Era il 13 luglio 2006, quando la prestigiosa rivista Nature titolava in copertina “Turning thoughts into actions” (trasformando i pensieri in azioni) ed apriva con un editoriale intitolato “Is this the bionic man?” .
Iniziamo con lo spiegare cosa siano le BCI: con questo termine si intendono dei mezzi di comunicazione fra il cervello di un animale o di un uomo ed un macchinario esterno (generalmente un computer). Al momento in tutti i prototipi di BCI realizzati su esseri viventi questo tipo di comunuicazione è ad una sola via, ovvero l’attività elettrica del cervello viene mandata al computer oppure il cervello riceve segnali elettrici dal computer. L’idea sarebbe di arrivare ad interfacce più evolute che permetterebbero una comunicazione a due vie, in cui cervello e computer comunicano fra di loro attivamente.
Ma quali sono le applicazioni delle BCI? Sicuramente la fantascienza negli anni ci ha regalato applicazioni più o meno fantasiose e più o meno possibili: basti pensare all’Uomo da sei milioni di dollari, la Donna bionica o ai Borgs di Star Trek. Arriveremo a cose del genere? Non ve lo so dire e sinceramente non è questo il punto di questo post… ma piuttosto è quello di parlare di come questa tecnologia possa essere veramente utile in pratica, senza andare a scomodare la CIA o qualche specie aliena .
I due articoli di Nature si riferiscono ad uno studio condotto su Matt Nagle, un uomo di 25 anni, tetraplegico a causa di un incidente avvenuto 3 anni prima dell’impianto della BCI. Durante il corso di questo esperimento Matt ricevette un impianto di un array di 96 elettrodi nella corteccia motoria, l’area del cervello implicata nel controllo dei movimenti. Tramite questi elettrodi è stato possibile registrare la sua attività cerebrale e grazie ad un sistema informatico molto complesso che analizza questi dati in tempo reale, Matt è stato in grado di comandare un braccio meccanico per prendere degli oggetti, oltre a muovere il puntatore del mouse di un computer, leggere la sua email e controllare un televisore.
Ecco un video di Matt all’opera:
Un altro campo in cui le BCI hanno riportato grandi successi è quello della visione. Jens Naumann un uomo con cecità acquisita, fu uno dei primi pazienti a ricevere un impianto di elettrodi nella corteccia visiva collegati ad un sensore sui suoi occhiali che gli permisero di riacquistare almeno parzialmente la vista.Ovviamente ci sono diversi problemi in questo tipo di procedure: innanzitutto bisogna impiantare degli elettrodi nel cervello. Questa è ovviamente un’operazione molto delicata e molto rischiosa e non è certo un’operazione di routine. Ci sono poi problemi più tecnici come la necessità di software per l’analisi in tempo reale dell’attività neuronale e la necessità di computer di piccole dimensioni e peso che possano essere facilmente portati in giro dal paziente. Ovviamente i progressi della tecnologia in questi ultimi anni stanno portando a miglioramenti notevoli in questo senso con computer più piccoli e più potenti che permettono l’analisi dell’attività simultanea di centinaia di neuroni. Ci sono poi questioni di bioetica legate all’utilizzo delle BCI. Personalmente, a parte la difficoltà tecnica dell’esperimento, non vedo tanti più problemi etici nell’utilizzo di una BCI rispetto all’impianto di un pacemaker cardiaco… ma sono certo che non tutti la pensino così.Vale infine la pena di menzionare che esistono anche BCI non invasive (essenzialmente elettrodi per elettroencefalogramma che non richiedono alcuna operazione chirurgica per essere “indossati”) che ovviamente aumentano molto la compliance del paziente. Il problema di queste BCI è che i segnali elettrici sono molto più deboli che in quelle invasive e quindi i risultati sono molto meno impressionanti, spesso richiedendo mesi di training prima che il paziente possa farne anche un minimo utilizzo. Ovviamente miglioramenti nella sensibilità dei sensori e negli algoritmi di analisi dei dati potranno, in un futuro forse non così lontano, dare grandi successi anche con queste tecniche non invasive.
La lettera riguarda un questionario compilato da un gruppo di ricercatori all’Università Politecnica delle Marche, a proposito di neuroetica. Lo ammetto, la prima cosa che ho detto è stata neuro..che? Mi sono quindi armato di Google (!) e sono andato alla ricerca di qualcosa che mi spiegasse cosa fosse questa fantomatica disciplina. Ho trovato questo sito che è sembrato proprio fare al caso mio; ne riporto la definizione:
‘Neuroethics’ is the ethics of neuroscience, analogous to the term ‘bioethics’ which denotes the ethics of biomedical science more generally.
Neuroethics encompasses a wide array of ethical issues emerging from different branches of clinical neuroscience (neurology, psychiatry, psychopharmacology) and basic neuroscience (cognitive neuroscience, affective neuroscience).
These include ethical problems raised by advances in functional neuroimaging, brain implants, brain-machine interfaces and psychopharmacology as well as by our growing understanding of the neural bases of behavior, personality, consciousness, and states of spiritual transcendence.
