fatela a me ma lasciate stare lui”.
Ma gli uomini ascoltano solo gli uomini e non noi batteri. Appena la macchina fu vicina al mio materiale genetico somministrò in esso un liquido e udii lo scienziato “enzimi di restrizione ok”, efficace apertura molecolare”.
Non capii molto dalle parole ma vedevo e soffrivo, il mio DNA si riduceva in pezzi con facilità, non posso descrivervi la sofferenza che provavo.
Per un pò di tempo non vidi più niente attivarsi nei miei confronti e in quelli del plamide, ma avevo ancora la possibilità di udire cosa stessero facendo. “Geni ipofisari dell’ormone della crescita prelevati con successo” sentii dire da un ricercatore ben due giorni dopo la tortura. Per capire meglio cosa stessero combinando, cercai di osservare il panorama e mi accorsi di un cambiamento: il piccolo uomo che soffriva aveva un nuovo vestito. Sulla testa aveva si un turbante bianco però non soffriva, dormiva tranquillamente con il suo povero volto ancora sciupato.
Mi resi conto che anche lui era stato sottoposto ad un’ operazione e magari le ultime parole ascoltate dagli scienziati si riferivano proprio a lui. Diressi nuovamente lo sguardo verso il mio plasmide e lo vidi ancora rotto in due ed io ero bisognoso sempre di più di lui. In tarda ombra vicino a me si trovava un ricercatore che non avevo mai visto, sul suo cartellino cercai di leggere quale carica rivestisse: lessi Biologo molecolare.
Era molto organizzato poiché su di una lavagna appesa al muro scrisse tutte le cose che si dovevano fare: prelevare mRNA messaggero ipofisario inerente all’ormone della crescita del paziente 8, somministrare enzimi per ottenere copia di esso ma sottoforma di DNA identico a quello ipofisario.
Capivo sempre meno da quello che faceva ma avevo ragione di credere in una cosa, il piccolo uomo aveva sul lettino appeso il numero 8 e dedussi che lui era stato sottoposto a tortura come me. Tutto ad un tratto il ricercatore che stava operando esultò dicendo “ce l’ho fatta, ho sintetizzato DNA ipofisario da mRNA originario”. A questo punto arrivarono un sacco di ricercatori e osservavo un loro contento comportamento. Alcuni si abbracciavano a questa persona, altri gli davano la mano e sorridevano. Devo confessarvi che la loro felicità accese in me serenità.
Dopo circa 5 minuti vedevo che erano frenetici e impegnati, camminavano veloci da una parte all’altra della camera dove risiedevo.
Stavano preparando un certo DNA ligasi, di cui come potete capire, non ne conoscevo la natura. Uno scienziato dopo alcune riflessioni disse “preparato trasporto del DNA ligasi sul plasmide batterico”.
Ricominciò il mio sdegno, pure se ancora non prevedevo cosa dovessi subire. Mi accorsi di un tubicino simile a quello che mi aveva aspirato il plasmide che si dirigeva verso quest’ultimo. Arrivato ad una minima distanza da esso lo scienziato soddisfatto esclamò “ORA!”.
Non dedussi cosa venne fatto ma un’altra esultanza accompagnò tutti gli scienziati in sala e ascoltai “il DNA ipofisario ha aderito con precisione al plasmide”.
Successivamente a questo notai che il trambusto in sala aumentava ma una buona parte dei ricercatori osservava me e il mio plasmide modificato.
Con lo stesso metodo praticato per aspirarmi il plasmide, lo prelevarono da quella zona e vidi che l’attrezzo era diretto verso di me, si avvicinava sempre di più e di nuovo arrivò in prossimità di me, si infilzò di nuovo al mio interno e soffrendo di nuovo mi reinserirono il mio plasmide.
Ancora esultanza osservai nei volti dei ricercatori, ma io non avevo ben capito ancora una volta cosa mi avessero fatto.
