Feed RSS: Molecularlab.it NewsiCalendar file

Inserisci il tuo elaborato

Welfare e società

È ormai accettata ampiamente l’idea che il welfare e l’associazionismo siano uno dei pilastri su cui fondare la futura società italiana.

Indubbiamente questa idea non è recentissima, ma, per altro, non è ancora chiaro il modo per renderla operativa, per organizzarla al fine di toglierla dall’approssimazione e dalla improvvisazione.
Di fronte all’importanza dell’associazionismo e, quindi, del volontariato (che del welfare è sicuramente la parte più importante) si è fatta forte l’idea che questo deve essere “organizzato”, guidato, iscritto in una ampia struttura operativa sotto la guida delle Istituzioni.
Questa idea, nell’ambito del volontariato sociale, ha origini molto diverse, ma, in linea di massima, si fonda sulla convinzione che l’iniziativa privata porta con sé il rischio che qualcuno possa approfittarsene per sviluppare attività improprie e, soprattutto, inadatte all’obiettivo di offrire validi supporti alla disabilità, al dolore, al bisogno ed alla vecchiaia.
Una nostra recente indagine (non strutturata), svolta in Argentina in occasione dell’avvio di una ricerca internazionale contro l’abuso infantile (NI-AMAMI), ha suscitato una interessante discussione in quanto
- gli operatori argentini sostengono che l’attività del welfare deve essere totalmente nelle mani delle Istituzioni che sono in grado di assicurare qualità ed adeguatezza delle prestazioni, attualizzazione degli studi teorici, formazione degli operatori;
- ricercatori italiani, sulla base di ampie esperienze, contrappongono la proposta di un welfare ampiamente controllato dall’iniziativa privata che negli anni si è dimostrata più attiva ed efficace di quella pubblica.


La differenza delle opinioni è sicuramente dovuta a differenti livelli di sviluppo sociale ed anche ad un maggiore impegno di tutta la società italiana nell’ambito dell’associazionismo e dell’aiuto ai più deboli.
Queste osservazioni non liberano però dalla necessità di un’analisi più approfondita su ciò che succede in Italia.
A nostro modo di vedere, la legge 180-Basaglia che ha determinato la chiusura dei ricoveri per malati mentali (manicomi) ha determinato la svolta decisiva dell’approccio a queste problematiche perché ha portato a porre il paziente-soggetto al centro dell’osservazione e di tutte le iniziative d’aiuto.
L’individuo è diventato il vero depositario del diritto ad un adeguato trattamento, a ricevere il sostegno per una buona qualità di vita, ad ottenere un regime di pari opportunità.
La chiusura dei manicomi ha rimandato nella società migliaia di persone che stazionavano in veri e propri “ghetti”, senza prospettive di miglioramento, nell’impossibilità di ritrovare una dignità personale, nell’assurda certezza che “… tanto non c’è nulla da fare!”.
Di colpo la società intera si è dovuta svegliare per trovare delle soluzioni valide, ma si è trovata anche a dover prendere visione di un tema che per decine di anni era stato sepolto nel dimenticatoio.
Anche le famiglie (messe di fronte al “ritorno a casa” o al dover cercare qualche altra soluzione) si sono trovate spinte sulle “barricate” chiedendo la soluzione dei loro problemi insolubili per le iniziative personali.
Questi quattro elementi:
- chiusura dei ricoveri (nei quali erano ammessi sicuramente anche soggetti che sarebbero dovuti rimanere presso le famiglie);
- la pressione delle famiglie che hanno appreso a considerare un loro diritto quello di essere aiutati per sostenere il peso della disabilità oltre a quello dell’infermità acuta e/o cronica;
- la pressione sociale, attivata e sensibilizzata da movimenti di opinione e dalla costituzione di innumerevoli associazioni di genitori;
- il sorgere di iniziative private pronte ad affiancare le iniziative del pubblico;
hanno contribuito a cercare soluzioni innovative, efficaci ed atte ad affrontare un problema in rapida espansione e che si sta diffondendo dalle fasce sociali più svantaggiate sino anche a quelle che, anche pochi anni fa, erano in grado di affrontare da sole queste problematiche.