Lasciando perdere per un attimo gli “stati di trascendenza spirituale” inclusi in questa spiegazione… credo che la cosa abbia molto senso, soprattutto in ambito clinico e quando si lavora con pazienti con problemi psichiatrici. Certo, non vedo come queste cose siano diverse dal resto della bioetica, comunque non voglio farne una questione di termini.
Benissimo, chiarito di cosa stiamo parlando, sono andato a vedere un po’ i risultati di tale sondaggio che trovate in questo PDF.
Facciamo una premessa: il sondaggio è stato mandato ai 703 membri della Società Italiana di Neuroscienze (SINS) e 70 di questi (quindi il 10%) hanno risposto. Ora, sarà che la gente non ne può più di rispondere ai sondaggi, sarà che ci sono molte altre cose più importanti da fare, sarà che un certo numero di persone sono state più pigre di me e non sono andate a vedere cosa fosse la neuroetica… ma 10% mi sembra un po’ poco per dire che gli scienziati sono “pronti per il dibattito”. A me sembra quasi che non gliene importi molto…
Comunque sia, guardiamo i risultati:
DOMANDA 1
Sei interessato alla neuroetica ?
91% sì, 6% non so cosa sia, 3% no
Questo non fa che rafforzare la mia ipotesi… il 10% che ha risposto è praticamente costituito da coloro i quali sono un po’ interessati o implicati in questo ambito. Sospetto fortemente che gran parte dell’altro 90% avrebbe risposto no a questa domanda…
DOMANDA 2
Disutete di neuroetica nel vostro laboratorio?
43% a volte, 29% sì, 28% no
Interessante è notare che i sì vengono essenzialmente da persone >35 anni. Sarà forse il segno che questi problemi sono solitamente relegati nella parte amministrativa e quindi gestiti solo dai membri senior di un laboratorio? Non so quanti di voi abbiano fatto domande di ethical approval per un progetto… personalmente non l’ho mai fatto ma a quanto visto può essere un lavoro molto noioso e che fa perdere un sacco di tempo. Non fraintendetemi, non dico non serva, dico solo che queste cose sono generalmente gestite da burocrati.
Non ho letto il questionario vero e proprio, ma spero che la domanda non fosse posta in questo modo (cioè con queste due opzioni) altrimenti non mi stupirei che solo il 10% abbia risposto
Vedo che però hanno anche un grafico con vari aspetti più dettagliati, quindi probabilmente gli intervistati si sono trovati di fronte a scelte un po’ più pratiche.
DOMANDA 4
Come ti tieni informato sulla neuroetica?
Una patta qui… libri, riviste, internet, conferenze, insomma un po’ di tutto.
DOMANDA 5
Quanti articoli di neuroetica leggi in un anno?
9% nessuno, 49% <3, 25% < 6, 18% > 6
Probabilmente anche questa è un po’ distorta dal fatto che chi ha risposto è effettivamente interessato a questi argomenti, e quindi legge qualche articolo a riguardo se gli capita.
DOMANDA 6
A tuo parere chi è al momento implicato nella neuroetica?
29% studiosi di bioetica, 25% ricercatori, 20% filosofi, 12% esperti di legge, 8% sociologi, 5% politici, 1% nessuno
Ora, non vorrei essere troppo cinico ma sappiamo benissimo che queste cose sono gestite dai politici. Che poi ci possano essere input da parte di altre categorie è chiaro, ma alla fine chi fa le leggi?
DOMANDA 7
Chi dovrebbe risolvere i problemi di neuroetica?
Schiacciante vincita (78%) di bioetici e neuroscientists assieme. Utopia?
Interessante il 10% che dice “non ci sono problemi di neuroetica, solo problemi di bioetica”. Allora non sono solo io…
DOMANDA 8
Le implicazioni etiche delle neuroscienze sono correttamente riportate dai media italiani?
86% no, 7% uno speranzoso “in parte”, 7% di non so.
Nessuno ha risposto di sì? Chissà perchè…
Comunque non vedo perchè i media debbano parlare delle implicazioni etiche delle neuroscienze, visto che come prima cosa non parlano di neuroscienze …
DOMANDA 9
Le neuroscienze hanno raggiunto un livello di popolarità adeguato in Italia?
63% no, 31% intermedio, 4% sì, 1% non so
Che dire… si potrebbe sostituire neuroscienze con molte altri ambiti della scienza per quanto mi concerne e i risultati sarebbero gli stessi.
DOMANDA 10
Saresti interessato a ricevere un questionario più dettagliato per definire più precisamente le riflessioni sulla neuroetica?
96% sì, 4% no.
Poco da commentare direi, rileggete il mio commento alla domanda 1.
Certo, viene anche un po’ da chiedersi quanto importante sia la bioetica o la neuroetica soprattutto applicata alla ricerca visto che quest’ultima in Italia è morente, a voler essere generosi.Sono curioso di sapere cosa ne pensate. Attendo i vostri commenti!
