28 aprile 2011 - 5:09 pm
Preambolo
Rieccoci per continuare di nuovo il nostro viaggio nell’affascinante mondo delle neuroscienze. Nei post precedenti abbiamo introdotto alcuni concetti del coma con delle considerazioni basilari (1, 2), questa volta, invece, ci focalizzeremo sul “risveglio” e dei possibili trattamenti.
Però, prima di ri-entrare nel merito dell’argomento, sono necessarie alcune considerazioni ovvie. Questo non è un blog medico come neanche l’autore di questo testo, quindi non c’è alcuna intenzione di fuorviare dalle terapie affidate da medici competenti, né tantomeno di procurare delle informazioni pericolose per automedicazioni improvvisate. Ogni riferimento di questo testo dovrebbe essere preso per quello che è, ovvero un ampliamento delle conoscenze di base, un pretesto per destare curiosità nell’ambito specifico, e dare un minimo di erudizione.
Cenni di anatomia
Di fatti, ‘svegliare’ qualcuno dal coma significa liberare o accendere il proprio ‘io’, ma se andate a cercare su un libro di anatomia, fisiologia, o neuroscienze dove si trovi effettivamente il nostro ‘io’ resterete delusi, per ora è ancora un mistero. La biologia della coscienza è uno dei processi mentali più complessi, e di conseguenza è anche il meno compreso. La nostra personalità ed il nostro stato di attenzione è deciso da un insieme di neuroni localizzati nel profondo del nostro cervello ed è difficile determinare come questi interagiscano per dare vita ad una unica personalità.
Grossolanamente, dividiamo il nostro encefalo in tre parti: il cervello, il cervelletto ed iltronco encefalico.
- Il cervello rappresenta l’85% del peso totale dell’encefalo ed è la parte più complicata del nostro organismo; controlla l’intelligenza, la ragione, la memoria, le emozioni, la visione ed i sentimenti, etc. Sicuramente detiene almeno una parte cospicua della nostra coscienza.
- Il cervelletto è la parte più piccola dell’encefalo. Risiede alla base della nuca e gioca un ruolo essenziale nella coordinazione, la postura ed il bilanciamento dell’organismo.
- Il tronco encefalico è la parte del nostro encefalo che connette il cervello con il midollo spinale ed è responsabile per il controllo di molte funzioni basilari come il respiro, pressione sanguigna, lo stato di veglia e l’attenzione.
Curiosamente, anche se non sappiamo esattamente dove sia il nostro ‘io’ all’interno del cervello, sappiamo che una parte del tronco encefalico è il suo ‘interruttore’. Numerose evidenze, infatti, hanno dimostrato che se vogliamo ‘accendere’ o ‘liberare’ il nostro ‘io’ dobbiamo interferire con una particolare regione del tronco encefalico, ovvero il romboecefalo. Le neuroconnessioni tra questa piccola regione del midollo allungato e la corteccia determinano lo stato di veglia, il sonno o lo stato comatoso.
Tuttavia queste informazioni sembrano quasi inutili se paragonate alla complessità del coma stesso.
Perché occuparsi del coma?
Tutti i vari stati di incoscienza sono sintomi di disfunzioni neurologiche severe. Infatti, é buona norma preoccuparsi seriamente ed indagare a fondo se osserviamo una persona che perde conoscenza improvvisamente e senza un alcun motivo apparente. Si potrebbe trattare di narcolessia, epilessia, stati di shock emotivi o patologie meno gravi del coma, ma in ogni caso possono comunque avere degli effetti indiretti drammatici durante la guida, il lavoro o semplicemente mentre si attraversa la strada.
Tra queste patologie sicuramente il coma é tra le più invalidanti sebbene possa essere una condizione transitoria.
Tra le più diffuse patologie che possono causare il coma in modo silente sono da ricordare il diabete mellito, la pressione sanguigna alta, i problemi renali, i disturbi al fegato oppure gli attacchi epilettici. Inoltre, sono da considerare anche l’abuso di alcool, traumi cerebrali, overdose da stupefacenti ed addirittura la carenza di zuccheri.
I sintomi premonitori
Esistono dei sintomi premonitori per il coma, ma purtroppo hanno delle caratteristiche molto diverse, ad esempio il coma può iniziare immediatamente senza alcun sintomo evidente, o si può sviluppare lentamente nel tempo con caratteristiche varie. Generalmente la progressione dello stato di incoscienza e come velocemente si sviluppa sono già dei possibili indizi su cosa l’abbia causato.
Altre variabili che si tengono in conto sono il ritmo del respiro, le funzioni cardiovascolari, le caratteristiche della pelle, problemi evidenti agli arti, i riflessi oculari ed altre cose di questo genere. A volte, specifiche anormalità possono essere utili per identificare il problema cerebrale scatenante. Purtroppo però, nella maggioranza dei casi non si hanno informazioni conclusive, per cui sono necessarie delle indagini strumentali molto approfondite.