Passarono parecchi giorni da quel momento, non ero morto e cominciavo a riprendere le mie forze. Osservavo che la mia ferita si ricuciva e che avevo di nuovo il mio plasmide, anche se non era come prima. Aveva la stessa forma ma non la stessa consistenza e colore, soprattutto una regione di esso era di diverso colore e mi posi una domanda banale “come mai?”.
Passarono ancora giorni, venivo nutrito come una volta fino a quando non mi ripresi completamente.
A questo punto non sapevo cosa mi aspettasse, se dovevo essere trattato in quel barbaro modo oppure mi avrebbero liberato in natura; il mio desiderio era di ritornare tra i miei compagni in modo da iniziare la mia vita con coraggio lasciandomi questa vicenda alle spalle.
Molti giorni ho trascorso nella piastra Petri senza essere attaccato o torturato e, l’ipotesi del mio rilascio mi sembrava sempre più un’utopia.
Allora mi feci coraggio e decisi che dovevo rendere la vita difficile a coloro che, come era oramai chiaro, stavano sperimentando e provando nuove “cose” su di me.
Noi batteri abbiamo la capacità di riprodurci in continuazione per il fenomeno che vi ho raccontato prima, la scissione binaria.
Ogni 15 minuti circa, duplichiamo il nostro materiale genetico e ci dividiamo in due. In questo modo in 30 minuti arriviamo ad essere 4, tutti identici strutturalmente e geneticamente.
Intesi fare questo; passò molto tempo, arrivai a riprodurre nella mia piastra 4 milioni di individui suddivisi in colonie, fatevi voi il conto del tempo che avrei potuto impiegare.
Cresciuti, i miei seguaci, parlavano con me e raccontai tutta questa mia sofferente vicenda, loro rimasero stupefatti e terrorizzati da quello che ascoltavano e anche loro non si spiegavano il motivo principale di tutta la mia disavventura.
Dopo lunghe chiacchierate basate su ipotesi arrivò il giorno in cui l’uomo agì ancora.
Ci portarono sotto la macchina chiamata microscopio, ci osservarono per parecchio tempo e dopo lunghe ore di consultazione tra i ricercatori vidi uno di loro che si spostava dal microscopio e ritornò con qualcosa in mano che aveva l’aspetto di un cerchietto fatto di tessuto. Sentimmo una frase “porgere con delicatezza il filtro sulle colonie batteriche, inizio individuazione ormone della crescita”.
In pratica fecero questo: posero sopra di noi un pezzo di tessuto che aveva la stessa forma della piastra dove eravamo situati, credevo che ci volessero schiacciare per finire il lavoro poiché quell’oggetto pesava moltissimo su di noi, osservavo però che molti di noi si attaccavano con efficacia a quel tessuto fino a quando non toccò a me. Successivamente tolsero il tampone dalla piastra e con lei molti di noi furono divisi dalle colonie che io avevo riprodotto.
Dopo questo momento che comunque non fu di grande sofferenza, posero il filtro su di una superficie che era molto illuminata chiamata dai ricercatori sonda radioattiva.
Vedevo che questa passava con un particolare raggio luminoso, quanto il naturale sole, e lasciava un segno di riconoscimento solo su alcuni di noi.
Passarono alcune ore fino a quando la sonda non cessò di funzionare, alcuni di noi presentavano una macchia e altri si chiedevano il perché non l’avessero; ad un tratto udimmo una frase da lontano, “colonie con DNA richiesto individuate, procedere con isolamento in liquido nutriente”.
Così fecero, ci prelevarono con una cannuccia aspirante e ci posero in un’altra piastra Petri con un terreno nutriente molto piacevole per noi.
Comunque rimaneva il fatto che ci avevano ancora una volta offesi. Impiegai tanto tempo per riformare quelle colonie che, magari mancavano in natura, mentre io ero qui ad essere torturato.
Tra le poche migliaia di miei esemplari esisteva una malinconia totale: mi avevano trattato come un mezzo di sfruttamento, vedevo i piccoli uomini soffrire e i perché non cessavano di riempire la nostra coscienza.