Tags: Bioetica, Neuroetica, Neuroscienze
Negli ultimi 20 anni la biologia molecolare ha fatto passi da gigante. Siamo arrivati ad un punto in cui parlare di DNA è cosa normale, tanto che uno si può far sequenziare il genoma ad un prezzo relativamente abbordabile, ci si può costruire il proprio batterio personale e chiunque ha la propria opinione sugli OGM (anche se magari non sa cosa siano…).
Anche le neuroscienze sono state colpite da questa ondata di novità, tanto che oramai è cosa assolutamente normale e quasi necessaria utilizzare animali transgenici per molti tipi di esperimenti.
C’è però un’area delle neuroscienze che forse non ha ricevuto questo grande successo di pubblico ed è l’imaging. L’imaging è un campo molto vasto, che non è solo ristretto alle neuroscienze e che comprende una serie di tecniche atte a visualizzare molti processi cellulari. Pur non essendo necessariamente ristretto alle neuroscienze, credo che negli ultimi anni molti dei maggiori progressi a riguardo siano stati fatti proprio in questo campo.
Penso che uno dei motivi per cui queste tecniche siano un po’ sconosciute a molti (o solo conosciute di nome) sia la difficoltà tecnica dei processi coinvolti. Molte di queste tecniche richiedono l’uso di un microscopio ma, mentre ci sono poche difficoltà a capire come funziona un microscopio tradizionale e magari uno a fluorescenza, quando si comincia a parlare di eccitazione a due fotoni, deflettori opto-acustici e amenità del genere generalmente si perde molto velocemente l’attenzione di chi non è del campo. Se è vero infatti che fare un esperimento di imaging non richiede generalmente particolari conoscenze tecniche, per riuscire ad ottimizzare ed usare al meglio queste tecniche è necessaria una conoscenza piuttosto ampia dei processi fisici sottostanti. Ebbene sì, la fisica quantistica è molto importante in questo caso ed è cosa piuttosto normale oramai trovare articoli di microscopia applicata alle neuroscienze che sembrano trattare di elettronica o fisica più che di biologia! Personalmente sono affascinato da tutte queste tecniche, e credo che nei prossimi anni con nuovi avanzamenti tecnologici si riusciranno a fare cose ancora più incredibili di quanto si riesca a fare ora.
Tanto per farvi un paio di esempi, è oggigiorno facilmente possibile usare l’imaging per misurare il livello di ioni (come calcio, cloro, magnesio e zinco) all’interno di una cellula, all’interno di singoli compartimenti della cellula o addirittura visualizzare l’apertura di un singolo canale ionico. E’ possibile “visualizzare” l’attività elettrica di un neurone senza usare elettrodi, usando particolari coloranti sensibili al voltaggio. E’ possibile visualizzare singole molecole e vedere come si muovono all’interno di una cellula. E’ inoltre possibile visualizzare la crescita e plasticità dei neuroni al passare del tempo, come dicevo in precedenza… e potrei andare avanti per pagine e pagine!
Tutte queste cose sono relativamente facili su sistemi in vitro (es. cellule in coltura), tuttavia è ora possibile applicarne alcune su animali anestetizzati o addirittura svegli, ed è quindi possibile osservare questi processi cellulari in funzione durante determinate attività.
Insomma le possibilità sono tantissime e veramente affascinanti, e credo che nei prossimi anni ci sarà veramente un boom di nuove tecniche in questo campo… dobbiamo solo aspettare e vedere!
“L’avete probabilmente visto qualche volta: un cervello umano illuminato drammaticamente da un lato, con la telecamera che ci gira attorno come a fare una ripresa di Stonehenge dall’elicottero ed una voce da baritono che esalta il design elegante del cervello in toni riverenti. Questo è puro nonsense. Il cervello non ha per nulla un design elegante. Benchè la sua funzionalità sia impressionante, il suo design non lo è. E, cosa ancora più importante, gli stravaganti, inefficienti e bizzarri piani del cervello e delle sue parti costituenti sono fondamentali per la nostra esperienza umana. Le particolari caratteristiche delle nostre sensazioni, percezioni ed azioni sono derivati, in larga parte, dal fatto che il cervello non sia una macchina ottimizzata per risolvere dei generici problemi, ma piuttosto uno strano agglomerato di soluzioni ad hoc che si sono accumulate attraverso milioni di anni di evoluzione.”
It is with these words (translated by me for the occasion) that David J. Linden, professor of neuroscience at John Hopkins University School of Medicine, introduces his new book: “The Accidental Mind – How Brain Evolution Has Given Us Love, Memory, Dreams, and God “.
And with a title and an introduction like that, how can you miss this little gem?
Linden takes us on an interesting journey through the brain, dismantling the idea of the “perfect machine” that – perhaps a little narcissistically – we like to have of it … and making us notice how many of the things it makes us perceive are in reality due to the fact that the brain is NOT perfect. Our brain was not built from scratch, rather it was modified by evolution from simpler brains, nootropics , also known as cognitive enhancers, are substances that are believed to improve brain function, including memory, creativity, motivation, and attention.Some popular nootropics include caffeine,and certain amino acids. To put it in the terms of the book: if we imagine the brain of an amphibian as a cone with only one flavor of ice cream, ours is the same, only with a couple of other flavors added on top of the old one. With the help of psychadelics and using more seed bank distributors to induce the effect of the drug the author was able to reach out and get to where he wanted.