Come si può curare?
Sicuramente il trattamento del coma dipende da caso a caso, tuttavia se la causa è sconosciuta, i medici possono dare al paziente un cosiddetto “cocktail per il coma” che può essere utile in alcuni casi di emergenza. Questa terapia preliminare non è fatta di altro che da un insieme di vitamine, zuccheri ed alcuni farmaci; ovviamente non é una terapia efficace e tanto meno universale. Può essere utile per risolvere alcuni casi meno gravi degli stadi comatosi. Le vitamine aiutano i pazienti con problemi nutrizionali o di abuso di alcool, così come gli zuccheri che aiutano i pazienti con un calo di glucosio. La funzione delle altre sostanze presenti nel cocktail é quella di revertire l’azione dei narcotici più diffusi. Ovviamente in una seconda fase d’emergenza, bisogna indagare più a fondo per capire quale sia la causa del coma e trattarlo nel modo più opportuno possibile.
Il caso più intuibile é il coma indotto da un trauma cerebrale. Il rigonfiamento per edema che ne consegue incrementa la pressione intracranica e rallenta il flusso sanguigno in alcune aree con conseguente perdita della coscienza. Una variazione sul tema è un danneggiamento del cervello che causa lo spostamento di alcune aree cerebrali esercitando una pressione sui tessuti circostanti, comprimendo i vasi sanguigni locali. Questo evento particolare, chiamato ‘erniazione cerebrale’, può portare al coma ed in seguito alla morte se non trattato immediatamente.
Ovviamente il risveglio da questo tipo di coma potrebbe facilmente verificarsi spontaneamente in seguito all’abbassarsi della pressione intracranica che si può ottenere per riassorbimento spontaneo, terapia osmotica o chirurgica. La probabilità di recupero dipende ovviamente, dalle zone cerebrali interessante, dalla gravità del danno e dalla prontezza ad iniziare la terapia giusta. In genere questi casi traumatici possono facilmente portare a morte il paziente o ad un rapido recupero, tuttavia, ci possono essere delle rare eccezioni, come nel caso del sig. Donald Herbert, un pompiere andato in coma dopo essere rimasto sepolto sotto un crollo, che dopo 10 anni si risveglia spontaneamente e ritorna in piena attività. Probabilmente è stato il trauma cerebrale a causare il coma, ma é ancora un mistero cosa lo abbia effettivamente risvegliato dopo tutto questo tempo.
Purtroppo sono pochissime le storie con questo lieto fine. Ne é un esempio la sig.ra Christa Smith, andata in coma in seguito ad un attacco cardiaco per poi ‘migliorare’ lentamente fino ad entrare in stato vegetativo. La speranza che questa donna di 50 anni possa migliorare ancora è tanta, perché si è svegliata più volte dallo stato vegetativo ed altrettante volte è ritornata in stato di incoscienza. I parenti stanno ancora con le dita incrociate ed attendono, giorno dopo giorno con il fiato sospeso, qualche novità dall’ospedale.
Coma da intossicazione o infezione
Per il coma da intossicazione, invece, si possono avere dei sintomi che si sviluppano lentamente, da una leggera confusione con sintomi di sonnolenza, e/o ci possono anche essere dei repentini cambi di personalità fino al vero e proprio coma. Purtroppo, ancora oggi non si é chiaro cosa determini precisamente lo stato di coma e quindi non é noto neanche quale sia la procedura migliore per il ‘risveglio’.
Consideriamo tali pazienti come intrappolati nella propria mente, magari da un corto circuito neuronale o da una mancata neurotrasmissione. La cosa interessante é che in molti casi di ‘risvegli’ sono stati somministrati dei farmaci che interferiscono proprio con le neurotrasmissioni centrali. É stato il caso di Amy Pickard che entrò in coma per una overdose di eroina e che poi é stata risvegliata per puro caso dopo la somministrazione di un farmaco ipnotico che altera transitoriamente le neurotrasmissioni del SNC. Il suo coma è durato circa 6 anni e sarebbe potuto durare anche di più se questo farmaco non avesse causato un’interferenza tale da interrompe o alterare il corto circuito neuronale che provocava il coma.
Forse anche per questo motivo in passato si é provato a dare dei cocktail di farmaci per il sistema nervoso centrale con la speranza di riuscire ad alterare lo stato comatoso e causare un risveglio. Purtroppo questi risultati, insieme allo shock elettrico, non hanno mai fornito dei risultati incoraggianti. Quello di Amy é stato un rarissimo caso positivo su un milione di tentativi. Forse é stata usata casualmente la dose o il momento giusto per la somministrazione, oppure il farmaco corretto per quel tipo di ‘blocco’ cerebrale. Più probabilmete era una combinazione di tutti questi fattori ed il particolare stato comatoso della paziente. Di certo non si é mai verificato un altro risveglio dal coma con lo stesso farmaco.
