Uno sguardo ai meccanismi della mente

Inside Neuroscience

26 gennaio 2008 - 2:15 am

The accidental mind

» di in: Libri,Mente

L’avete probabilmente visto qualche volta: un cervello umano illuminato drammaticamente da un lato, con la telecamera che ci gira attorno come a fare una ripresa di Stonehenge dall’elicottero ed una voce da baritono che esalta il design elegante del cervello in toni riverenti. Questo è puro nonsense. Il cervello non ha per nulla un design elegante. Benchè la sua funzionalità sia impressionante, il suo design non lo è. E, cosa ancora più importante, gli stravaganti, inefficienti e bizzarri piani del cervello e delle sue parti costituenti sono fondamentali per la nostra esperienza umana. Le particolari caratteristiche delle nostre sensazioni, percezioni ed azioni sono derivati, in larga parte, dal fatto che il cervello non sia una macchina ottimizzata per risolvere dei generici problemi, ma piuttosto uno strano agglomerato di soluzioni ad hoc che si sono accumulate attraverso milioni di anni di evoluzione.

It is with these words (translated by me for the occasion) that David J. Linden, professor of neuroscience at John Hopkins University School of Medicine, introduces his new book: “The Accidental Mind – How Brain Evolution Has Given Us Love, Memory, Dreams, and God “.
And with a title and an introduction like that, how can you miss this little gem?

Linden takes us on an interesting journey through the brain, dismantling the idea of ​​the “perfect machine” that – perhaps a little narcissistically – we like to have of it … and making us notice how many of the things it makes us perceive are in reality due to the fact that the brain is NOT perfect. Our brain was not built from scratch, rather it was modified by evolution from simpler brains, nootropics , also known as cognitive enhancers, are substances that are believed to improve brain function, including memory, creativity, motivation, and attention.Some popular nootropics include caffeine,and certain amino acids. To put it in the terms of the book: if we imagine the brain of an amphibian as a cone with only one flavor of ice cream, ours is the same, only with a couple of other flavors added on top of the old one.  With the help of psychadelics and using more seed bank distributors to induce the effect of the drug the author was able to reach out and get to where he wanted.

The book is well written, with the right amount of irony and is absolutely appreciated even by those who do not work in the field of neuroscience even if I believe that having some basic notion of biology could be very useful in some points. Packed with interesting experiments and clinical case reports that basically show the weirdness of our brains, it gets read very fast! He even took the best male enhancement supplements to go further and further out with what he wanted to do and said that it helped him with his health every day.

Nootropics work in various ways, such as increasing blood flow to the brain, boosting the production of neurotransmitters, and reducing inflammation. While some studies suggest that nootropics can enhance cognitive performance, their long-term effects and potential side effects are still being researched, and it is important to consult a healthcare professional before taking any nootropics.

Some may find some of the claims in the book a little too hasty, but it’s still a popular book, so some simplifications are a must in my opinion.

 

Purtroppo, almeno che io sappia, non esiste (ancora?) una versione italiana, ma magari è la volta buona per esercitarsi un po’ con l’inglese!

Buona lettura!

Tags: Divulgazione, Libri, Mente, Neuroscienze
18 gennaio 2008 - 8:52 am

Tutto scorre

E’ decisamente corretto dire che le cellule del nostro organismo sono sempre in continua attività e questo è ancora più vero nel caso dei neuroni del nostro cervello. L’attività del il cervello è determinata dai collegamenti fra i vari neuroni, che avvengono alle sinapsi. La maggior parte dei neuroni possiede dei processi molto ramificati, dette dendriti, che partono dal corpo cellulare e che funzionano come “sensori” per input da parte di altri neuroni. La superficie dei dendriti non è liscia, bensì contiene delle piccole estroflessioni di varia forma (spesso “a fungo”) chiamate spine dendritiche; è proprio su queste spine che vengono formate molte delle sinapsi eccitatorie con altri neuroni. Le spine contengono quella che viene chiamata post-synaptic density o PSD un complesso di molte proteine che sono coinvolte nei processi di formazione e rimodellamento delle sinapsi molto importanti -come si diceva in post precedenti- nei processi quali la memoria e l’apprendimento. Una delle più importanti fra queste proteine è PSD-95, ed è proprio questa proteina l’oggetto dello studio di cui vi parlerò oggi.

Lo studio è stato svolto nel laboratorio di Karel Svoboda, una delle figure più di spicco nel mondo dell’imaging neuronale. Potete trovare il lavoro completo al seguente link:
Rapid Redistribution of Synaptic PSD-95 in the Neocortex In Vivo – Gray et al. – PLoS Biology, 2006 Nov;4(11):e370

Gli autori iniziano con il generare dei topi transgenici che esprimono delle proteine fluorescenti nei neuroni di una parte della corteccia cerebrale deputata al processamento di stimoli sensoriali che nel topo sono mediati dalla stimolazione delle vibrisse. In particolare inseriscono una proteina fluorescente rossa chiamata mCherry che si distribuisce in tutta la cellula e serve per permettere di visualizzare i neuroni, e PSD-95-GFP, una PSD-95 fusa con una proteina fluorescente verde chiamata GFP. In questo modo è possibile visualizzare i dendriti dei neuroni, che saranno rossi, e la presenza di PSD-95 solo nelle spine. La tecnica usata è molto sofisticata in quanto grazie all’utilizzo di un microscopio a due fotoni permette di vedere queste proteine in vivo e di guardare la stessa cellula al passare dei giorni.

Spine dendritiche

La prima cosa che hanno osservato è che, durante il periodo osservato (topi giovani) c’è una grande plasticità neuronale. La figura qui a sinistra mostra un dendrita in rosso con diverse spine, identificate dai punti verdi, corrispondenti alla presenza di PSD-95. Lo stesso dendrita è stato fotografato più volte a diversi giorni di vita dell’animale (le sigle P13, P15 etc. indicano un animale di 13 giorni, 15 giorni e così via). Nella colonna C si vede come al passare dei giorni la localizzazione di alcune spine cambi radicalmente, e questo è indice di un rimodellamento delle connessioni fra i neuroni o, per usare un termine che piace tanto a chi studia neuroscienze, di plasticità neuronale.

Al contrario, altre spine dello stesso dendrita (colonna D) sono più stabili, anche se possono cambiare di intensità e forma di giorno in giorno.