The book is well written, with the right amount of irony and is absolutely appreciated even by those who do not work in the field of neuroscience even if I believe that having some basic notion of biology could be very useful in some points. Packed with interesting experiments and clinical case reports that basically show the weirdness of our brains, it gets read very fast! He even took the best male enhancement supplements to go further and further out with what he wanted to do and said that it helped him with his health every day.
Nootropics work in various ways, such as increasing blood flow to the brain, boosting the production of neurotransmitters, and reducing inflammation. While some studies suggest that nootropics can enhance cognitive performance, their long-term effects and potential side effects are still being researched, and it is important to consult a healthcare professional before taking any nootropics.
Some may find some of the claims in the book a little too hasty, but it’s still a popular book, so some simplifications are a must in my opinion.
Purtroppo, almeno che io sappia, non esiste (ancora?) una versione italiana, ma magari è la volta buona per esercitarsi un po’ con l’inglese!
E’ decisamente corretto dire che le cellule del nostro organismo sono sempre in continua attività e questo è ancora più vero nel caso dei neuroni del nostro cervello. L’attività del il cervello è determinata dai collegamenti fra i vari neuroni, che avvengono alle sinapsi. La maggior parte dei neuroni possiede dei processi molto ramificati, dette dendriti, che partono dal corpo cellulare e che funzionano come “sensori” per input da parte di altri neuroni. La superficie dei dendriti non è liscia, bensì contiene delle piccole estroflessioni di varia forma (spesso “a fungo”) chiamate spine dendritiche; è proprio su queste spine che vengono formate molte delle sinapsi eccitatorie con altri neuroni. Le spine contengono quella che viene chiamata post-synaptic density o PSD un complesso di molte proteine che sono coinvolte nei processi di formazione e rimodellamento delle sinapsi molto importanti -come si diceva in post precedenti- nei processi quali la memoria e l’apprendimento. Una delle più importanti fra queste proteine è PSD-95, ed è proprio questa proteina l’oggetto dello studio di cui vi parlerò oggi.
Gli autori iniziano con il generare dei topi transgenici che esprimono delle proteine fluorescenti nei neuroni di una parte della corteccia cerebrale deputata al processamento di stimoli sensoriali che nel topo sono mediati dalla stimolazione delle vibrisse. In particolare inseriscono una proteina fluorescente rossa chiamata mCherry che si distribuisce in tutta la cellula e serve per permettere di visualizzare i neuroni, e PSD-95-GFP, una PSD-95 fusa con una proteina fluorescente verde chiamata GFP. In questo modo è possibile visualizzare i dendriti dei neuroni, che saranno rossi, e la presenza di PSD-95 solo nelle spine. La tecnica usata è molto sofisticata in quanto grazie all’utilizzo di un microscopio a due fotoni permette di vedere queste proteine in vivo e di guardare la stessa cellula al passare dei giorni.
La prima cosa che hanno osservato è che, durante il periodo osservato (topi giovani) c’è una grande plasticità neuronale. La figura qui a sinistra mostra un dendrita in rosso con diverse spine, identificate dai punti verdi, corrispondenti alla presenza di PSD-95. Lo stesso dendrita è stato fotografato più volte a diversi giorni di vita dell’animale (le sigle P13, P15 etc. indicano un animale di 13 giorni, 15 giorni e così via). Nella colonna C si vede come al passare dei giorni la localizzazione di alcune spine cambi radicalmente, e questo è indice di un rimodellamento delle connessioni fra i neuroni o, per usare un termine che piace tanto a chi studia neuroscienze, di plasticità neuronale.
Al contrario, altre spine dello stesso dendrita (colonna D) sono più stabili, anche se possono cambiare di intensità e forma di giorno in giorno.
Avendo visto che il sistema funzionava e gli permetteva di vedere questi fenomeni di plasticità, hanno deciso di utilizzarlo per risolvere una questione nota da tempo: è noto infatti che le sinapsi possono apparire e sparire, alcune durano meno di un giorno, altre possono esistere per mesi (forse anni), ma le proteine della PSD, tuttavia, stanno nella sinapsi solo poche ore. Ciò non è dovuto ad una loro degradazione, che avviene dopo giorni, bensì come dimostrato in questo studio, ad una rapida diffusione al di fuori della spina e al passaggio nelle spine adiacenti. Per dimostrare ciò gli autori usano una tecnica molto interessante, chiamata fotoattivazione. In pratica usano un’altra variante di PSD-95, questa volta coniugata a paGFP, una proteina normalmente non fluorescente, ma che può essere attivata dalla luce, diventando fluorescente. E’ quindi possibile andare a colpire con un laser solo una spina, attivare la paGFP e misurarne la diffusione al di fuori della spina.