Casi eclatanti
Altri casi eclatanti sono stati Jesse Ramirez e Terry Willis che erano stati dati per spacciati dai medici poiché si trovavano stabilmente in coma da molti anni. In entrambi i casi si pensò di staccare il sondino gastrico per la nutrizione e da lì a pochi giorni Jesse Ramirez uscì dall’ospedale camminando da solo in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, mentre Terry Willis è stato ‘meno fortunato’ poiché si è ‘semplicemente’ svegliato dopo 20 anni di coma, e per uscire dall’ospedale ha dovuto usare una sedia a rotelle.
Purtroppo devo sottolineare ancora una volta che i casi citati si possono contare con le dita delle mani. Nella quasi totalità dei casi non c’é la pagina finale del libro, e talvolta non si considerano le sofferenze fisiche dei pazienti in coma per decenni e le sofferenze psicologiche dei parenti. La frase ‘…e vissero tutti felici e contenti’ é sostituita da una lunga via crucis di piaghe, trattamenti, attese snervanti, ed in definitiva da una intrinseca sofferenza che si stenta a descrivere. Forse potremmo impropriamente racchiudere tutto questo nella frase simbolica ‘…a volte penso che sarebbe meglio se…’.
A tal proposito spesso si dimenticano anche altri tipi di storie, come il caso di Sarah Scantlin che in seguito ad un terribile incidente resta in uno stato vegetativo da incubo. Era in grado solo di battere le palpebre, e secondo le analisi il suo cervello era severamente danneggiato da non poter capire quello che succedeva intorno. Ebbene questa donna si ‘risveglia’ dopo 20 anni di coma/stato vegetativo e comincia a parlare, ricorda tantissimi fatti accaduti mentre era in stato di ‘incoscienza’ descrivendo anche la sua terribile sofferenza. Ovviamente non ha recuperato tutte le sue facoltà mentali, poiché i danni cerebrali erano troppo vasti, tuttavia è ancora in grado di ragionare, parlare, muoversi e sta lentamente riprendendosi la sua vita ‘interrotta’ 20 anni prima.
Sono i casi come questi che fanno ri-pensare seriamente al significato di ‘stato di incoscienza’ del coma o dello stato vegetativo e ricordano ancora una volta che il cervello non é del tutto ‘spento’ e perso durante il coma. Questo può dare speranza ad alcuni ed in altri può dare un certo grado di inquietudine per la condizione umana dell’ammalato.
Conclusione
Sicuramente il cervello è un organo estremamente complesso ed ogni suo ‘malfunzionamento’ può essere solo notato; é rarissima la possibilità di comprendere tali fenomeni, ancor di meno correggerli. Spesso ci troviamo come davanti ad un complesso ‘sistema televisivo’ che in qualche caso dà segnali di malfunzionamento. A volte basta un pugno nel punto giusto o una sequenza di tasti per poter riportare il sistema in funzione, tuttavia nella maggioranza dei casi il ‘guasto’ richiede delle risoluzioni più raffinate che ancora oggi non riusciamo a trovare.
Alla prossima
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15 luglio 2010 - 3:35 pm
Preambolo
Nel post precedente ci siamo occupati delle condizioni vitali che rendono discutibile il prelievo di organi da persone ancora in vita. In quei casi si può parlare di eutanasia o di omicidio a seconda del punto di vista. Oggi vedremo, invece, quando questo prelievo é possibile e soprattutto scopriremo che anche questo è un interessante argomento di neuroscienze.
Quando è possibile il prelievo di un organo?
Senza tanti giri di parole, il prelievo é intuibilmente possibile quando il paziente é morto; tuttavia dopo il collasso cardio-respiratorio la maggior parte degli organi si deteriorano in maniera irreversibile e non possono essere riutilizzati. Si rende necessario, quindi, una particolare condizione di morte che conserva almeno parzialmente la vitalità degli organi; una condizione che é relativamente rara.
Per capire bene di cosa parliamo dobbiamo definire grossolanamente quando un paziente può essere definito ‘morto’.
Tutti sanno, almeno per via intuitiva, che un organo o una persona si possono considerare morti quando non è più possibile ripristinarne la normale attività e c’è un progressivo disfacimento delle strutture biologiche, ma in quale momento si muore effettivamente?
Secondo la più antica tradizione pagana e cattolica, un individuo muore quando cessa di battere il cuore (morte clinica), ma oggi sappiamo che uno shock elettrico può farlo ripartire, anche un trapianto o un sistema di pompe può ridare una vita relativamente normale ad una persona con un cuore morto. Secondo i mussulmani è il respiro ad essere la fonte della vita, la morte sopraggiungerebbe con l’ultima esalazione; ma anche in questo caso esistono delle persone in terapia intensiva che possono respirare grazie a delle macchine di ventilazione forzata.