Nuovi ambiti hanno investito la società italiana aggiungendosi a quelli vecchi.
1) L’allungamento dell’aspettativa di vita ha portato ad un aumento considerevole del numero degli anziani (tra i 65 e gli 80 anni) e, soprattutto, dei vecchi-vecchi (gli ultra-ottantenni e gli ultra-novantenni). Lo spostamento della popolazione verso le alte età (invecchiamento della società) ha portato all’aumento delle malattie neuro-degenerative-croniche che più facilmente si instaurano nella vecchiaia e tra queste soprattutto la demenza (in special modo quella di Alzheimer).
2) La trasformazione della società, che diventa sempre più complessa ed anche conflittiva, ha portato una ampia fascia dei cittadini più fragili (anziani e giovanissimi) a situazioni tanto critiche da produrre quadri psico-patologici anche importanti. L’enorme consumo di psicofarmaci (soprattutto ansiolitici ed antidepressivi) è un indice del disagio che però è anche sottolineato dall’incremento considerevole dei disturbi dello sviluppo psico-mentale (più di 100 volte), delle sindromi borderline, dei quadri psicopatologici della vecchiaia.
3) L’incremento considerevole (ed ancora in atto) delle tossicodipendenze e dell’alcolismo che ormai interessa non solo i giovani e gli adulti, ma anche i ragazzi nella pre-pubertà e le donne.
4) L’incremento delle disabilità fisiche per esiti da traumi, soprattutto legati ad incidenti stradali.

Per tutte queste cause, le disabilità funzionali e soprattutto quelle psico-affettive sono aumentate enormemente e quasi si può affermare che affrontare le problematiche di tutti questi soggetti sta diventando un problema irrisolvibile.
Proprio per questo il Welfare Assistenziale si sta cambiando in Welfare Comunità per creare una dinamica di accoglienza; una rete di servizi che è incontro di professionalità, di persona, di operatori, di famiglie che offrono un servizio, insieme alla promessa di una vita migliore.
Questo approccio ha contribuito fortemente a mettere in primo piano la concettualizzazione della riabilitazione che, specializzandosi e rendendosi azione specifica, si è trasformata da funzionale a globale e, finalmente, in olistica.
In altro ordine di idee la riabilitazione ha cominciato anche ad interessarsi delle deficienze delle abilità sociali (insieme dei comportamenti problema che sempre portano all’isolamento) ed anche del disagio psichico.
L’approccio alla disabilità attraverso i principi e le metodiche della riabilitazione globale ed olistica sono veramente la grande conquista del Welfare Comunità e, specialmente, dell’azione positiva e pressante dell’associazionismo per il quale il lavoro che si svolge in favore dei disabili è sempre un motivo di incontro e di confronto, la possibilità di stringere legami e creare “luoghi” dove sviluppare le potenzialità personali, ma, soprattutto, cercare i mezzi più idonei perché la disabilità si trasformi veramente in una ricchezza ed in una risorsa.
Il trasferimento di vissuti a programmi diventa una possibilità concreta di acquisire nuove conoscenze sul tema delle “pari opportunità”, di dare un “corpo” a quanto si va discutendo
§ che fare per l’handicap,
§ che futuro per i disabili.

Per questo approccio, la disabilità fisica è stata riconosciuta invasa da problematiche psico-affettive e psico-relazionali che quindi sono diventate il background di tutte le disabilità.
In questo modo la disabilità psichica non appare più come “malattia”, ma come obiettivo per affrontare le difficoltà, il disagio, l’emarginazione ed i blocchi dello sviluppo psico-mentale di una determinata persona prescindendo dall’età.
Ci interroghiamo sull’emergere dello psichismo, del processo di umanizzazione, sulla formazione di quei “fattori adattivi” che creano l’individuo e ne determinano il destino. Non si tratta più di correggere dei comportamenti inadeguati, ma di affrontare il valore etico di generare “forze intime”, sociali e relazionali che determinano la qualità della vita dei disabili e delle loro famiglie.

