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Biotech: salvezza o fine dell'uomo?

Per affrontare con efficacia il confronto che ci attende a proposito della fecondazione artificiale è necessario ricostruire il retroterra culturale e politico da cui la richiesta di manipolare gli embrioni trae giustificazione. Scoprendo così che non si tratta di un fatto soltanto italiano né tanto meno recente.
All'indomani della seconda guerra mondiale - dopo due conflitti in 30 anni, milioni di morti e l'orrore dei campi di sterminio - la comunità internazionale si chiese "Perché?" e "Come evitare che accada ancora?". La risposta è nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948) che, ricorrendo al diritto naturale e grazie all'eredità della civiltà cristiana, riconosce la centralità della persona e l'universalità dei diritti umani fondamentali. La Dichiarazione si basa sul riconoscimento che "tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti" (art. 1) e a loro spettano "tutti i diritti e le libertà enunciate nella presente Dichiarazione" (art.
2) che possono essere interamente ricondotti al "diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona" (art. 3). Una notazione interessante è che proprio per garantire tutti questi diritti la Dichiarazione stabilisce non l'individuo ma la "famiglia" (basata sul matrimonio tra uomo e donna) quale "nucleo naturale e fondamentale della società" e per questo "ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato" (art. 16.3).
Peccato però che contemporaneamente una ben organizzata lobby - di cui vedremo più avanti la matrice - si sia attivata per riaffermare il "diritto positivo" sopra il "diritto naturale", fino ad arrivare, nel 2000, alla promulgazione della Carta della Terra, che anche nelle intenzioni rappresenta il completo rovesciamento della Dichiarazione Universale del 1948.
Nella Carta della Terra sparisce infatti la centralità della persona per fare posto a una più ampia "comunità di vita" in cui l'uomo si confonde con il regno animale e regno vegetale in una sorta di panteismo che si pone in aperto contrasto con la visione giudaico-cristiana. Basti ricordare queste parole di Mary Evelyn Tucker, studiosa di religioni ed ecologia all'Università di Bucknell, tra le principali redattrici del testo: "L'obiettivo della Carta è quello di un revisionismo creativo per una mutua e solida relazione tra l'uomo e la terra, ben lontana dalla concezione ortodossa e monoteistica, che mette l'uomo al centro della creazione. Nella maggior parte del mondo la visione associata con la tradizione abramitica del giudaismo, del cristianesimo e dell'islam, ha sviluppato una moralità dominante centrata sull'uomo. A causa di questa visione del mondo esageratamente antropocentrica, la natura è stata vista come un essere di secondaria importanza". E l'ex presidente sovietico Mikhail Gorbaciov, attuale responsabile per l'Europa della Carta della Terra, ne parla come del "manifesto di una nuova etica per un nuovo mondo (...)". "Questi nuovi concetti - per l'uomo della perestrojka - si dovranno applicare a tutti, e il nuovo sistema di idee, di morale e di etica costituirà un nuovo modo di vita. Il meccanismo che useremo sarà quello di rimpiazzare i dieci comandamenti secondo i princìpi contenuti in questa carta o costituzione della Terra".
Per essere precisi la Carta della Terra non è stata ancora ufficialmente adottata dalle Nazioni Unite, grazie alla deterrenza esercitata dal'attuale presidenza Usa di George W. Bush. Ciò non toglie però che i princìpi della Carta della Terra, basati sul concetto di sviluppo sostenibile, stiano già penetrando in molte legislazioni nazionali. Anche la Costituzione europea ha nel preambolo un riferimento implicito alla Carta della Terra, e quei "valori" si ritrovano in diverse parti del trattato costituzionale.
Questa trasformazione ha portato negli ultimi anni una novità importante: nelle sedi internazionali si parla sempre meno di diritti universali e sempre più di "nuovi diritti umani", che vengono riproposti in ogni occasione e che riguardano assai da vicino il discorso sulla fecondazione artificiale. I "nuovi diritti umani" si condensano infatti nei "diritti sessuali" e nei "diritti riproduttivi". I primi tendono a sostituire l'universale divisione dei sessi - maschile e femminile - a favore di un'articolazione più ampia e sfumata: si nega in questo modo l'ordine naturale e si affermano invece gli orientamenti sessuali, con la richiesta di riconoscere cinque generi: maschile, femminile, omosessuale maschile, omosessuale femminile, transessuale. E da qui anche la base per attribuire alle coppie omosessuali la possibilità di essere genitori. I "diritti riproduttivi" ruotano invece attorno all'autodeterminazione e alla libera scelta della donna: contraccezione e aborto sono l'espressione più comune, ma anche il "diritto al figlio".