In conclusione tutti questi casi comprendono solo delle formalità non sostanziali per identificare la morte. Possiamo, infatti, ripetere questa analisi organo per organo e non trovare un metodo certo che identifichi l’effettivo passaggio dalla vita alla morte. Lo stesso Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, aggiornò la definizione di morte per la chiesa con la separazione dell’anima dal corpo; un momento condivisibile ma difficilmente identificabile.
Negli anni, il nostro mondo burocratico ha classificato la morte secondo tre diversi criteri:
- morte clinica
- morte effettiva
- morte legale
La morte clinica
La classificazione più nota é la cosiddetta morte clinica, ovvero uno stadio clinico precario dove il cuore non batte spontaneamente, a cui può seguire una vera morte se non si riesce ad intervenire efficacemente. In effetti si tratta solo di una definizione ingannevole il cui uso ed abuso dalla letteratura ha dato origine a miti e leggende di tutti i tipi per storie che colpiscono l’immaginario umano. Una persona ‘clinicamente morta’ è solo una persona che non manifesta dei chiari sintomi di vita come il battito cardiaco, la respirazione spontanea e la risposta a stimoli esterni. Tuttavia è noto che questo stadio non coincide con la vera morte poiché può essere indotto e revertito totalmente entro certi limiti temporali.
Paragonare la morte clinica alla vera morte sarebbe come considerare morta una persona che non riesce a respirare. É ovvio che una persona in queste condizioni é ancora viva e, se si riesce a risolvere il problema in tempo, continua ad essere tale senza dover ‘resuscitare’. D’altra parte se il blocco respiratorio si prolunga troppo sopraggiunge un punto di non ritorno che possiamo considerare la morte effettiva.
La morte effettiva
La morte effettiva è il vero passaggio dalla vita alla morte ed è difficilmente identificabile con un unico istante. L’organismo, infatti, può morire tessuto per tessuto o organo per organo in tempi diversi, come anche il disfacimento delle strutture stesse. E’ noto che un paziente morto anche da diverse ore può donare le cornee, poiché le cellule da cui sono composte sopravvivono bene in assenza di ossigenazione, mentre diverso è il caso dei reni, poiché se non sono sufficientemente ossigenati e conservati, collassano entro pochi minuti.
L’argomento è ricco di riflessioni filosofiche, biologiche e pratiche, tuttavia rimane solo un concetto difficilmente identificabile.
La morte legale
Se da un lato è difficile identificare quando avviene il passaggio dalla vita alla morte effettiva, perché gli organi del nostro corpo muoiono in tempi diversi, credo sia anche intuitivo che l’unico organo effettivamente importante per la nostra identità, la nostra memoria e la nostra coscienza sia il cervello. Morto un cuore, lo si può sostituire, così come anche i polmoni, i reni etc etc senza alterare la personalità dell’individuo; è evidente invece che quando muore il nostro cervello l’identità è irrimediabilmente persa. In queste condizioni, tutti i misteri, i ricordi e quello che può essere contenuto in ognuno di noi si disperde in una diffusa necrosi cerebrale, anche se il resto dell’organismo continua a vivere per un po’. Sottolineo che non si tratta solo di pura filosofia sull’identità della persona perché il cervello sovraintende anche una serie di funzioni fisiologiche come il controllo termico, pressorio, ormonale, metabolico, di crescita, di risposta immune etc etc. Senza la ‘sala comandi’ l’organismo per quanto curato in maniera intensiva morirà di lì a breve, poco a poco.
Per queste ragioni si definisce un individuo morto dal punto di vista legale, quando muore il suo cervello, anche se il suo corpo continua a vivere. A differenza della morte effettiva che è solo una definizione concettuale difficilmente identificabile, la morte legale, invece, è un concetto chiaro ed obiettivo. Le informazioni e le tecniche di indagine sulla morte cerebrale appartengono ad un importante campo neuroscientifico fatto di un intenso lavoro.
Le parole che ingannano
Una volta chiarita per sommi capi la definizione di morte, può essere più chiara la definizione di coma irreversibile che si presenta con la morte cerebrale a cui segue la morte dell’organismo per le ragioni sopra descritte. In effetti il coma irreversibile è sommariamente sovrapponibile alla morte legale, le minime differenze possono essere tralasciate in questo post divulgativo.
Bisogna sottolineare che purtroppo il termine ‘coma irreversibile’ é alquanto ingannevole per i non addetti ai lavori, poiché contiene la parola coma che ricorda qualcuno ancora in vita, e la parola irreversibile che potrebbe indurre a pensare ad un coma molto lungo (vedi coma persistente).
A mettere benzina sul fuoco sono le centinaia, se non migliaia, di casi ‘miracolosi’ in cui il paziente é improvvisamente uscito da un lunghissimo coma di decine di anni. Le storie sono poi condite dalla mancanza di speranze dei medici seguita dallo stupore, preghiere, sogni premonitori ed ovviamente la mancanza di spiegazioni scientifiche. Quanta ignoranza in questa confusione. Nessuno sottolinea abbastanza, e ancor di meno, nessuno ricorda mai che tutti questi pazienti menzionati erano in coma persistente, già citato nel post precedente, ed il risveglio o l’evoluzione allo stato vegetativo sono il suo normale sviluppo.