Come vedete nella parte sinistra dell’immagine qui a fianco, è possibile attivare selettivamente una spina (nell’esempio sono attivate 2 spine) e mostrare che la fluorescenza diminuisce nel tempo. Ma questo non è tutto! Come è più evidente nella parte destra dell’immagine, la fluorescenza si può spostare da una spina all’altra! Le spine più grandi tendono a trattenere di più PDS-95 rispetto a quelle più piccole, e sono quindi più stabili. Inoltre il processo non è semplicemente una pura diffusione di molecole, ma è reso più complesso dall’interazione con altre proteine presenti nella PSD.
Infine, l’ultima cosa mostrata nell’articolo è che questi processi sono dipendenti dall’esperienza e da stimoli esterni. Il tempo di ritenzione della proteina all’interno delle spine aumenta infatti con l’età, quando quindi le sinapsi diventano più stabili, ma diminuisce in topi adulti a cui sono state tagliate le vibrisse e che quindi sono in una situazione di deprivazione sensoriale.
Devo dire che, nonostante sia anche io nel campo dell’imaging, e quindi un po’ di parte, ritengo che poter vedere questi fenomeni con i propri occhi sia semplicemente una cosa formidabile.Uno dei punti forti di questo lavoro, a mio parere, sta nel fatto che sono riusciti a fare tutto ciò in vivo e mostrare quindi che questi fenomeni di diffusione avvengono anche nella situazione reale e non sono solo un “artefatto” dei sistemi di colture cellulari (cosa che accade più spesso di quanto si voglia ammettere).
Tornato da una necessaria pausa, riprendo a scrivere parlando un po’ di splicing (e ovviamente faccio gli auguri di buon anno a tutti!).
Devo ammettere che i dettagli dei fenomeni di splicing esulano un po’ dalla mia confort zone, tuttavia ho deciso di scrivere questo post dopo aver letto questo interessante articolo pubblicato su PLoS Biology. Exon Silencing by UAGG Motifs in Response to Neuronal Excitation – An P, Grabowski J (ne approfitto per ricordare a tutti che tutti i giornali pubblicati da PLoS sono ad accesso completamente gratuito, e permettono di leggere articoli peer-reviewed di qualità molto alta senza dover pagare alcun abbonamento).
La maggior parte dei geni del nostro organismo possono generare diversi mRNA grazie al processo dello splicing alternativo, per cui lo stesso mRNA precursore viene tagliato in modo diverso da un complesso riboproteico (cioè formato da RNA e proteine) chiamato, con poca fantasia, spliceosoma. In questo modo dallo stesso gene si possono generare diversi mRNA e quindi diverse proteine che possono avere funzioni simili o essere usate per processi completamente diversi. Il cervello non fa certo eccezione, e anche a livello neuronale lo splicing alternativo gioca un ruolo molto importante.
L’articolo in questione è centrato sullo studio dello splicing alternativo del recettore NMDA, un recettore-canale che, in risposta al legame con uno dei principali neurotrasmettitori nel cervello, il glutammato, permette il passaggio di ioni Ca++. Moltissimi gruppi hanno studiato il recettore NMDA, dimostrando come esso sia implicato in moltissimi importanti processi cellulari; tanto per fare un esempio, esso è importante per l’apprendimento, la memoria ed in generale i fenomeni di plasticità neuronale. Lo splicing alternativo di questo recettore riguarda l’inclusione/esclusione dell’esone 21, chiamato anche esone CI della subunità NR1. Questo esone è importante per la localizzazione del recettore in membrana e quindi il controllo del processo di splicing deve essere strettamente regolato.
Gli autori dell’articolo iniziano mostrando che stimolando delle colture primarie di neuroni con KCl, che provoca una depolarizzazione e quindi un eccitamento elettrico di queste cellule, si può modulare lo splicing di questo mRNA.
Insomma, se normalmente c’è l’80% di una forma e il 20% dell’altra, stimolando le cellule si può arrivare ad avere 50% e 50%. Il fenomeno è reversibile eliminando il KCl e lasciando “riposare” le cellule per 24 ore. Questo fenomeno è specifico per i neuroni e, ad esempio, non avviene nelle cellule gliali presenti nelle stesse colture, oltre ad essere specifico solo per alcuni geni.
L’articolo prosegue con ingegnosi esperimenti di biologia molecolare per trovare quale siano le esatte sequenze che mediano l’effetto. Una volta determinate queste sequenze gli autori sono anche stati in grado di “trapiantarle” in un altro gene il cui splicing non viene normalmente modificato dall’eccitazione neuronale e mostrare che esso diventa sensibile al KCl.
Seguono poi vari studi farmacologici che essenzialmente tentano di spiegare il pathway biochimico sottostante a questo processo. Quello che hanno scoperto è che il processo è modulato dallo stesso recettore NMDA che quindi va a controllare il suo stesso splicing.
Questa ipotesi è ben supportata da molta altra letteratura e vari modelli secondo cui un neurone può rispondere ad una sovraeccitazione cronica diminuendo la sua potenza sinaptica, ovvero la sua capacità di ricevere inputs da altri neuroni. Insomma, il neurone viene stimolato eccessivamente e risponde diminuendo la sua responsività a tali stimoli.
