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Riabilitazione e "welfare community"

Il welfare si sta dimostrando una componente sempre più importante della società contemporanea e, soprattutto, nell’ambito sanitario dove contribuisce a trovare soluzioni concrete per sostenere lo sviluppo del “sistema salute”.

È indubbio che il termine ingloba oggi molto di più del puro e semplice aiutare perché porta anche a considerare la qualità della vita, il senso di appartenenza e di valere, il diritto alle pari opportunità, la centralità del soggetto, il recupero dalle disabilità e dai disagi, la soluzione di problematiche legate al handicap.
Questa apertura agli orizzonti che è intimamente consona ad una società etica e solidale, ha portato ad una richiesta di risorse che è in continua crescita e che si scontra con l’altra faccia della medaglia che è la necessità del contenimento della spesa e, quindi, anche dei costi.
Sono le società più avanzate che si pongono il problema etico della solidarietà e del rispetto dei più deboli e, proprio per questo, sono le democrazie che si pongono il problema di come superare la crescente fragilità ed anche impotenza dello “stato sociale” che non può più affrontare l’aumento delle richieste ed un sistema di protezione sempre più variegato e sempre meno capace di adattarsi a bisogni sempre più differenziati.


Per avere una idea anche solo approssimata del problema, possiamo ricordare i dati ISTAT per i quali in Italia i disabili sono 2.800.000 (ossia il 5% della popolazione), tra i quali:
- le difficoltà a svolgere attività quotidiane (3%);
- l’impedimento del movimento (2,2%);
- il confino individuale domiciliare (2,1%);
- la disabilità sensoriale (1%);
- i non vedenti parziali o totali sono 352.000;
- le persone audiolese 877.000;
- i sordomuti 92.000.
Non ci sono dati riferiti alle disabilità psichiche, ma sicuramente sarebbero un numero pari a tutte le altre forme di danno e di insufficienza funzionale.

Un aspetto nuovo, ma fondamentale per affrontare questi casi che stanno vedendo un rapido ed impressionante aumento di incidenza, sta nel cercare di intercettare e, a volte, di anticipare la coscienza di nuovi bisogni sociali e queste dinamiche di sensibilità sono visibili proprio nell’approccio alla disabilità psichica.
Di fronte a questo quadro, la propensione del welfare-sociale a riconoscere la centralità della persona ed anche dei bisogni più intimi del soggetto (che sono il senso di valere, l’autosoddisfazione, il sentirsi rispettato per le proprie potenzialità relative ed assolute, nel rispetto del diritto di poter godere di pari opportunità) ha cambiato i suoi cardini permettendo così alla disabilità di diventare una risorsa.
Il cambio dell’ottica di osservazione ha portato a concepire la disabilità non come uno stato, ma come il punto di partenza per scoprire, conoscere, sapere come poterla superare.
Se la disabilità fisica ha portato allo studio di protesi e di presidi, sono state le componenti psichiche, affettive e cognitive, ad imporre il superamento di altri limiti, ben più sottili, ma anche ben più dolorosi.
In questo ambito è stato il welfare sociale a non cedere all’idea più comune: “tanto non c’è nulla da fare”, superando i limiti delle conoscenze medico-sanitarie e attuando uno sforzo etico per la “riabilitazione sociale della disabilità”.
Questo è stato possibile grazie alla propensione naturale, quasi di amore familiare che pervade il welfare community, rendendolo intervento non solo solidaristico, ma di qualità, di innovazione per il benessere che non è solo qualità della vita, ma soprattutto spinta al recupero di ogni particella di potenzialità, di capacità, di possibilità di miglioramento.
La chiave di questa “nuova qualità” non è stata l’investimento nella tecnica, ma la scoperta del valore della relazione, l’uso di una propensione sociale nel senso che non c’è riabilitazione senza reinserimento e senza integrazione.
Parlare di riabilitazione è diventato oggi:
- affrontare le necessità primarie legate alla patologia ed alla disabilità;
- farsi carico degli aspetti emotivi, affettivi e cognitivi;
- aprire alla centralità della persona con interventi multidisciplinare, globali ed olistici;
- creare studio per raggiungere innovazione ed adeguamento dei sistemi alle necessità personali;
- superare la semplicità del ludico e ricreativo per raggiungere una scientificità che è il prerequisito per offrirsi come vera e propria alternativa, per essere una medicina nuova, alternativa ed olistica;
- non cedere alle facili soddisfazioni trionfalistiche, ma sottomettersi alle regole della valutazione e del controllo dei risultati;
- proporsi sempre come finalità ultima ed inderogabile il reinserimento sociale e l’integrazione in ogni ambito della quotidianità.