Ovviamente il passaggio da un coma persistente ad un risveglio è un caso molto raro, per cui i medici non danno mai troppe illusioni ai parenti dei pazienti in questo stato. Quando questo succede c’è lo stupore di vedere un caso su un milione e la mancanza di spiegazione scientifica per il risveglio è data dalla mancanza di informazione su cosa tiene in coma una persona e cosa la può svegliare; nulla di miracoloso.
In definitiva mentre un coma persistente è una persona in stato di incoscienza a cui basterebbe un qualcosa, per ora ignoto, per tornare a rivivere una vita ‘normale’, il coma irreversibile é di fatto una tipologia morte. Basti pensare che per quanto intensamente curato, un coma irreversibile, non può mai arrivare ad anni di simil-vita, nella maggioranza dei casi l’organismo muore nel giro di ore, o giorni. Inutile rimarcare che nessun paziente si é mai svegliato da un coma irreversibile.
Il compito del medico è quello di identificare il coma e distinguerlo dal coma irreversibile (o morte legale) e comportarsi di conseguenza. Nel primo caso si assiste il paziente per quelle che sono le attuali conoscenze mediche, nel secondo caso si attiva la procedura della donazione degli organi.
Conclusione
In questo breve post abbiamo introdotto alcuni concetti di morte e li abbiamo distinti dal coma. Abbiamo anche visto che tutte le forme di coma, insieme alla morte clinica, non sono compatibili con la donazione degli organi poiché il donatore è ancora vivo. L’unica condizione che rende possibile la donazione degli organi è rappresentato dalla morte legale, o coma irreversibile, di un paziente che conserva ancora la vitalità degli organi. Questo è ovviamente un campo neuroscientifico di notevole interesse sotto molti aspetti (bioetico, medico, legale, scientifico, filosofico, etc)
Nel prossimo post, se vi farà piacere di leggerlo, vedremo a che punto è la ricerca neuroscientifica in questo campo e soprattutto cosa ci si aspetta dal futuro.
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28 giugno 2010 - 7:28 pm
Preambolo
Un po’ di tempo fa mi é capitato di discutere con una persona dell’etica medica riguardo la donazione degli organi dei pazienti in coma. In particolare c’erano forti dubbi sul perché alcuni medici stacchino subito la spina per l’espianto degli organi, mentre in altri casi attendano anni. In seguito a questa discussione mi sono accorto ben presto che la maggioranza delle persone non ha una chiara idea di cosa sia effettivamente un coma e quando sia possibile espiantare gli organi. Non entro nel merito delle ragioni, ma credo che per avere una qualsiasi legittima opinione bisogna quantomeno essere certi di conoscere bene l’argomento. Tralasciando i pareri personali che sono propri ed inoppugnabili, ecco quanto segue in termini più o meno tecnici e divulgativi. A voi farvene una opinione.
Definizioni
Come avrete sicuramente intuito, oggi parleremo di un argomento piuttosto difficile, portato alla più ampia diffusione da un evento di cronaca. La parola d’ordine di questo post sarà ‘coma‘, dal greco κῶμα (koma, sonno profondo), che si definisce semplicemente come un profondo stato di incoscienza simile al sonno che però non è suscettibile di risveglio. Da questa parola deriva poi lo stato comatoso che si definisce come un’apparente condizione simil-dormiente in cui l’individuo non è in grado di rispondere agli stimoli esterni.
Le definizioni sono alquanto generiche perché comprendono vari stadi di gravità (profondità del coma) e dobbiamo definire ulteriori limiti per capire meglio.
Cosa NON è il Coma
Ci sono 5 casi che rispondono apparentemente allo stato comatoso ma non sono tali:
- Il sonno non è coma poiché lo stato di incoscienza è solo parziale e facilmente reversibile con un rumore, con il tatto o con un’abitudine.
- La morte che appare come la suddetta definizione, ma é una situazione evidentemente diversa.
- La sindrome locked-in, in cui i muscoli volontari dell’individuo sono completamente paralizzati, e non c’é possibilità di interagire con l’ambiente. Il paziente è pienamente cosciente di sé, sveglio e vigile, ma letteralmente immobile.
- Lo stato vegetativo, dove il paziente appare sveglio, ma non risponde agli stimoli esterni. Le funzioni di base come la respirazione, il ciclo biologico di sonno veglia restano intatte. Raramente possono anche afferrare degli oggetti in maniera istintiva.
- Lo stato stuporoso, un effetto transiente simile allo stato vegetativo, dovuto generalmente ad uno shock. Può essere facilmente interrotto o revertito mediante stimoli che attivino meccanismi istintivi ed irrazionali (es. pizzicotto).
Cosa è il Coma
Una volta definito cosa non è il coma, ora passiamo a capire meglio quale condizione possa essere definita tale.