La caratteristica dei "nuovi diritti umani" è la loro relatività. Ovvero essi non sono definiti in natura quanto piuttosto da una maggioranza, ossia dallo "spirito dei tempi". Ed è così che i "nuovi diritti umani" entrano in conflitto con i "vecchi diritti universali" quale è, ad esempio, quello alla vita. Non deve dunque stupire se la Commissione Onu sui diritti umani decida - come sta accadendo - di mettere sotto accusa la Polonia perché la sua legge che legalizza l'aborto è troppo restrittiva. Se ripensiamo all'origine della Dichiarazione del 1948 si può avvertire la pericolosità di questa trasformazione, ovvero il deragliamento a cui ci espone. Difendere il diritto del concepito, impedire per legge che si possa manipolare l'embrione è dunque una battaglia a garanzia della libertà contro il tentativo di destrutturazione dell'ordine naturale a tutto vantaggio di signorie più subdole.
E' doveroso chiedersi a questo punto qual è l'origine di tale progetto, e scopriamo così una inquietante analogia con quell'epoca che gli estensori della Dichiarazione del 1948 avrebbero voluto evitare che riaccadesse. L'origine infatti si può trovare nel movimento eugenetico che, contrariamente a quel che credono i più, non nasce e muore con il nazismo. L'eugenetica infatti attraversa tutto il Novecento e si presenta oggi maggioritaria sotto le accattivanti forme delle ideologie umanitarie.
A coniare il termine eugenetica (dal greco eu, buona, e génos, razza) già alla fine dell'Ottocento, fu il britannico Francis Galton, cugino e discepolo di Charles Darwin, del quale sviluppò le teorie sulla selezione naturale applicata alla società umana: gli uomini tendono a riprodursi oltre i limiti fino a generare una lotta per la sopravvivenza, che vede vincitori i più forti e intelligenti. Galton, poggiandosi anche sulla recente scoperta dell'ereditarietà dei geni, fa un passo ulteriore chiedendosi se non sia possibile "guidare" la selezione in modo da migliorare la razza umana. Strutturale nel pensiero eugenetico è il razzismo: lo stesso Galton teorizza l'inferiorità genetica di alcune razze, tra cui i neri e gli indiani d'America.
Evidente anche la tendenza a separare nella società i "sani" dagli "insani", per evitare il moltiplicarsi di geni "deboli". Nascono così le prime Società Eugenetiche. Al primo Congresso internazionale di Eugenetica, nel 1912, partecipano delegati provenienti da Stati Uniti, India, Australia, Canada, Germania, Francia, Giappone, Mauritius, Kenya e Sudafrica. Negli Usa la teoria trovò consensi perché intercettava le ansie di molti bianchi che vedevano minacciata la nazione americana dai cambiamenti economici e demografici (nei primi anni del '900 c'è una forte immigrazione dall'Europa meridionale e orientale). Nel 1930 erano almeno una trentina gli Stati americani dove vigevano leggi eugenetiche che autorizzavano la sterilizzazione degli "insani", ovvero criminali, epilettici, deficienti mentali, pervertiti sessuali e anche "non bianchi". E in quegli anni anche in diversi Paesi europei venivano applicate analoghe misure, in Svezia e poi a seguire in altri Paesi, la sterilizzazione forzata è rimasta in vigore e applicata fino agli anni '70-'80. In quell'humus nascono anche altri movimenti, a partire dal femminismo radicale: convinta eugenista era l'americana Margaret Sanger, che negli anni '10-'20 diede il via al movimento di liberazione della donna, a lei si deve anche il concetto di controllo delle nascite.
La Sanger, tra le altre cose, fondò l'International Planned Parenthood Federation (Ippf), presente oggi in oltre 180 Paesi, che è la più grande multinazionale per la contraccezione e l'aborto. Vita parallela a quella della Sanger ebbe l'inglese Marie Stopes, fondatrice in Inghilterra della prima clinica per il controllo delle nascite (1920); anche lei ci ha lasciato degli "eredi" riuniti nell'organizzazione Marie Stopes International, molto ben inserita nella Commissione Europea.