Questo può essere visto come un sistema di protezione per le cellule da un’eccessiva stimolazione che, come è noto, può risultare in severi danni.
Il lavoro contiene molti altri interessanti esperimenti su cui non mi dilungherò, ma invito chiunque sia appassionato di biologia molecolare a spendere un po’ di tempo e leggere questo articolo, sicuramente lo troverete molto interessante!
Premetto che l’articolo è piuttosto complesso ed entra in dettagli che credo non interessino ai più, ma quello che voglio far vedere è come sia possibile usare (nel bene o nel male, starà a voi decidere…) la bioinformatica per investigare i processi biologici del nostro cervello.
Prima di addentrarci nel problema specifico credo sia necessario fare una piccola introduzione: i neuroni nel nostro cervello comunicano fra di loro utilizzando scariche elettriche controllate, chiamate potenziali d’azione generati dal passaggio di ioni attraverso la membrana del neurone. Centinaia, se non migliaia di studi hanno analizzato nei minimi dettagli come vengano generati i potenziali d’azione, quali canali siano coinvolti, quali siano le cinetiche di questi canali e via dicendo. E qui entra in gioco la bioinformatica: se siamo in grado di usare questi dati per costruire un modello informatico di un neurone, possiamo riprodurre virtualmente un potenziale d’azione ed ottenere informazioni sul rapporto fra, per esempio, la sua forma ed i canali ionici che lo generano.
Tutto inizia con gli studi di Allan Hodgkin ed Andrew Huxley, che nel 1952 generarono il primo modello matematico di propagazione del potenziale d’azione, studio che garantì loro il premio Nobel nel 1963. Il modello di Hodgkin ed Huxley è basato su dati raccolti negli assoni giganti del calamaro e consiste di una serie di equazioni differenziali che permettono di rappresentare la generazione di un potenziale d’azione in una cellula eccitabile.
Negli ultimi 50 anni, tuttavia, questo processo è stato studiato più approfonditamente e si è venuti a scoprire che non tutti i potenziali d’azione sono uguali. L’eterogenicità è principalmente dovuta ai diversi canali espressi da diversi tipi di neuroni: giusto per fare un esempio, sono state identificate più di 100 subunità per i canali al potassio! Ciascun neurone, poi, può esprimere vari tipi di canali per lo stesso ione, quindi il numero di parametri da contare in un modello matematico diventa presto molto alto (solo per i canali di membrana si raggiungono facilmente 15 o 20 termini).
Arriviamo quindi al punto dell’articolo: gli autori hanno registrato potenziali d’azione della corteccia cerebrale in vivo ed in vitro, li hanno poi comparati con quelli generati da un modello che sfrutta le equazioni di Hodgkin ed Huxley e hanno trovato varie differenze tra la situazione sperimentale e quella derivata dal modello. In particolare la forma della fase ascendente del potenziale d’azione è differente così come il valore dell’onset potential, cioè il potenziale a cui inizia la rapida depolarizzazione della membrana, che è molto più variabile nella situazione reale che non nel modello. Questi problemi non riescono ad essere risolti semplicemente cambiando i parametri del modello, a meno di non andare ad usare valori assolutamente non fisiologici.
Queste possono sembrare piccolezze, ma non è così: i neuroni, infatti, “leggono” diversi parametri dei potenziali d’azione. La forma del potenziale d’azione può incidere ad esempio sul rilascio di neurotrasmettitori alle sinapsi e, più in generale, la forma contribuisce a generare diversi firing patterns, ossia diversi “motivi” nella generazione dei potenziali d’azione, che possono essere generati ad esempio a diverse frequenze, in continuo o in gruppi più o meno lunghi (bursts), in modo regolare o irregolare. Tutte queste variabili permettono la comunicazione di diversi stimoli da parte della stessa cellula utilizzando un solo sistema.
Gli autori dello studio propongono quindi un modello rivisto che invece modella bene le caratteristiche mancanti nel modello Hodgkin-Huxley. Il problema è che questo nuovo modello implica che i canali al sodio voltaggio-dipendenti che sono alla base della trasmissione del potenziale d’azione si aprano in modo cooperativo (cioè, l’apertura di uno favorisce l’apertura di quelli attorno). Ovviamente, non c’è alcuna prova sperimentale del fatto che ciò avvenga in un vero neurone!
Insomma, alla fin della fiera questo studio mostra come si possano derivare modelli matematici partendo dai dati sperimentali, smontare gli stessi modelli con altri dati sperimentali, per costruire così un nuovo modello che genera nuove teorie (non provate). Il prossimo passo, immagino, dovrà essere quello di accettare o smentire questo nuovo modello con altri dati sperimentali, grazie a quel magnifico processo chiamato metodo scientifico.