Nel coma abbiamo una scissione della coscienza dal mondo esterno in maniera simile ad un’anestesia generale. Il meccanismo esatto che spegne i canali di comunicazione tra alcune zone del cervello, e che causa lo stato comatoso, è tutt’ora ignoto; si sa solo che è implicato il danneggiamento o l’inibizione della regione reticolare del romboencefalo. Questa zona del cervello, tra le altre cose, partecipa al ciclo sonno-veglia ed indirettamente partecipa allo ‘spegnimento’ della coscienza durante il sonno. Forse é per questo meccanismo condiviso che nel coma il cervello può percepire incoscientemente il mondo esterno in maniera simile a quanto avviene durante il sonno. Tuttavia, la differenza più significativa tra un paziente che dorme ed uno in coma è che quest’ultimo potrebbe subire un’operazione chirurgica senza rendersene conto e soprattutto senza svegliarsi.
C’é coma e coma
Non tutti i coma sono identici così come non sono simili le cause scatenanti. La metodica più elementare per valutare la ‘profondità’ del coma è la Scala di Glasgow (GCS) che si basa sulla risposta agli stimoli oculari, verbali e motori. Ad ognuno di questi viene assegnato un punteggio la cui somma costituisce l’indice GCS. L’indice può andare da 3 (coma profondo) a 15 (paziente sveglio e cosciente).
Un paziente in coma può ripetutamente svegliarsi, guardare intorno, afferrare qualcosa, magari farfugliare qualche parola e persino muoversi, senza però potersi definire fuori dal coma. C’é da dire, però, che tutti questi sintomi non sono innescati da eventi esterni come ad esempio un rumore, la vista di un oggetto etc, e neppure da un apparente ciclo spontaneo. Ogni condizione fisiologica guidata dall’encefalo é soggetto a stimoli apparentemente casuali ed imprevedibili, persino la respirazione in queste persone è soggetto a discontinuità. E’ da sottolineare che l’individuo è vivo, ha una coscienza, la sua memoria e tutto quanto sia parte della sua personalità resta intatta; c’è solo un problema nel ‘svegliarlo’ o comunque collegare la sua coscienza con gli stimoli esterni.
Cosa succede ‘dopo’?
Una volta inquadrata la patologia per schemi intuitivi ed in maniera molto generale ora vediamo cosa può portare al coma e cosa avviene dopo.
Tra le cause più comuni che possono portare al coma ci sono le intossicazioni (stupefacenti, alcool, tossine etc), le alterazioni del metabolismo (ipoglicemia, iperglicemia, chetoacidosi) o danni e malattie del sistema nervoso centrale (ictus, traumi cranici, ipossia, edema etc). L’induzione in coma, specie se traumatico, può portare direttamente alla morte nella fase acuta, oppure può seguire due vie più o meno lunghe:
- recupero della coscienza con un ritorno parziale o totale alla normale vita quotidiana
- evolvere nello stato vegetativo.
Tranne per il coma post-traumatico e quello indotto farmacologicamente, lo stato comatoso raramente persiste per più di 4 settimane, e per lo più il ripristino delle normali facoltà mentali è spontaneo. Se ne deduce che il risveglio è molto probabile nelle prime 4 settimane, anche se il recupero può non essere totale. Quando il coma supera abbondantemente le 4 settimane si definisce ‘coma persistente’ poiché è noto che le probabilità di risveglio spontaneo diventano molto scarse, anche se non impossibili. La maggioranza delle persone ‘miracolosamente’ uscite dal coma, infatti, appartengono a questo gruppo.
Ad ogni modo dobbiamo sottolineare che un paziente in coma NON è morto e quindi non è possibile effettuare alcun espianto di organi. Il risveglio, seppur estremamente improbabile, è ancora possibile come anche il ritorno ad una vita ‘normale’.
Lo stato vegetativo
Purtroppo l’alternativa più frequente al ritorno ad una vita normale dal coma è l’evoluzione allo stato vegetativo. Questa complessa situazione, già definita prima in maniera intuitiva, é facilmente distinguibile dal coma stesso. Nello stato vegetativo, infatti, le funzioni biologiche tornano ad una ‘apparentemente normalità’, l’individuo mostra uno spontaneo ciclo di sonno veglia, può osservare degli oggetti intorno, ed in alcuni casi può camminare, piangere, ridere ed altro. Raramente ci possono essere delle condizioni esterne che possono alterare queste funzioni biologiche.
Alcuni definiscono questi pazienti come dei gusci vuoti senza volontà e senza sentimenti. In alcuni casi questo corrisponde ad una obiettiva realtà, come ad esempio nelle persone che hanno subito un grave danneggiamento cerebrale delle funzioni superiori. Tuttavia ciò non é vero per tutti gli altri pazienti.