In questo quadro si può meglio comprendere il sostegno culturale di cui ha goduto il nazismo, il quale poté in breve assurgere al potere proprio in ragione di un certo clima e di determinate alleanze culturali e scientifiche. Sbaglierebbe però chi pensasse che la sconfitta del nazismo abbia significato anche la fine dell'eugenetica. Il movimento aveva radici ben più profonde di quelle del nazismo ed era ampiamente diffuso al di fuori della Germania. Il dopoguerra è perciò un periodo di ripensamento sulla strategia da seguire. Esemplare al proposito questo brano di Frederick Osborn, la figura più importante del movimento eugenetico americano di quegli anni. Osborn parla nel 1956 alla Società Eugenetica britannica: ". La parola eugenetica è caduta in disgrazia in alcuni ambienti. (...) Dobbiamo dunque chiederci, dove abbiamo sbagliato? Abbiamo sottovalutato un tratto che è quasi universale e profondamente radicato in natura. Cioè le persone non vogliono accettare che la base genetica che forma le loro caratteristiche è inferiore e non deve perciò essere ripetuta nella prossima generazione. Noi abbiamo chiesto a interi gruppi di persone di accettare questa idea e lo abbiamo chiesto anche a singoli. Loro hanno costantemente rifiutato..
La gente invece accetterà l'idea di uno specifico difetto ereditario. Andranno a una clinica per l'ereditarietà e chiederanno qual è il rischio di avere un bambino con qualche difetto. Calcoleranno il rischio rispetto alla possibilità di avere un bambino sano, e usciranno di solito con una sana decisione. Ma loro non accetteranno l'idea di essere di seconda classe. Perciò dobbiamo puntare su altre motivazioni".
Ciò che nel prosieguo del suo discorso Osborn propone è la "selezione volontaria inconsapevole" la quale ha impressionanti tratti coincidenti con l'attuale concetto di "libertà di scelta". Ad ogni modo, mentre le Società di Eugenetica cambiano nome nei più presentabili e moderni Istituti di Biologia Sociale, è proprio a partire dagli anni '50 che fioriscono due correnti che tutt'oggi sono la più matura espressione del pensiero eugenetico: il movimento per il controllo delle nascite, che ha nel Population Council (fondato da John D. Rockefeller III) e nell'International Planned Parenthood Federation (IPPF, fondata da Margaret Sanger) i protagonisti principali; poi il movimento ecologista, che "esplode" negli anni '70 e trova nel Sierra Club, nel WorldWatch Institute e nel Wwf i punti di riferimento. Questi movimenti hanno un minimo comun denominatore: una visione totalmente negativa dell'uomo e di sfiducia verso il futuro, che richiede il formarsi di una "oligarchia illuminata" in grado di guidare un'umanità altrimenti dannosa per sé e per il pianeta, fino a programmare e selezionare gli individui. Che poi sono i presupposti della Carta della Terra, i quali compaiono nell'attività dell'Onu. Come stupirsi che nell'ultima Assemblea generale (ottobre-novembre 2004) si sia evitato di far approvare una risoluzione di condanna per la clonazione umana?
Parte essenziale di questo progetto è slegare l'uomo da ogni appartenenza, perché è l'appartenenza ad un legame che garantisce la libertà e la resistenza a ogni tentativo di dominio L'attacco più vigoroso è così per la famiglia, posta nella Dichiarazione del 1948 come cellula fondamentale della società. Da ormai 15 anni a ogni conferenza si tenta di relativizzare il concetto di famiglia, trasformandolo in "famiglie", dove la struttura cambia a seconda della cultura e dei tempi. In questo contesto un'importanza tutta particolare ha la questione della fecondazione artificiale. Far passare come normale tale pratica - soprattutto nella sua versione eterologa, cioè con un donatore al di fuori della coppia - significa cancellare anche l'immagine di appartenenza che la nascita di un bambino rappresenta. Perciò battersi contro la fecondazione artificiale e contro i tentativi di peggiorare la Legge 40 - pur limitata e non totalmente condivisibile - è una battaglia per la libertà e per la difesa della dignità di ogni uomo.


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