Riconosciute l’importanza e la dimensione del problema diventa automaticamente una necessità confrontarsi in un ampio raggio di esperienze e di culture per dare una risposta ai bisogni, ma anche per strutturare una visione “globale” sul tema della disabilità psichica e, soprattutto, per cercare una risposta concreta, utile e strutturabile in un processo pragmatico di intervento basato su:
- porre il singolo paziente al centro dell’interesse terapeutico-riabilitativo;
- spostare l’accento dell’intervento dall’anonimato e dall’omologazione dell’assistenza, a nuove modalità di cura, orientate a trattare il “disagio psichico” (non più solo malattia), tenendo conto delle sue diverse dimensioni;
- investire gli sforzi terapeutico-assistenziali fondamentalmente sul versante riabilitativo, nei suoi vari aspetti: cognitivo, comportamentale e sociale;
- riformare i criteri di assistenza psichiatrica, superando quelli clinico-diagnostici, per orientarsi ad una presa in carico globale con interventi terapeutici capaci di articolarsi armonicamente non solo sul terreno biologico, ma anche su quelli psicologico, sociale e culturale;
- ristabilire un ambiente, una situazione vivenziale e delle relazioni con una precisa impronta di familiarità;
- fondare l’intervento riabilitativo sulla “qualità funzionale e strutturale”, oltre che sull’analisi dei risultati ottenuti in rapporto alla prassi e agli obiettivi prescelti sulla base di precise valutazioni psichiche e mentali;
- rifiutare l’intolleranza, l’incomprensione, il fastidio che sempre erano legati alla “malattia mentale”, per instaurare meccanismi “razionali, dialettici ed affettivi” capaci di ricreare un “luogo mentale” di accoglienza e di collaborazione, utile per il soggetto ed anche “valore” (a volte insostituibile) per l’intera società che, nell’incontro con il disabile, trova gli elementi psico-mentali per ricomporre e valorizzare il “senso della vita”;
- comporre una equipe psichitrico-educativa atta a liberare il paziente dai limiti culturali imposti dalla diagnosi, per attrarlo in un ambito relazionale dove famigliari, operatori, educatori, medico psichiatra ed infermieri dilatano il loro orizzonte professionale, delle conoscenze e dei metodi per arrivare a proporre un “percorso riabilitativo”;
- coinvolgere tutti gli “attori” per creare un vero “laboratorio” per nuove tecniche riabilitative, sensibili dinamiche educative, formative;
- vedere l’espressione fenomenologica (ripetitività; manierismi; compulsività; stereotipie; etero ed auto-aggressività) nella “prospettiva della comunicazione” e non solo come insieme di “sintomi”.

Vale la pena di riscoprire quella “poetica della vita” che dà senso, significato e valore alla quotidianità dell’esistere e dell’incontrarsi.
La “poetica” si collega strettamente alla “qualità”, ma, di fronte alla disabilità, questa assume i caratteri della “eticità” e delle “pari opportunità”, nel cui ambito bisogna tenere conto di:
§ centralità della persona;
§ valutazione funzionale e progetto globale di recupero;
§ terapia relazionale;
§ riabilitazione globale;
§ reinserimento attivo familiare e sociale;
§ reintegrazione familiare e sociale;
§ previsione per una sistemazione futura nel rispetto dei ruoli.

Per poter affrontare il tema della disabilità psichica é necessario prendere in considerazione la nozione di persona e quella di relazione del soggetto con l’oggetto.
L’interesse deve essere rivolto a come il soggetto si vive nella dimensione di integratore del proprio destino, di come è colpito il sistema delle relazioni familiari e sociali e, quindi, non si tratta di “trovare possibilità per un loro modo di vivere”, ma, al contrario, tendere allo “sviluppo della persona totale” che è:
· considerare tutte le sue potenzialità
· concedere momenti di cura
· aumentare le forme di prevenzione verso il peggioramento e l’invasività
· sviluppare le dinamiche riabilitative ed educative
· cercare le migliori modalità per l’inserimento e l’integrazione nella quotidianità e nella società.