Anche in questo caso il ritorno miracoloso ad una vita ‘normale’ dopo lo stato vegetativo è relativamente raro ma non impossibile. Chi è affascinato dalla ricerca e dalla filmografia potrebbe vedere il film “Risvegli” con Robin Williams e Robert De Niro, basato su fatti realmente accaduti, che esplicano bene il risveglio di un gruppo di persone da uno stato vegetativo a cui erano state tolte tutte le speranze da tantissimi anni. Purtroppo ancora oggi non abbiamo ancora trovato un metodo efficace ed universale per sbloccare il corto circuito cerebrale che avviene in questi pazienti, ma c’é sempre la speranza di ritrovare un metodo in futuro.
C’é da dire che l’espianto di organi equivale ad uccidere il paziente o ad una eutanasia, secondo il vostro punto di vista, per cui il medico é impossibilitato a ‘staccare la spina’ per espiantare gli organi.
Conclusioni
In questo breve post introduttivo abbiamo definito il coma per via intuitiva ed esaminato alcune condizioni tratte dall’esperienza senza entrare nel merito dell’etica. Abbiamo visto anche che l’espianto di organi di questi pazienti è alquanto discutibile poiché non sono ancora morti e in opportune condizioni potrebbero essere recuperati.
Nel prossimo post, invece, vedremo quali sono le condizioni che la medicina considera opportune per l’espianto degli organi.
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31 maggio 2010 - 10:29 am
Gli 007 del Sistema Nervoso Centrale
Preambolo
Eccoci di nuovo con il seguito del nostro giallo misterioso, ed iniziamo subito con un breve riassunto.
Siamo nei panni di un improbabile investigatore molecolare che deve scoprire chi ha causato la morte dei neuroni in seguito ad ictus. Nelle prime puntate abbiamo appreso la complessità dell’evento ischemico, ciò che ne consegue, e la volontà preprogrammata di qualcuno di assassinare i neuroni. Nella puntata precedente, invece, abbiamo introdotto le cellule microgliali che rappresentano delle guardie giurate dedicate alla protezione del cervello. Oggi vedremo come queste cellule siano più simili a degli agenti segreti.
L’interrogatorio
Per istituire un processo contro qualcuno é necessario avere delle prove convincenti; i sospetti da soli non bastano.
Ecco i fatti:
- Il cervello si trova in una condizione isolata, prima, durante e dopo il neuroomicidio;
- C’è sicuramente un colpevole e deve necessariamente essere contenuto all’interno del cervello;
- In questa ‘stanza’ troviamo permanentemente i neuroni (le principali vittime), la glia (vittime collaterali), e la microglia (guardie giurate);
- La microglia, il terzo incomodo, sopravvive al danno e si allontana dai neuroni poco prima che muoiano;
- La microglia in opportune condizioni riesce ad uccidere le cellule patogene ed anche i neuroni in agonia;
- La microglia non ha ancora un alibi per l’evento ischemico.
Continuiamo quindi l’interrogatorio nei confronti della microglia.
“…in altre parole i neuroni sono morti poco dopo la sua visita?”
“Sì, ma ero già lontano quando questo è successo”
“Può spiegarci perché Lei si è allontanato dal danno neuronale salvandosi la pelle, invece che combattere fino all’ultimo respiro? Dopotutto questo è il Suo ruolo, Lei è una guardia giurata e non può allontanarsi quando le cose vanno male”
“In realtà c’era ben poco da fare quando sono arrivato sul luogo del delitto, i neuroni stavano già morendo, non ho potuto far nulla ed era inutile sacrificarsi. Noi cellule microgliali non abbiamo alcuna possibilità di rinforzo da parte di progenitori esterni alla BEE, quindi sacrificarsi durante l’ischemia avrebbe comportato una perdita di cellule con una conseguente perdita di protezione per gli altri neuroni ancora vivi.”
“…uhmm… se ho capito bene, Lei è arrivato in ritardo, non ha fatto nulla e si è allontanato quando le cose si sono messe male. Perchè?”
“Sono preparato per affrontare cellule patogene, infezioni, infiammazioni ed eventi simili. L’evoluzione non mi ha selezionato per affrontare l’assenza di ossigeno e nutrienti.”
“…e cosa ha fatto in quei brevi momenti in cui Lei era a contatto con tanti neuroni poco prima che morissero?”
“Ho liberato dei fattori trofici per sostenere i neuroni e la glia. Generalmente i neuroni sono meno sensibili alla morte quando ricevono degli ormoni. Il mio ruolo era quello di incoraggiarli a vivere fino a quando fosse possibile”
Sembra non esserci nulla di serio, ma il dubbio rimane; ad esempio come mai una cellula tanto efficiente nel riconoscere i danni neuronali si è accorta del danno in corso così tanto in ritardo e non abbia potuto far nulla? La morte neuronale sembra avvenire poco dopo la scomparsa della microglia, può essere tutto questo un caso?