Avendo visto che il sistema funzionava e gli permetteva di vedere questi fenomeni di plasticità, hanno deciso di utilizzarlo per risolvere una questione nota da tempo: è noto infatti che le sinapsi possono apparire e sparire, alcune durano meno di un giorno, altre possono esistere per mesi (forse anni), ma le proteine della PSD, tuttavia, stanno nella sinapsi solo poche ore. Ciò non è dovuto ad una loro degradazione, che avviene dopo giorni, bensì come dimostrato in questo studio, ad una rapida diffusione al di fuori della spina e al passaggio nelle spine adiacenti. Per dimostrare ciò gli autori usano una tecnica molto interessante, chiamata fotoattivazione. In pratica usano un’altra variante di PSD-95, questa volta coniugata a paGFP, una proteina normalmente non fluorescente, ma che può essere attivata dalla luce, diventando fluorescente. E’ quindi possibile andare a colpire con un laser solo una spina, attivare la paGFP e misurarne la diffusione al di fuori della spina.

Come vedete nella parte sinistra dell’immagine qui a fianco, è possibile attivare selettivamente una spina (nell’esempio sono attivate 2 spine) e mostrare che la fluorescenza diminuisce nel tempo. Ma questo non è tutto! Come è più evidente nella parte destra dell’immagine, la fluorescenza si può spostare da una spina all’altra! Le spine più grandi tendono a trattenere di più PDS-95 rispetto a quelle più piccole, e sono quindi più stabili. Inoltre il processo non è semplicemente una pura diffusione di molecole, ma è reso più complesso dall’interazione con altre proteine presenti nella PSD.

Infine, l’ultima cosa mostrata nell’articolo è che questi processi sono dipendenti dall’esperienza e da stimoli esterni. Il tempo di ritenzione della proteina all’interno delle spine aumenta infatti con l’età, quando quindi le sinapsi diventano più stabili, ma diminuisce in topi adulti a cui sono state tagliate le vibrisse e che quindi sono in una situazione di deprivazione sensoriale.

Devo dire che, nonostante sia anche io nel campo dell’imaging, e quindi un po’ di parte, ritengo che poter vedere questi fenomeni con i propri occhi sia semplicemente una cosa formidabile.Uno dei punti forti di questo lavoro, a mio parere, sta nel fatto che sono riusciti a fare tutto ciò in vivo e mostrare quindi che questi fenomeni di diffusione avvengono anche nella situazione reale e non sono solo un “artefatto” dei sistemi di colture cellulari (cosa che accade più spesso di quanto si voglia ammettere).

Tags: GFP, Imaging, Neuroscienze, Plasticità sinaptica
11 gennaio 2008 - 5:28 am

Splicing

Tornato da una necessaria pausa, riprendo a scrivere parlando un po’ di splicing (e ovviamente faccio gli auguri di buon anno a tutti!).

Devo ammettere che i dettagli dei fenomeni di splicing esulano un po’ dalla mia confort zone, tuttavia ho deciso di scrivere questo post dopo aver letto questo interessante articolo pubblicato su PLoS Biology.
Exon Silencing by UAGG Motifs in Response to Neuronal Excitation – An P, Grabowski J
(ne approfitto per ricordare a tutti che tutti i giornali pubblicati da PLoS sono ad accesso completamente gratuito, e permettono di leggere articoli peer-reviewed di qualità molto alta senza dover pagare alcun abbonamento).

La maggior parte dei geni del nostro organismo possono generare diversi mRNA grazie al processo dello splicing alternativo, per cui lo stesso mRNA precursore viene tagliato in modo diverso da un complesso riboproteico (cioè formato da RNA e proteine) chiamato, con poca fantasia, spliceosoma. In questo modo dallo stesso gene si possono generare diversi mRNA e quindi diverse proteine che possono avere funzioni simili o essere usate per processi completamente diversi. Il cervello non fa certo eccezione, e anche a livello neuronale lo splicing alternativo gioca un ruolo molto importante.

L’articolo in questione è centrato sullo studio dello splicing alternativo del recettore NMDA, un recettore-canale che, in risposta al legame con uno dei principali neurotrasmettitori nel cervello, il glutammato, permette il passaggio di ioni Ca++. Moltissimi gruppi hanno studiato il recettore NMDA, dimostrando come esso sia implicato in moltissimi importanti processi cellulari; tanto per fare un esempio, esso è importante per l’apprendimento, la memoria ed in generale i fenomeni di plasticità neuronale. Lo splicing alternativo di questo recettore riguarda l’inclusione/esclusione dell’esone 21, chiamato anche esone CI della subunità NR1. Questo esone è importante per la localizzazione del recettore in membrana e quindi il controllo del processo di splicing deve essere strettamente regolato.

Gli autori dell’articolo iniziano mostrando che stimolando delle colture primarie di neuroni con KCl, che provoca una depolarizzazione e quindi un eccitamento elettrico di queste cellule, si può modulare lo splicing di questo mRNA.
Insomma, se normalmente c’è l’80% di una forma e il 20% dell’altra, stimolando le cellule si può arrivare ad avere 50% e 50%. Il fenomeno è reversibile eliminando il KCl e lasciando “riposare” le cellule per 24 ore. Questo fenomeno è specifico per i neuroni e, ad esempio, non avviene nelle cellule gliali presenti nelle stesse colture, oltre ad essere specifico solo per alcuni geni.

L’articolo prosegue con ingegnosi esperimenti di biologia molecolare per trovare quale siano le esatte sequenze che mediano l’effetto. Una volta determinate queste sequenze gli autori sono anche stati in grado di “trapiantarle” in un altro gene il cui splicing non viene normalmente modificato dall’eccitazione neuronale e mostrare che esso diventa sensibile al KCl.

Seguono poi vari studi farmacologici che essenzialmente tentano di spiegare il pathway biochimico sottostante a questo processo. Quello che hanno scoperto è che il processo è modulato dallo stesso recettore NMDA che quindi va a controllare il suo stesso splicing.

Questa ipotesi è ben supportata da molta altra letteratura e vari modelli secondo cui un neurone può rispondere ad una sovraeccitazione cronica diminuendo la sua potenza sinaptica, ovvero la sua capacità di ricevere inputs da altri neuroni. Insomma, il neurone viene stimolato eccessivamente e risponde diminuendo la sua responsività a tali stimoli.
Questo può essere visto come un sistema di protezione per le cellule da un’eccessiva stimolazione che, come è noto, può risultare in severi danni.

Il lavoro contiene molti altri interessanti esperimenti su cui non mi dilungherò, ma invito chiunque sia appassionato di biologia molecolare a spendere un po’ di tempo e leggere questo articolo, sicuramente lo troverete molto interessante!