Non c’é dubbio che gli occhi siano importanti per farci vedere ciò che ci circonda, tuttavia bisogna ricordare che un ruolo forse ancora più importante nel processo della visione è giocato dal cervello. Il cervello, infatti, ci permette di interpretare le informazioni derivanti dalla luce che colpisce la retina e di trasformarle nella nostra visione del mondo che ci circonda. Tuttavia, quello che il nostro cervello ci dice a volte non corrisponde alla realtà…
Per dimostrarvi questo vi voglio proporre un esperimento classico (credo sia stato fatto per la prima volta attorno al 1600… ma al tempo non c’erano i blog quindi magari qualcuno se l’è perso!). Si tratta di uno degli esperimenti che permettono di mostrare l’esistenza del punto cieco nella retina. Il punto cieco è un punto nella retina di ciascun occhio da cui si diparte il nervo ottico: questa parte della retina è priva di fotorecettori e quindi non può inviare informazioni sulla luce che la colpisce.
Nonostante le nostre retine abbiano questo “buco” noi non ce ne accorgiamo…. come mai? Parte di questo è dovuto al fatto che la nostra visione è binoculare, quindi ciascun occhio sopperisce alla mancanza di informazioni del punto cieco dell’altro, e parte è dovuto al fatto che il nostro cervello “interpola” quello che dovremmo vedere nel punto cieco.
Ma passiamo al nostro esperimento: chiudete l’occhio destro e guardate l’immagine qui sotto, tenendo lo sguardo fisso sul pallino. Nella periferia del vostro campo visivo dovreste essere ancora in grado di vedere la X. Ora muovetevi lentamente verso lo schermo (o allontanatevi… dipende a che distanza siete!) fino a che, ad un certo punto la X sparirà! Questa misteriosa sparizione è dovuta al fatto che l’immagine della X è a questo punto finita nel punto cieco della retina sinistra e quindi non la possiamo più vedere (a meno di non aprire l’occhio destro ovviamente).
Se però vi chiedessi cosa vedete al posto della X… mi rispondereste che vedete lo sfondo bianco! Ebbene sì, il nostro cervello si “inventa” lo sfondo per sopperire alla mancanza di informazioni in quel punto. Se lo sfondo dell’immagine fosse ad esempio verde, vedreste che al posto della X c’è del verde.
Ancora più interessante è il caso di quest’altra immagine.
In questo caso il nostro cervello, quando la X va a finire nel punto cieco, va a completare la linea… che pure non è mai stata completa! E la cosa funziona anche se i due tratti non sono allineati…
Molto interessante è il fatto che sembrano esserci differenze nell’interpretazione di questi fenomeni a seconda dell’orientamento della linea.
Un caso clinico in cui ritroviamo questa capacità di interpolazione del nostro cervello è quello degli scotomi, aree del campo visivo in cui c’è una perdita di visione dovute, ad esempio, a danno alla corteccia cerebrale. Questi furono inizialmente studiati negli anni ’20 da Sir Gordon Holmes su veterani della prima guerra mondiale che durante la guerra avevano subito piccole lesioni nella corteccia visiva (la parte posteriore della corteccia cerebrale). Questi individui presentavano delle aree di cecità nel loro campo visivo, che potevano essere riconosciute facendo loro chiudere un occhio e muovendo una luce in varie posizioni del campo visivo, mentre guardavano un punto fisso: insomma, una variante dell’esperimento visto qui sopra. La cosa straordinaria è che chi ha un piccolo scotoma spesso non se ne accorge se non in particolari situazioni, così come noi non ci accorgiamo del nostro scotoma nel punto cieco della retina. Il lavoro di Sir Gordon Holmes fu molto importante per determinare come la retina viene mappata sulla corteccia cerebrale. Tra le altre lo studio di questi fenomeni ha portato a scoprire che la parte centrale della retina, che raccoglie la luce del punto che stiamo fissando viene mappata su di un’area molto più grande della corteccia visiva rispetto alle parti periferiche della retina, in modo da avere una risoluzione molto maggiore e permetterci di notare i fini dettagli del punto che stiamo fissando.
Finisco con un aneddoto storico: si narra che il re Carlo II di Inghilterra usava “decapitare virtualmente” le persone a lui non gradite chiudendo un occhio e facendo andare la testa dello sfortunato nel punto cieco dell’altro! Una pratica un po’ macabra forse, ma accettabile se poi il poveretto non veniva decapitato davvero!
Immaginate di voler capire come funziona un apparecchio elettronico:
lo aprite e ciò che vedete è un ammasso di cavi che vanno da ogni parte… una cosa che potreste fare per cominciare è disegnare una mappa dei fili, segnandovi da dove partono e dove arrivano. Certo, non sarebbe la soluzione finale al vostro problema, ma potrebbe essere un buon punto di partenza.
Studiando il cervello ci si trova spesso di fronte ad un problema simile, ma molto più complesso: un cervello umano contiene approssimativamente 100 miliardi di neuroni di molti diversi tipi e si stima che ciascuno di essi abbia collegamenti (sinapsi) in media con altri 7000 neuroni. Una delle sfide più grandi è quindi capire come questi neuroni siano collegati tra di loro, in modo da poter creare una mappa delle connessioni del cervello.
Un enorme passo avanti in questo senso è stato annunciato in un recente studio apparso sull’ultimo numero di Nature da parte di Jean Livet e colleghi al Dipartimento di Biologia Molecolare e Cellulare dell’Università di Harvard (e con uno studio del genere non c’è da sorprendersi che abbiano avuto l’immagine di copertina…).