Improvvisamente dissi con freddezza e convinzione a miei fratelli “non ci resta altro da fare che combattere producendo un’alta concentrazione di sostanza per la decomposizione, solo così possiamo deviare le loro ricerche. Non stanno lavorando per questo, altrimenti ce l’avrebbero già fatto fare, dunque in questo modo inquineremo la piastra e manderemo a rotoli il loro lavoro, seguite me poiché voi siete qui per me”.
Molti apprezzarono la mia convinzione ma altri mi rimproverarono e mi chiesero il perché io li volessi portare alle mie stesse torture.
Alla fine dopo un lungo dibattito arrivammo ad una conclusione: provando a decomporre il materiale nutriente e inquinando così la piastra, sarebbe andato tutto a monte e la vendetta si sarebbe compiuta con un piacevole finale.
Per lungo tempo producemmo un liquido, che aveva un diverso aspetto da quello che usiamo fare per decomporre, fino a quando la piastra non fu piena di liquido, allora dissi “ abbiamo inquinato la piastra, il loro lavoro è andato in fumo”.
Appena pronunciai queste parole osservammo che un grossa pipetta, portata in mano dal ricercatore, veniva posta sulla nostra piastra. Il grande uomo iniziò ad aspirare tutto il liquido che noi avevamo prodotto.
La rabbia fu tanta, proposi di nuovo di produrre liquido e di provocare un nuovo inquinamento.
La risposta fu positiva e per lunghi giorni ci fu l’alternarsi di produzione da parte nostra e aspirazione e prelievo del nostro materiale da parte dei ricercatori.
Osservavamo però un comportamento costante: il ricercatore, ogni qualvolta veniva a prelevare il liquido se lo portava via nella pipetta, sorridente e si dirigeva verso la camera dove erano situati i piccoli uomini sofferenti.
Passarono alcuni mesi e le azioni di produzione che quelle di prelievo finirono. Udimmo una voce di un ricercatore: “sintesi dell’ormone della crescita prodotto da cellule batteriche manipolate con DNA ipofisario, avvenuta con successo. Tra pochi giorni testeremo la sostanza sui bambini malati”.
In quel momento capimmo tutto e ci sentimmo degli ingrati per aver combattuto contro qualcosa di positivo che doveva migliorare la vita agli esseri viventi malati, i piccoli uomini sofferenti. Da quel momento tutti noi eravamo impazienti osservando se i bambini avessero recepito un miglioramento. Per fortuna col passare dei giorni i bambini guarivano e dopo alcuni mesi vennero cercati da grandi uomini che non erano ricercatori ma che gli somigliavano. Mostravano grande felicità e dopo molto tempo i piccoli uomini vennero tolti da quel laboratorio poiché erano guariti.
Tutti noi nella piastra ci sentivamo parte dell’impresa dolorosa ma utile che aveva fatto guarire i piccoli uomini.
Passarono altri giorni e io mi addormentai con una pace e sensazione di onesta coscienza.
Ecco! Ora avete capito perché pur con tanta sofferenza so che ne è valsa la pena per salvare quei piccoli malati. Ma dove siete? Ehi voi grandi uomini dalle splendenti ali bianche, dove siete finiti? Eravate qui tempo fa e mi avete chiesto di raccontarvi tutto?!
Forse li ho stancati, comunque è una complessa e lunga storia che forse già conoscevano. Un momento c’è un biglietto per terra, ora lo leggo tanto non mi vede nessuno.
“Se tutti gli esseri viventi della terra fossero naturalmente impegnati come te il mondo non sarebbe malato, gli esseri viventi produrrebbero e non combatterebbero. Cercavi dignità e rispetto, hai avuto il dono di essere presente in una battaglia per salvare i piccoli uomini sofferenti, sentiti orgoglioso di questo, firmato Colui che crea le cose e ha il coraggio di far del bene senza riconoscenza”.



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