Tags: Biologia molecolare, Memoria, Mente, NMDA
7 gennaio 2008 - 3:20 pm

Non solo canale

Uno dei motivi per cui leggo spesso le riviste con altissimo impact factor è la speranza di trovare un articolo davvero rivoluzionario che possa chiarire un determiato meccanismo oppure possa aprire la strada verso nuove prospettive, oltre che per aggiornarmi sulle recenti scoperte. Purtroppo devo dire che le riviste scientifiche più importanti alla fine non pubblicano sempre cose drasticamente innovative o chiarificatrici, anzi a volte le riviste un po’ più modeste contengono articoli con informazioni molto più convincenti e serie rispetto a Nature, Cell, Neuron etc.

In una di queste letture, mi è capitato di leggere qualcosa su Cell che, a mio avviso, è veramente incredibile, oltre che curioso. L’articolo in questione tratta di un canale del calcio voltaggio dipendente (Cav1.2) che ha anche un secondo ruolo funzionale del tutto diverso ed imprevedibile da quello che ci si aspetterebbe da un semplice canale.

Prima di entrare nel merito bisognerebbe introdurre il concetto di canale voltaggio dipendente oramai acquisito da tanti anni nel campo delle neuroscienze ma che per i non addetti ai lavori potrebbe sembrare fuorviante.

Diciamo che almeno qualche migliaio dei circa 30.000 geni umani codificano per proteine di membrana che possono formare dei canali idrofilici attraverso cui, in particolari condizioni, possono passare degli ioni. Il motivo per cui esistono tante proteine non è dovuto alla presenza tanti tipi di ioni da far passare, ma dalla fine regolazione a cui questi canali devono rispondere. La quasi totalità di questi canali ionici sono sempre chiusi, ma possono aprirsi in determinate condizioni secondo una cinetica caratteristica che è dipendente dai componenti da cui è formato.

Alcuni canali possono aprirsi solamente in seguito al legame di un neurotrasmettitore sulla regione esterna, o interna, del complesso proteico (Recettori canale), come avvine per il recettore nicotinico che fa entrare sodio all’interno della cellula in seguito al legame dell’acetilcolina con la parte esterna del recettore; la cinetica di apertura/chiusura o l’affinità con l’agonista recettoriale dipende dai componenti del canale stesso. Ovviamente l’ingresso di sodio che ne scaturisce provoca a sua volta l’attivazione di una serie di altri meccanismi a cascata come le tessere del domino che portano all’attivazione di altri effettori. Altri canali possono invece aprirsi in seguito al cambiamento delle condizioni cellulari, variazione di pH (es ASICs), di concentrazioni ioniche (es Connessine) oppure del potenziale di membrana (es canali voltaggio dipendenti).

Ogni tipo cellulare possiede il proprio corredo di recettori canale, canali voltaggio dipendenti, canali passivi e trasportatori; l’insieme di tali complessi proteici con caratteristiche finemente diverse tra loro determina delle differenze macroscopiche e microscopiche nella reattività cellulare, forma del potenziale d’azione, velocità di risposta ad uno stimolo, eccitabilità di membrana, potenziale di membrana a riposo, picco di depolarizzazione e tantissime altre variabili che fanno di un neurone un sottotipo cellulare unico. Non entro nel dettaglio di quanti canali del calcio voltaggio dipendenti esistono, dico solo che sono identificate in varie classi con la sigla Cav seguita da un numero che identifica la classe seguito da un punto e  poi un altro numero che identifica il sottotipo. Tutti questi canali regolano direttamente o indirettamente tante funzioni neuronali, come la memoria, il dolore, l’eccitabilità, la fertilità e la sensibilità a determinati danni patologici. Tuttavia è noto anche che questi canali ionici possono avere anche una funzione nella regolazione della trascrizione genica, poiché molti fattori trascrizionali sono regolati dalle concentrazioni di determinati ioni come ad esempio il calcio. Questa è stata sempre una teoria debole, poiché indubbiamente ci sono dei casi in cui l’effetto sulla trascrizione genica può essere drasticamente diverso se si trasfettano in cellule dei canali composti da subunità diverse. Insomma se è l’ingresso di ioni calcio a determinare l’attivazione di alcuni fattori trascrizionali allora l’effetto dovrebbe essere uguale per qualsiasi canale che fa entrare calcio, soprattutto se 4 subunità su 5 sono identiche e le caratteristiche cinetiche di ingresso e uscita del calcio sono praticamente le stesse.

Tuttavia questo non avviene sempre, come ho già accennato, l’effetto può essere drasticamente diverso, tale che alcuni canali ionici possono determinare il differenziamento neuronale in alcune cellule, mentre altri canali possono determinare l’espressione di proteine del metabolismo o neurotrasmettitori in maniera non chiara.

Una spiegazione che, secondo me, ha aperto la strada e gli occhi a molti ricercatori scientifici risiede nell’articolo di cui parlavo all’inizio di questa disquisizione, pubblicato su un numero di Cell dell’anno scorso dalla dott.sa Gomez-Ospina dell’università di Stenford. Il canale del calcio voltaggio dipendente (Cav1.2) possiede nel dominio C-terminale una sequenza peptidica che, se tagliata, è di fatto un fattore trascrizionale a tutti gli effetti e modula un cospicuo gruppo di geni endogeni importanti per la neurotrasmissione e per l’eccitabilità neuronale.

Il fattore trascrizionale in questione è stato definito Fattore Trascrizionale Associato al Canale del Calcio (CCAT) e si origina mediante la proteolisi di Cav1.2. Appena liberato, questo fattore trascrizionale si localizza nel nucleo dei soli neuroni grazie a meccanismi non ancora ben chiari e lì lega proteine nucleari e sequenze specifiche di DNA attivando la trascrizione dei geni target.

La cosa curiosa è che CCAT a sua volta è regolato dalle concentrazioni di calcio e dalla presenza di altri fattori trascrizionali che variano durante lo sviluppo, quindi il suo funzionamento è regolato da diverse variabili. L’effetto finale che ha il canale Cav1.2 quindi non è semplicemente variare la concentrazione di calcio ma regolare direttamente la trascrizione di geni target.

Bhé in definitiva questo articolo ci racconta come a volte le teorie che vengono formulate e che leggiamo di continuo non siano altro che un velo oltre il quale si nascondono dei meccanismi, come in questo caso, inimmaginabili e forse anche al limite della credibilità secondo le attuali conoscenze molecolari.