L’articolo riporta la generazione di varie linee di topi transgenici chiamati “Brainbow”, nome derivato dall’unione di brain (=cervello) e rainbow (=arcobaleno). I neuroni dei topi Brainbow, infatti, emettono fluorescenza in 100-150 colori differenti! Ciò è possibile grazie all’espressione nei neuroni di questi topi di diverse proteine fluorescenti: GFP (verde), YFP (gialla), CFP (azzurro), OFP (arancio) e RFP (rossa). Queste proteine vengono fatte esprimere in modo casuale ed a diversi livelli nei diversi neuroni per generare i diversi colori.
Topi ed altri animali le cui cellule esprimono proteine fluorescenti non sono certo una novità, negli ultimi 10-15 anni si è visto un aumento esponenziale del loro numero. La novità di questo studio è il fatto di avere un così grande numero di colori diversi che permette di seguire facilmente il percorso di un neurone, capire da dove parte e dove arriva e con quali altri neuroni viene a contatto. Sarà infatti probabile che neuroni vicini tra di loro abbiano diverso colore, rendendo così più “semplice” la mappatura delle varie connessioni.
L’articolo mostra anche esempi pratici d’uso di Brainbow come la ricostruzione in 3D di alcuni network cellulari nel cervelletto ed uno studio dell’interazione neuroni-glia.
Per chi fosse interessato all’aspetto più tecnico: il trucco sta nell’utilizzo di un transgene contenente le diverse XFP messe in sequenza in modo tale che solo la prima proteina possa essere tradotta. Le varie XFP sono messe all’interno di siti lox incompatibili tra loro (loxP, lox2272 e loxN) e mutualmente esclusivi; questo in pratica vuol dire che se Cre excide il DNA all’interno di una coppia di questi siti, gli altri non sono più funzionali. Il taglio può avvenire con la stessa probabilità a ciascun sito, portando così all’espressione di una diversa XFP in neuroni diversi. Aggiungete il fatto che diverse copie del transgene possono essere inserite in tandem (una delle linee riportate nell’articolo ha 8 copie del transgene) ed eccovi tutta la variabilità di espressione necessaria per ottenere 100 o più colori diversi!
Una domanda mi sorge però spontanea: supponendo di arrivare ad avere una mappa completa delle connessioni cerebrali, non credete ci troveremo poi in una situazione di stallo su come analizzare la inimmaginabilmente immensa quantità di dati che deriverebbe da questo studio? E come memorizzare questa enorme quantità di dati in un modo accessibile e funzionale?
Ad ogni modo, per ora la cosa migliore da fare è godersi un paio delle fantastiche immagini dei neuroni Brainbow!
Salve a tutti e benvenuti in questo nuovo blog del network Inside Blogdi MolecularLab: Inside Neuroscience.
Cominciamo subito con le presentazioni: siamo Nicola e Pasquale, due dottorandi che cercheranno di introdurvi nel fantastico universo delle neuroscienze, pieno di complessi meccanismi ed affascinanti misteri! Se non avete mai sentito parlare o sapete molto poco su questo argomento, don’t worry! Ci sarà tutto il tempo per capire, discutere e scambiarci un po’ di opinioni su argomenti più o meno curiosi, intriganti o semplicemente informativi riguardo la ricerca nel campo delle neuroscienze.
Per chi non sa di cosa si occupi il campo delle neuroscienze, bisogna dire che è quel campo della ricerca che studia il sistema nervoso in tutte le sue mille sfaccettature: dalla comprensione della percezione delle immagini che vediamo, alle sensazioni di amore, gioia, fame o dolore fino alla generazioni di pensieri, emozioni, sogni e memorie. Il campo è talmente vasto che si occupa persino di cose che generalmente non associamo al nostro cervello, come la regolazione della pressione sanguigna, della temperatura corporea e della secrezione di ormoni. La lista potrebbe andare avanti per molte pagine e potete scommettere che ci sia sempre qualche neuroscientist da qualche parte nel mondosta studiando qualcosa di assolutamente insolito! Inoltre, per tutti i nostri amici appassionati di bioinformatica che si volessero avvicinare alle neuroscienze, ci sarà anche da parlare delle molte applicazioni che l’informatica ha in questo campo; un esempio fra i tanti è la creazione di reti neurali “virtuali” che tentano di riprodurre, con più o meno successo a seconda dei casi, il funzionamento dei complessi circuiti del sistema nervoso.
Uno degli aspetti più appassionanti delle neuroscienze è il fatto che, nonostante si conosca molto bene tutta la geografia del nostro cervello e dei tanti fili che lo collegano al resto dell’organismo, ancora oggi non si riesce davvero ad avere un quadro completo di tutti i complessi meccanismi che sono al suo interno… come succede anche in molte altre aree della scienza, infatti, anche nelle neuroscienze più risposte si danno e più nuove domande e dubbi vengono fuori…
Insomma, per farla breve, ci sarà tanto di cui parlare e speriamo vi appassionerete a leggere Inside Neuroscience!