Queste considerazioni sottolineano senza equivoci il compito del welfare community che non è sicuramente un semplice supporto al welfare dello stato, è uno strumento insostituibile che non serve a rendere più dignitosa e meno gravosa la disabilità, ma per superarla, per annullarla, per ridare senso alla vita e futuro ad ogni soggetto, persona, cittadino.
Il cambio di ottica ha fatto scoprire la possibilità di agire per la prevenzione che non è solo evitare la malattia, ma è soprattutto evitare quei peggioramenti, quelle evoluzioni negative che generano disagio, disabilità ed emarginazione.
In questo modo il rapporto con la disabilità psichica è cambiato sia per l’importante sviluppo della psico-farmacologia, che per un atteggiamento nuovo che, partito dalla sfera sociale, ha investito le scienze psicologiche, sociologiche e anche mediche.
In queste dinamiche, aspetti terapeutici e riabilitativi si sono intrecciati con altre spinte sociali fondate sui pilastri del diritto di ogni persona a sviluppare le proprie potenzialità, ma, soprattutto, quello delle pari opportunità.
I servizi si sono quindi trovati ad affrontare non solo la deficienze di abilità sociali (che detto in altre parole è l’insieme dei comportamenti problema che ha sempre portato all’isolamento), ma anche il disagio psichico e l’emarginazione, rispettando così la persona e la sua qualità di vita.
In questo sta il senso di una vera e propria “piccola rivoluzione”, come dice l’Assessore Gian Carlo Abelli, che è culturale prima che pratica e che investe sì le strutture, ma deve interessare anche tutta la società.
Cambiare il Welfare Assistenziale per il Welfare Community (comunità che cura se stessa) è prima di tutto, partire dalla persona, oggetto e soggetto dell’azione sociale, per creare una “dinamica circolare” che accoglie; una rete di servizi che è incontro di professionalità, di persona, di operatori, di famiglie che offrono, nel segno della “qualità” non solo un servizio, ma anche la promessa di una vita migliore o, a volte, di “una vita”.
La riabilitazione riveste, dunque, l’obiettivo di dare società attorno ai soggetti disabili e/o in difficoltà, perché in questo “luogo”, in questo “ponte d’amore”, come lo chiama Giuseppe Andreis, possano trovare la forza di essere se stessi, di sviluppare le proprie potenzialità assolute, relative o anche residue, nel rispetto della “libertà individuale”.

La spinta innovatrice ha portato il welfare community, chiamato anche terzo settore, a crescere per importanza, ma anche in quantità ed in qualità.
Partendo dalle esperienze inglesi e francesi, anche in Italia il no profit ha saputo assumere un ruolo trascinante in molti settori della ricerca biomedica, uscendo definitivamente dal “volontarismo” e dalla improvvisazione.
Questi aspetti iniziali sono stati sostituiti da una perfetta organizzazione capace di creare studio delle necessità, programmazione, pianificazione, regolamentazione, verifica dell’efficacia e, non ultima, una rigida trasparenza dei bilanci.
In Italia il maggior impegno del terzo settore è ancora riferito all’assistenza ed alla riabilitazione, anche perché questi sono gli ambiti nei quali non vengono richiesti impegni economico-finanziari di ampia portata.
Anche in questo ambito, però, è necessario che vengano rispettate le regole per un “funzionamento efficace”. L’eticità dell’impegno riguarda:
- il rispetto del soggetto e della persona, delle necessità e dei suoi diritti che interessano le pari opportunità, il poter utilizzare tutte le risorse personali, il riuscire ad avere un ruolo ed uno spazio proprio nella società;
- la necessità che il lavoro riabilitativo sia sempre sostenuto da un alto impegno di studio che porti all’applicazione delle migliori e delle più aggiornate strategie;
- l’impegno a non considerare la disabilità come uno “stato” per lo più immodificabile, ma, al contrario, un insieme di funzionamenti fisici e mentali che possono essere modificati con tecniche appropriate e, quindi, con il fine di un recupero, se non proprio una guarigione.

Questi sono o motivi fondanti per una assistenza-riabilitativa innovativa, ma anche rispettosa dei principi fondanti del welfare sociale ed è sperabile che in breve tutte le iniziative in favore della disabilità possano trasformarsi in efficienti centri condotti con professionalità, spirito di servizio, voglia di studio e di crescita, rispetto del fine ultimo che deve essere sempre quello del reinserimento e dell’integrazione sociale.
Tenendo conto di queste osservazioni, si può veramente proporre un intervento globale che, attraverso la terapia e diverse attività riabilitative, si può sperare di ridare ai disabili una speranza concreta di uscire dal loro “tunnel” e, soprattutto, di far fruttare gli sforzi che le istituzioni e le famiglie fanno per dare a questi ragazzi delle possibilità concrete di riproporre il loro futuro.
Queste conclusioni non vogliono precludere nuove ed ulteriori sperimentazioni, ma solamente ricordare che di fronte ad un disabile psichico il maggior problema da affrontare è quello etico, dal momento che questi soggetti hanno un tempo limitato per poter accedere al recupero perché è ormai largamente dimostrato che la plasticità cerebrale che permette lo sviluppo delle funzioni psichiche e mentali si va esaurendo.

La proposta di provvedere ad interventi terapeutici e riabilitativi che permettano di raggiungere i prerequisiti per l’inserimento attivo nella società deve essere vista come una speranza concreta di utilizzare al meglio le risorse anche perché si può, in questo modo, cominciare a prevedere anche degli inserimenti nell’ambito lavorativo che, vogliamo ribadirlo, deve essere il vero obiettivo di ogni sforzo riabilitativo, educativo e formativo.
Solo attraverso il sentirsi utili, il percepire di far parte di un tessuto sociale e di avere un proprio ruolo si ottiene il meraviglioso risultato di ricreare quel senso di essere “persona”, individuo, cittadino in piena regola e con tutti i diritti.




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