Forse non tutti i meccanismi sono di questo tipo e così semplici da spiegare, ma possiamo essere certi che c’è ancora tanto da scoprire dietro le nostre attuali teorie.

Tags: Biologia molecolare, Canali voltaggio dipendenti, fattori trascrizionali, Neuroscienze, Potenziali d'azione
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21 dicembre 2007 - 11:59 pm

Il camaleonte

Nel 1983 il genio Woody Allen porta sul grande schermo una storia strana che diventerà un cult. Trattasi del film comico Zelig che ha poi ispirato il famoso omonimo spettacolo italiano dei comici del venerdì sera.

Per chi non avesse mai visto o sentito parlare di questo film, si può definire come un “documentario” comico sulla vita di uno strano individuo, di nome Leonard Zelig (interpretato da Woody Allen), che privo di una propria memoria cerca inconsapevolmente di acquisire l’identità di chi gli sta intorno. Una storia ambientata nel 1920, quindi in bianco e nero, che racconta tra l’altro anche una piccola storia d’amore tra il protagonista e la dottoressa che lo tiene in cura (interpretata da Mia Farrow). La scrittura di questa storia si basò sulla pura fantasia di Woody Allen, ma oggi a distanza di tanti anni  si scontra all’improvviso con la realtà di uno strano caso clinico neurologico.

Nella psichiatria, infatti, esistono numerosi casi “strani”, e non sto parlando del classico tipo che si identifica in Napoleone, Cleopatra oppure uno delle migliaia di personaggi più o meno noti; questi casi, infatti, presentano una identificazione univica di un personaggio rifiutando la propria identità personale per un tempo prolungato. Nell’ambito della patologia psichiatrica c’è anche un’altra classificazione che va sotto il nome di dipendenza ambientale, anche detta sindrome d’uso o comportamento di utilizzazione, in cui i pazienti imitano i gesti dei loro interlocutori o tendono ad usare tutti gli oggetti che hanno davanti.

Sulla rivista inglese Neurocase, tre noti psichiatri napoletani (Giovannina Conchiglia, Gennaro Della Rocca e Dario Grossi) hanno descritto un caso, che hanno avuto recentemente tra le loro mani, unico nel suo genere. Il loro paziente è malato di un disturbo comportamentale che è stato definito Zelig-like syndrome. Quello che distingue questo paziente dai casi precedentemente riportati è la sua totale e onnipervasiva immersione in un contesto con un adattamento eccessivo a ruoli, e non a semplici stimoli, proposti di volta in volta dall’ambiente che lo circonda. Il tutto si manifesta con la perdita della capacità di mantenere costante la propria identità.

Il paziente in questione è un ex-professionista napoletano di 65 anni (con cui mi riferirò con il nome di fantasia Leonard) che in seguito ad un arresto cardiaco, che gli ha provocato un’ipossia cerebrale con danni al lobo fronto-temporale, ha dei disturbi comportamentali che lo fanno assomigliare molto al personaggio ideato da Woody Allen.

Ovviamente si tratta di un caso senza precedenti ed unico nel suo genere; Leonard riesce inconsapevolmente a trasformarsi nel suo interlocutore diventando medico quando interagisce con un medico, esperto di cocktail quando si trova di fronte ad un barman ed esperto di culinaria quando è in contatto con dei cuochi. Ovviamente non si tratta di un semplice caso di pazzia come si potrebbe dedurre da queste semplici frasi, l’immersione di Leonard nel contesto in cui di volta in volta si trova è pressoché totale. Gli psicologi hanno eseguito una serie di test dai risultati sorprendenti. Quando era barman, a chi gli chiedeva come si preparasse un determinato cocktail, ha risposto di essere ancora in prova: «Sono qui da due settimane, spero di avere il posto fisso». In cucina era un cuoco provetto: «Sono uno chef specializzato in menu per diabetici», ha spiegato senza un’ombra di esitazione, assolutamente immedesimato nella sua nuova identità. L’unico ruolo in cui non si è calato è stato, chissà perché, quello di addetto alla lavanderia della casa di cura. Ma per il resto, Leonard ha “rubato” il mestiere a tutte le persone che aveva davanti.

Una sorta di trasformismo psicologico coatto, di camaleontismo involontario che lo rende di volta in volta un perfetto giocatore di baseball in mezzo ai campioni di baseball, un trombettista nero in una banda di jazz, un pellerossa tra i pellerossa, un ebreo tra gli ebrei, uno psicanalista fra gli psicanalisti e cardiologo fra i cardiologi. In ogni occasione Leonard cerca anche di usare un linguaggio appropriato al ruolo che riveste. La dott.ssa Conchiglia ha descritto le domande “trabocchetto” a cui ha sottoposto il paziente, per esempio al cardiologo che gli ha chiesto a quale patologia corrispondesse una determinata anomalia del battito cardiaco, Leonard ha replicato in modo generico ed evasivo ma quanto più appropriato possibile, del tipo “La domanda è troppo complessa, dipende da paziente a paziente”. Da perfetto Zelig, Leonard usa inconsciamente una formidabile arma di difesa contro il suo involontario trasformismo: cancella totalmente dalla memoria il ruolo che ha appena sostenuto quando si immedesima in uno nuovo. Quando è un medico non è mai stato un barman o un libero professionista, nè sa dire nulla di quando sosteneva di saper cucinare alla perfezione.

La dott.ssa Conchiglia ci tiene a precisare anche che, durante i numerosi e repentini cambi di identità, l’uomo-camaleonte, non perde mai il suo carattere e la sua personalità; quel che maggiormente colpisce, piuttosto, è la capacità di adattarsi ai contesti sociali più diversi in cui viene a trovarsi. C’è da dire anche che il paziente non ha mai una completa amnesia, Leonard riconosce e ricorda quasi sempre la moglie ed i figli che non lo perdono di vista per un solo istante.

Probabilmente non guarirà mai, anche se le terapie in day hospital a cui è sottoposto hanno consentito un lieve miglioramento delle sue condizioni. Anche se le crisi sono meno frequenti, l’uomo-camaleonte non è certo in grado condurre un’esistenza normale, e di conseguenza anche la sua autonomia è limitata.