Va ricordato che ogni disabile, cittadino a pieno diritto, è chiamato a beneficiare della solidarietà del suo Paese ed anche ad essere posto in condizioni di apportare il suo contributo allo sviluppo ed alla prosperità della società.

I medici, i terapeuti, gli educatori, i riabilitatori devono assumere il proprio ruolo specifico nelle riflessioni e nelle iniziative da compiere in comune per scoprire i bisogni veri, nel rispetto delle libertà individuali e della famiglia che ancora risulta luogo e baluardo per lo sviluppo e l’integrazione.

L’educazione permanente e la formazione continua risultano i mezzi indispensabile per una integrazione massimale e, quindi, devono essere sospinte da dinamiche innovatrici e rinnovatrici, capaci di penetrare nel profondo della struttura sociale e renderla accogliente, trasformatrice e con potenzialità per promuovere lo sviluppo, l’adeguamento e l’integrazione.
In questo modo ogni disabile potrà raggiungere l’ideale di poter soddisfare il desiderio di compiere il proprio destino umano che è personale e sociale.
Raggiungere il “piacere dell’avvenire” non è solo compiere il progetto personale di autovalorizzazione e di autosoddisfazione, ma, soprattutto, dare senso e, quindi, valore all’educazione, alla formazione e all’integrazione attiva e positiva.

L’ETICA DELLA RELAZIONE
La deontologia professionale dello psicoterapeuta, soprattutto in rapporto con l’handicap si attua in un “sistema affettivo di relazione” che, proprio per questo, si fonda in una “eticità culturale” basata non solo sull’informazione (conoscenza e consapevolezza, obiettive e provate), ma anche sulla condivisione del problema e sulla partecipazione-relazione che la terapia impone come necessità di dare un “punto terzo” rappresentato dalla figura dell’ Io-ausiliario.
Etica della relazione nella quale si condividono con il paziente ansie e aspettative; rottura della solitudine e dell’isolamento attraverso l’atto etico di fare della diversità una risorsa; condivisione della “meraviglia”, “sorpresa” che accompagna ogni cambiamento, ogni conquista, ogni “fuga dall’imposizione di un sé alterato (esilio dell’ Io).

RIABILITAZIONE E SOCIETÀ
Il termine di riabilitazione ha un suo diritto di appartenenza nell’ambito sanitario, ma da sempre ne ha superato ampiamente i limiti, trascinando anche la medicina a transitare cammini per essa inusuali.
Oggi dunque e soprattutto nell’ambito del handicap, della cronicità e della disabilità psico-mentale, la riabilitazione ha acquisito un significato di globalità. Non si tratta più di affrontare i temi del funzionamento, dei comportamenti e/o dell’assistenza, ma bisogna “ri-conoscere e tornare alla persona”.
Parlare di riabilitazione significa involucrare prima di tutto la famiglia, i centri di terapia e di recupero funzionale, le associazioni, la scuola, le istituzioni pubbliche e private: significa strutturare una rete (non un istituto) che accompagni e non chiuda, che crei e non limiti le potenzialità e le possibilità. Si tratta, oltre che di curare, di partecipare al recupero dei prerequisiti funzionali e olistici che permettono il reinserimento e, soprattutto, l’integrazione nelle famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società.

CENTRO DI RIABILITAZIONE E DI CULTURA
Nella ricerca delle pari opportunità il centro per la terapia e la riabilitazione diventa un “centro di cultura per i cittadini e per la società”, dove si riscopre il “valore dell’interdipendenza e della solidarietà”, dove il dare significa veramente “crescere insieme” e nell’appartenenza la possibilità di ricompattare il proprio sé attraverso le dinamiche del “nome del padre” e nella scoperta della “legge” che è atto d’amore quando si struttura nei limiti di un nome e di un cognome.




Inoltra: Inoltra via mail Vota:  

 
Disclaimer & Privacy Policy