Questo caso napoletano ha avuto un certo eco nel mondo delle neuroscienze e non solo, recentemente nella serie americana Dr. House, portata anche in Italia su canale 5, uno degli autori ha preso ispirazione da questo caso per una delle nuove puntate (titolo inglese “Mirror mirror”) che arriverà prossimamente anche in Italia nella quarta serie. Il burbero medico diagnostico si troverà infatti di fronte ad un paziente con una sindrome clinica simile a quella recentemente identificata (la Giovannini’s syndrome). Lascio a voi vedere come andrà a finire.

Tags: Casi clinici, Memoria, Mente, Neuroscienze, Psicologia
18 dicembre 2007 - 6:44 pm

Incontro con la memoria

Uno dei più grandi segreti nel campo delle neuroscienze è sicuramente il meccanismo della memoria.

Per un molti aspetti scientifici che riguardano la fisiologia o la fisiopatologia di cellule ed organi potremmo dire con orgoglio che negli ultimi anni si sono fatti dei progressi da giganti, anche se è lungo il cammino della strada che ci porterà verso la risoluzione di molte malattie come l’Alzheimer ed il Parkinson. Per intenderci, sono noti tanti possibili target farmacologici di queste neuropatologie, tuttavia la ricerca effettiva della “terapia” è ancora ai primi stadi. Nel campo della memoria invece aleggia un mistero irrisolto, ovvero quello che si sa è che non si è nemmeno prossimi a saperne qualcosa di più.

Le domande sono semplici: “In cosa consiste la memoria dell’uomo? Dove si conserva? È un senso fisico, elettrico oppure è un eco di un meccanismo che è continuamente in funzione?”. Quando si troverà una risposta vera ad una di queste domande potremmo definirci vicini ad una svolta epocale nel campo della psiche e più in generale nel campo delle neuroscienze.

Ovvio che se avessimo a disposizione tutti i farmaci che bloccano o attivano ogni singolo prodotto genico avremmo un tool strabiliante per capire il funzionamento del sistema nervoso centrale (SNC), la psiche e di conseguenza anche la memoria e le patologie ad essa correlate, ma questa è solo utopia. Un approccio più realistico come supporto per lo studio di questo strano meccanismo è la generazione di un topo transgenico per ciascuna proteina del genoma, specie di quelle coinvolte nel SNC, con il fine di studiarne gli effetti direttamente in vivo su tutti i processi fisiologici e patologici. Non si tratta di utopia, questo progetto è già in atto in tanti laboratori specializzati nel mondo; ovvio che ci vorrà del tempo come è stato per il sequenziamento del genoma umano.

E’ da dire che l’intervento dei topi transgenici nel campo delle neuroscienze ha portato ad enormi sviluppi nell’ambito dei meccanismi molecolari e soprattutto di tecniche sempre più complesse e specifiche che consentono persino di eliminare proteine importantissime per l’embriogenesi del topo in modo relativamente semplice ed efficace. Grazie a queste tecniche si è arrivati a capire che l’ippocampo è un’interfaccia per fissare ed interpretare i ricordi, anche se non è la sede dell’immagazzinamento.

A tal proposito ricordo che da bambino fui affascinato non poco da questo “mistero” della memoria, ma di seguito questo ricordo fu seppellito da anni di studi in altre cose fino a tornare di nuovo in auge in una gita a Pompei fuori dall’ordinario. Proprio questo ha risvegliato in me tanti ricordi, dubbi, perplessità e domande, tanto che vorrei dedicare il mio primo blog al  racconto di due personaggi scientifici agli antipodi del globo e della personalità che stanno studiando alcuni di questi meccanismi della memoria.

Il primo personaggio vive in Korea, si chiama Hee-Sup Shin ed ultimamente ho avuto l’onore di conoscerlo personalmente in una gita di piacere a Pompei. Shin è professore in Scienze della Vita nell’università della repubblica Koreana, negli anni si è specializzato nella produzione di topi transgenici per il SNC ed in particolare si occupa soprattutto dei canali e trasportatori del calcio. Il nostro incontro è avvenuto in seguito ad un seminario che ha tenuto qui a Napoli e tra una chiacchierata e l’altra mi sono offerto di accompagnarlo in una gita a Pompei per fargli conoscere il nostro territorio e la nostra storia. Non ci è voluto molto per capire che Shin è sicuramente quello che si può definire una persona di poche parole, con aria spesso distratta e seria, vestito sempre elegante con un’economia di movimenti che ricorda gli antichi maestri di arti marziali, il contatto con lui infatti mi ha intimorito non poco.  In una giornata ci sono state migliaia di cose raccontante ma un argomento è stato principe, riassumibile due frasi esemplari… “Prof. Shin, sono stato sempre affascinato dai misteri della memoria, ma non ci ho mai capito molto. Lei invece ci lavora da tempo ed ha fatto diverse pubblicazioni su questo argomento, che idea se  n’è fatta? Di cosa si tratta e come funziona?”.

La sua risposta intelligente e telegrafica è stata “La memoria è quel meccanismo che ti consente di capire che non ho risposto alla tua domanda”. Ero troppo imbarazzato per insistere ma ho colto subito l’occasione per discutere di una sua scoperta che mi ha fatto pensare molto. L’articolo in questione è stato pubblicato addirittura su Neuron, una tra le più importanti riviste nel campo delle neuroscienze e che fa parte del gruppo di Cell.

Shin ha generato un topo transgenico che manca di una proteina che è espressa solo nel SNC, il fenotipo del topo transgenico è incredibile, il topo ha aumentato significativamente la capacità cognitiva e di memoria in alcuni semplici esperimenti. In effetti l’eliminazione di questo scambiatore sodio calcio 2 (NCX2) consentirebbe al topo una maggiore capacità di ricordare eventi ed esperienze e soprattutto di imparare da questi. Ho potuto vedere questi animali in azione rispetto ai propri fratelli wild-type congenici e l’effetto è praticamente visibile ad occhio nudo senza neanche mettere in mezzo la statistica. Un topo lasciato in acqua (Water maze) deve trovare una piattaforma di vetro a pelo d’acqua, praticamente impossibile da vedere. Con un minimo di accorgimento il topo può ricordare mediante dei simboli e le distanze dai bordi dove ha trovato la piattaforma nei giorni precedenti. Ebbene le performance dei topi normali migliorano di giorno in giorno anche se girano sempre un po’ nella piscina prima di trovare la piattaforma, ma se si guardano i topi KO imparano quasi subito come dirigersi direttamente verso la piattaforma e impiegano sempre meno secondi per trovarla, al confronto i loro fratelli WT sembrano stupidi.

La situazione non finisce qui, poiché dall’altra parte del mondo, in Canada, c’è stato uno studio praticamente identico ma con risultati completamente opposti. Il Prof Jonathan Lytton ha generato un topo transgenico fatto in maniera simile che manca di una proteina che scambia sodio e calcio con l’aggiunta del potassio (NCKX2). Le regioni di espressione di NCKX2 e le funzioni sono sovrapponibili alla proteina precedente NCX2. L’effetto? è drasticamente opposto. Il knock-out della proteina NCKX2 porta ad un peggioramento delle funzioni cognitive del topo rispetto ai suoi fratelli WT, anche se apparentemente sembrano indistinguibili. Come mai due proteine che fanno le stesse cose, con una topologia simile ed una espressione nelle stesse regioni cerebrali possono portare a dei risultati così discordanti?

Un fenomeno davvero paradossale che Shin taglia corto, “Non sappiamo ancora nulla di importante sulla memoria e sulle funzioni cognitive per capire quali siano i veri meccanismi che sottendono a questi processi, di certo non è il semplice accumulo di calcio o sodio nelle cellule che determina la memoria. La memoria è di certo un meccanismo molto più complesso”.

In effetti per la memoria si potrebbe parlare di circuiti elettrici completi di chips, resistenze ed interruttori. Ciascun neurone in sé non fa nulla, ma è l’intera rete che ha l’effetto, la modifica dell’espressione di una proteina potrebbe consentire dei sovraccarichi ionici in alcune cellule ed innescare dei corto circuiti in altre aree, bypass di emergenza per il ripristino ed il risultato può essere migliore o peggiore dello stato precedente. Ora noi guardiamo semplici sovraccarichi ionici a livello locale, ma si dovrebbe pensare sempre alle interconnessioni tra le varie aree del cervello che si stimolano e si disattivano a vicenda. Una semplice proteina può disturbare tale armonia e l’effetto che vediamo non è mai diretto, ma il risultato del ripristino di tale armonia.

“Prof. Shin, mi scusi ma allora che senso ha studiare i topi transgenici se poi l’interpretazione di tutti questi fenomeni è troppo complessa per capirla. Per intenderci, se Lei già sa che eliminando una proteina si causano centinaia di fenomeni per cui l’effetto finale non è determinato da una singola proteina ma dall’alterazione di centinaia di fenomeni a valle che sono difficili da prevedere e da comprendete, perché generare topi transgenici e non limitarsi ad analizzare le vie neuronali che sono alla base di tali fenomeni.”.

Shin mi guarda con un’aria sorridente e poi replica:

“Migliaia di persone hanno studiato per anni queste vie, descrivendole anche in maniera esaustiva, ma funzionalmente si può solo ipotizzare a cosa servano e cosa succederebbe se fossero alterate. Avere dei topi in cui queste vie sono già alterate può dare maggiori informazioni su quello che si è studiato e può dare dei riscontri in vivo importantissimi.­”.

“Prof. Shin, secondo Lei quanto manca alla comprensione della memoria?”.

“Il primo mattone è dietro l’angolo, basta svoltare al punto giusto per poter iniziare a capire, poi sarà questione di anni e non più di secoli come ora. Le persone come me stanno cercando quest’angolo.”


Tags: Animali transgenici, Memoria, Neuroscienze, Water maze
6 dicembre 2007 - 9:47 pm

Una questione di forma

Come si diceva nel post di presentazione di questo blog, la bioinformatica gioca un importante ruolo nelle neuroscienze. Ho deciso quindi di scrivere questo post per tutti i nostri amici bioinformatici (e non).
Lo spunto nasce da una lettera a Nature che stavo leggendo tempo fa: Unique features of action potential initiation in cortical neurons – Nature 2006.

Premetto che l’articolo è piuttosto complesso ed entra in dettagli che credo non interessino ai più, ma quello che voglio far vedere è come sia possibile usare (nel bene o nel male, starà a voi decidere…) la bioinformatica per investigare i processi biologici del nostro cervello.
Prima di addentrarci nel problema specifico credo sia necessario fare una piccola introduzione: i neuroni nel nostro cervello comunicano fra di loro utilizzando scariche elettriche controllate, chiamate potenziali d’azione generati dal passaggio di ioni attraverso la membrana del neurone. Centinaia, se non migliaia di studi hanno analizzato nei minimi dettagli come vengano generati i potenziali d’azione, quali canali siano coinvolti, quali siano le cinetiche di questi canali e via dicendo. E qui entra in gioco la bioinformatica: se siamo in grado di usare questi dati per costruire un modello informatico di un neurone, possiamo riprodurre virtualmente un potenziale d’azione ed ottenere informazioni sul rapporto fra, per esempio, la sua forma ed i canali ionici che lo generano.
Tutto inizia con gli studi di Allan Hodgkin ed Andrew Huxley, che nel 1952 generarono il primo modello matematico di propagazione del potenziale d’azione, studio che garantì loro il premio Nobel nel 1963. Il modello di Hodgkin ed Huxley è basato su dati raccolti negli assoni giganti del calamaro e consiste di una serie di equazioni differenziali che permettono di rappresentare la generazione di un potenziale d’azione in una cellula eccitabile.
Negli ultimi 50 anni, tuttavia, questo processo è stato studiato più approfonditamente e si è venuti a scoprire che non tutti i potenziali d’azione sono uguali. L’eterogenicità è principalmente dovuta ai diversi canali espressi da diversi tipi di neuroni: giusto per fare un esempio, sono state identificate più di 100 subunità per i canali al potassio! Ciascun neurone, poi, può esprimere vari tipi di canali per lo stesso ione, quindi il numero di parametri da contare in un modello matematico diventa presto molto alto (solo per i canali di membrana si raggiungono facilmente 15 o 20 termini).

Arriviamo quindi al punto dell’articolo: gli autori hanno registrato potenziali d’azione della corteccia cerebrale in vivo ed in vitro, li hanno poi comparati con quelli generati da un modello che sfrutta le equazioni di Hodgkin ed Huxley e hanno trovato varie differenze tra la situazione sperimentale e quella derivata dal modello. In particolare la forma della fase ascendente del potenziale d’azione è differente così come il valore dell’onset potential, cioè il potenziale a cui inizia la rapida depolarizzazione della membrana, che è molto più variabile nella situazione reale che non nel modello. Questi problemi non riescono ad essere risolti semplicemente cambiando i parametri del modello, a meno di non andare ad usare valori assolutamente non fisiologici.
Queste possono sembrare piccolezze, ma non è così: i neuroni, infatti, “leggono” diversi parametri dei potenziali d’azione. La forma del potenziale d’azione può incidere ad esempio sul rilascio di neurotrasmettitori alle sinapsi e, più in generale, la forma contribuisce a generare diversi firing patterns, ossia diversi “motivi” nella generazione dei potenziali d’azione, che possono essere generati ad esempio a diverse frequenze, in continuo o in gruppi più o meno lunghi (bursts), in modo regolare o irregolare. Tutte queste variabili permettono la comunicazione di diversi stimoli da parte della stessa cellula utilizzando un solo sistema.
Gli autori dello studio propongono quindi un modello rivisto che invece modella bene le caratteristiche mancanti nel modello Hodgkin-Huxley. Il problema è che questo nuovo modello implica che i canali al sodio voltaggio-dipendenti che sono alla base della trasmissione del potenziale d’azione si aprano in modo cooperativo (cioè, l’apertura di uno favorisce l’apertura di quelli attorno). Ovviamente, non c’è alcuna prova sperimentale del fatto che ciò avvenga in un vero neurone!

Insomma, alla fin della fiera questo studio mostra come si possano derivare modelli matematici partendo dai dati sperimentali, smontare gli stessi modelli con altri dati sperimentali, per costruire così un nuovo modello che genera nuove teorie (non provate). Il prossimo passo, immagino, dovrà essere quello di accettare o smentire questo nuovo modello con altri dati sperimentali, grazie a quel magnifico processo chiamato metodo scientifico.

Tags: Bioinformatica, Firing, Hodgkin & Huxley, Modeling, Neuroscienze, Potenziali d'azione
2 dicembre 2007 - 2:52 am

L’ho visto con i miei occhi!

Non c’é dubbio che gli occhi siano importanti per farci vedere ciò che ci circonda, tuttavia bisogna ricordare che un ruolo forse ancora più importante nel processo della visione è giocato dal cervello. Il cervello, infatti, ci permette di interpretare le informazioni derivanti dalla luce che colpisce la retina e di trasformarle nella nostra visione del mondo che ci circonda. Tuttavia, quello che il nostro cervello ci dice a volte non corrisponde alla realtà…

Per dimostrarvi questo vi voglio proporre un esperimento classico (credo sia stato fatto per la prima volta attorno al 1600… ma al tempo non c’erano i blog quindi magari qualcuno se l’è perso!). Si tratta di uno degli esperimenti che permettono di mostrare l’esistenza del punto cieco nella retina. Il punto cieco è un punto nella retina di ciascun occhio da cui si diparte il nervo ottico: questa parte della retina è priva di fotorecettori e quindi non può inviare informazioni sulla luce che la colpisce.
Nonostante le nostre retine abbiano questo “buco” noi non ce ne accorgiamo…. come mai? Parte di questo è dovuto al fatto che la nostra visione è binoculare, quindi ciascun occhio sopperisce alla mancanza di informazioni del punto cieco dell’altro, e parte è dovuto al fatto che il nostro cervello “interpola” quello che dovremmo vedere nel punto cieco.

Ma passiamo al nostro esperimento: chiudete l’occhio destro e guardate l’immagine qui sotto, tenendo lo sguardo fisso sul pallino. Nella periferia del vostro campo visivo dovreste essere ancora in grado di vedere la X. Ora muovetevi lentamente verso lo schermo (o allontanatevi… dipende a che distanza siete!) fino a che, ad un certo punto la X sparirà! Questa misteriosa sparizione è dovuta al fatto che l’immagine della X è a questo punto finita nel punto cieco della retina sinistra e quindi non la possiamo più vedere (a meno di non aprire l’occhio destro ovviamente).

Se però vi chiedessi cosa vedete al posto della X… mi rispondereste che vedete lo sfondo bianco! Ebbene sì, il nostro cervello si “inventa” lo sfondo per sopperire alla mancanza di informazioni in quel punto. Se lo sfondo dell’immagine fosse ad esempio verde, vedreste che al posto della X c’è del verde.

Ancora più interessante è il caso di quest’altra immagine.

In questo caso il nostro cervello, quando la X va a finire nel punto cieco, va a completare la linea… che pure non è mai stata completa! E la cosa funziona anche se i due tratti non sono allineati…

Molto interessante è il fatto che sembrano esserci differenze nell’interpretazione di questi fenomeni a seconda dell’orientamento della linea.

Un caso clinico in cui ritroviamo questa capacità di interpolazione del nostro cervello è quello degli scotomi, aree del campo visivo in cui c’è una perdita di visione dovute, ad esempio, a danno alla corteccia cerebrale. Questi furono inizialmente studiati negli anni ’20 da Sir Gordon Holmes su veterani della prima guerra mondiale che durante la guerra avevano subito piccole lesioni nella corteccia visiva (la parte posteriore della corteccia cerebrale). Questi individui presentavano delle aree di cecità nel loro campo visivo, che potevano essere riconosciute facendo loro chiudere un occhio e muovendo una luce in varie posizioni del campo visivo, mentre guardavano un punto fisso: insomma, una variante dell’esperimento visto qui sopra. La cosa straordinaria è che chi ha un piccolo scotoma spesso non se ne accorge se non in particolari situazioni, così come noi non ci accorgiamo del nostro scotoma nel punto cieco della retina. Il lavoro di Sir Gordon Holmes fu molto importante per determinare come la retina viene mappata sulla corteccia cerebrale. Tra le altre lo studio di questi fenomeni ha portato a scoprire che la parte centrale della retina, che raccoglie la luce del punto che stiamo fissando viene mappata su di un’area molto più grande della corteccia visiva rispetto alle parti periferiche della retina, in modo da avere una risoluzione molto maggiore e permetterci di notare i fini dettagli del punto che stiamo fissando.

Finisco con un aneddoto storico: si narra che il re Carlo II di Inghilterra usava “decapitare virtualmente” le persone a lui non gradite chiudendo un occhio e facendo andare la testa dello sfortunato nel punto cieco dell’altro! Una pratica un po’ macabra forse, ma accettabile se poi il poveretto non veniva decapitato davvero!

Tags: Neuroscienze, Percezione, Visione
20 novembre 2007 - 9:49 pm

Somewhere over the Brainbow…

Immaginate di voler capire come funziona un apparecchio elettronico:
lo aprite e ciò che vedete è un ammasso di cavi che vanno da ogni parte… una cosa che potreste fare per cominciare è disegnare una mappa dei fili, segnandovi da dove partono e dove arrivano. Certo, non sarebbe la soluzione finale al vostro problema, ma potrebbe essere un buon punto di partenza.

Studiando il cervello ci si trova spesso di fronte ad un problema simile, ma molto più complesso: un cervello umano contiene approssimativamente 100 miliardi di neuroni di molti diversi tipi e si stima che ciascuno di essi abbia collegamenti (sinapsi) in media con altri 7000 neuroni. Una delle sfide più grandi è quindi capire come questi neuroni siano collegati tra di loro, in modo da poter creare una mappa delle connessioni del cervello.

Un enorme passo avanti in questo senso è stato annunciato in un recente studio apparso sull’ultimo numero di Nature da parte di Jean Livet e colleghi al Dipartimento di Biologia Molecolare e Cellulare dell’Università di Harvard (e con uno studio del genere non c’è da sorprendersi che abbiano avuto l’immagine di copertina…).
Neuroni di un topo BrainbowL’articolo riporta la generazione di varie linee di topi transgenici chiamati “Brainbow”, nome derivato dall’unione di brain (=cervello) e rainbow (=arcobaleno). I neuroni dei topi Brainbow, infatti, emettono fluorescenza in 100-150 colori differenti! Ciò è possibile grazie all’espressione nei neuroni di questi topi di diverse proteine fluorescenti: GFP (verde), YFP (gialla), CFP (azzurro), OFP (arancio) e RFP (rossa). Queste proteine vengono fatte esprimere in modo casuale ed a diversi livelli nei diversi neuroni per generare i diversi colori.
Topi ed altri animali le cui cellule esprimono proteine fluorescenti non sono certo una novità, negli ultimi 10-15 anni si è visto un aumento esponenziale del loro numero. La novità di questo studio è il fatto di avere un così grande numero di colori diversi che permette di seguire facilmente il percorso di un neurone, capire da dove parte e dove arriva e con quali altri neuroni viene a contatto. Sarà infatti probabile che neuroni vicini tra di loro abbiano diverso colore, rendendo così più “semplice” la mappatura delle varie connessioni.

L’articolo mostra anche esempi pratici d’uso di Brainbow come la ricostruzione in 3D di alcuni network cellulari nel cervelletto ed uno studio dell’interazione neuroni-glia.

Per chi fosse interessato all’aspetto più tecnico: il trucco sta nell’utilizzo di un transgene contenente le diverse XFP messe in sequenza in modo tale che solo la prima proteina possa essere tradotta. Le varie XFP sono messe all’interno di siti lox incompatibili tra loro (loxP, lox2272 e loxN) e mutualmente esclusivi; questo in pratica vuol dire che se Cre excide il DNA all’interno di una coppia di questi siti, gli altri non sono più funzionali. Il taglio può avvenire con la stessa probabilità a ciascun sito, portando così all’espressione di una diversa XFP in neuroni diversi. Aggiungete il fatto che diverse copie del transgene possono essere inserite in tandem (una delle linee riportate nell’articolo ha 8 copie del transgene) ed eccovi tutta la variabilità di espressione necessaria per ottenere 100 o più colori diversi!

Una domanda mi sorge però spontanea: supponendo di arrivare ad avere una mappa completa delle connessioni cerebrali, non credete ci troveremo poi in una situazione di stallo su come analizzare la inimmaginabilmente immensa quantità di dati che deriverebbe da questo studio? E come memorizzare questa enorme quantità di dati in un modo accessibile e funzionale?

Ad ogni modo, per ora la cosa migliore da fare è godersi un paio delle fantastiche immagini dei neuroni Brainbow!

E per chi volesse, ecco il link all’articolo (è necessaria una subscription a Nature per vedere il full-text):
Transgenic strategies for combinatorial expression of fluorescent proteins in the nervous system – Nature, 2007

Neuroni di un topo Brainbow

Tags: Animali transgenici, Biologia molecolare, Imaging, Neuroscienze
19 novembre 2007 - 1:58 am

Benvenuti!

» di in: Neuroscienze

Salve a tutti e benvenuti in questo nuovo blog del network Inside Blog di MolecularLab: Inside Neuroscience.

Cominciamo subito con le presentazioni: siamo Nicola e Pasquale, due dottorandi che cercheranno di introdurvi nel fantastico universo delle neuroscienze, pieno di complessi meccanismi ed affascinanti misteri! Se non avete mai sentito parlare o sapete molto poco su questo argomento, don’t worry! Ci sarà tutto il tempo per capire, discutere e scambiarci un po’ di opinioni su argomenti più o meno curiosi, intriganti o semplicemente informativi riguardo la ricerca nel campo delle neuroscienze.

Neuroni del cervelletto - CajalPer chi non sa di cosa si occupi il campo delle neuroscienze, bisogna dire che è quel campo della ricerca che studia il sistema nervoso in tutte le sue mille sfaccettature: dalla comprensione della percezione delle immagini che vediamo, alle sensazioni di amore, gioia, fame o dolore fino alla generazioni di pensieri, emozioni, sogni e memorie. Il campo è talmente vasto che si occupa persino di cose che generalmente non associamo al nostro cervello, come la regolazione della pressione sanguigna, della temperatura corporea e della secrezione di ormoni. La lista potrebbe andare avanti per molte pagine e potete scommettere che ci sia sempre qualche neuroscientist da qualche parte nel mondo sta studiando qualcosa di assolutamente insolito! Inoltre, per tutti i nostri amici appassionati di bioinformatica che si volessero avvicinare alle neuroscienze, ci sarà anche da parlare delle molte applicazioni che l’informatica ha in questo campo; un esempio fra i tanti è la creazione di reti neurali “virtuali” che tentano di riprodurre, con più o meno successo a seconda dei casi, il funzionamento dei complessi circuiti del sistema nervoso.

Uno degli aspetti più appassionanti delle neuroscienze è il fatto che, nonostante si conosca molto bene tutta la geografia del nostro cervello e dei tanti fili che lo collegano al resto dell’organismo, ancora oggi non si riesce davvero ad avere un quadro completo di tutti i complessi meccanismi che sono al suo interno… come succede anche in molte altre aree della scienza, infatti, anche nelle neuroscienze più risposte si danno e più nuove domande e dubbi vengono fuori…

Insomma, per farla breve, ci sarà tanto di cui parlare e speriamo vi appassionerete a leggere Inside Neuroscience!

Nicola & Pasquale

Tags: Inside Blog, MolecularLab, Neuroscienze