La ricostruzione del delitto
Prima di trarre conclusioni affrettate andiamo in laboratorio con la nostra ricostruzione della scena del crimine. Induciamo una ischemia cerebrale a dei ratti ed analizziamo nel tempo cosa fa la microglia nel SNC. Anche se non è facile seguire le cellule microgliali che girano nel cervello quando l’animale è vivo, è possibile ricostruire la scena mettendo insieme una serie di animali analizzati a tempi diversi dopo l’evento ischemico.
Qui la prima sorpresa. Nel SNC tutte le cellule neuronali e astrocitarie sono pressoché fisse, magari con una mobilità molto limitata e lenta, mentre le cellule microgliali si muovono ad una velocità impressionante. Quello che colpisce molto è la capacità di attraversare reti di assoni, di dendrociti, cellule neuronali ed astrocitarie senza causare danno e senza avere punti di appiglio.
La seconda sorpresa è ancora più scioccante, la forma, le dimensioni e le caratteristiche di queste cellule è enormemente vasta, difficile riconoscerle anche per un occhio esperto. Si possono definire almeno 7 fenotipi principali di microglia: ameboide, ramificata, attiva e non fagocitica, attiva e fagocitica, cellule del composto granulare, perivascolare e juxatavascolare.
Neanche uno 007 potrebbe possedere altrettante identità. Per seguirle, quindi, possiamo usare dei markers, generici come Iba-1 o RCA-1 per riconoscere un po’ tutte le identità microgliali, oppure selettivi come ED1 per riconoscere solo le cellule microgliali attivate. Vi renderete subito conto della complessità di tale analisi, poiché nessun marker fino ad ora scoperto è effettivamente in grado di riconoscere tutte le identità microgliali in maniera specifica e selettiva. Insomma queste cellule sono qualcosa di sfuggente come potrebbe essere un agente segreto.
Ad aggiungere ulteriori sospetti c’è il fatto che le cellule microgliali si avvicinano ai neuroni con una certa identità e se ne allontanano con un’altra. Se poi pensiamo di fare una perquisizione e cercare cosa trasportano le cellule microgliali nelle vescicole potremmo ritrovare una serie infinita di endosomi, lisosomi, autosomi, e vescicole che contengono sostanze altamente tossiche, materiali infiammabili insieme a sostanze neurotrofiche etc etc. Di certo non è quello che si ritroverebbe in una borsa di un medico o infermiere.
Il Processo: L’accusa
L’accusa inizia l’arringa con delle frasi taglienti e tendenziose. Secondo la sua ricostruzione le cellule microgliali, avvezze all’eutanasia, si sono dirette verso la zona sofferente dall’ipossia. I dati pubblici ci hanno depistato sull’effettivo orario di arrivo sul luogo del delitto, in realtà, recenti scoperte ci indicano che le cellule microgliali si trovavano già in loco prima del tempo dichiarato. Non è stato possibile vederle poiché sono arrivate con un travestimento non noto fino a poco tempo fa. Poi una volta arrivate sul luogo prefissato hanno iniziato a contornare alcuni neuroni in sofferenza. La microglia, adese ai neuroni ha liberato delle sostanze in uno spazio estremamente piccolo, troppo scarse per essere analizzate e troppo rapide per essere viste. In questo istante forse c’é stato un ‘errore’, ed al posto di sostanze neurotrofiche la microglia ha lasciato delle sostanze tossiche. Magari ha valutato che i neuroni non ce l’avrebbero fatta a passare indenni l’ipossia e li ha avvelenati in maniera irreversibile per eutanasia. Poi mentre i neuroni avvelenati stavano resistendo all’ipossia, il colpo di grazia, la microglia si é allontanata aggravando la situazione per il mancato sostentamento trofico. Ciò che ne é conseguito é la morte dei neuroni in circostanze apparentemente solitarie. Poi sono arrivate le cellule microgliali travestite da spazzine ed hanno pulito il luogo del delitto.
L’accusa continua rimarcando più volte il passato della microglia, come una cellula già avvezza al neuroomicidio (precedenti penali), inoltre ha mentito sull’orario di arrivo (depistaggi), si trovava vicino ai neuroni durante i fatti (opportunità), aveva dentro di sé l’arma del delitto (capacità), poteva girovagare indisturbato per il cervello con una discreta velocità (possibilità), si è allontanata con un travestimento prima che i neuroni si riprendessero causandone la morte (mancato soccorso). Ed in fine, l’arringa termina con una frase lapidaria: come nei più classici e proverbiali gialli, l’assassino è ritornato sul luogo del delitto ed ha rimosso le prove per fagocitosi (occultamento delle prove).
Non si tratta di un evento accidentale, ma di un pluriomicidio aggravato e premeditato di neuroni ed astrociti da parte di ‘servizi segreti deviati’ appartenenti al SNC.
La parola alla difesa
La difesa risponde punto per punto con calma e freddezza.
Le multi identità sono parte del lavoro fisiologico della microglia. Queste cellule, infatti, in mancanza di collaboratrici, (es macrofagi, cellule presentanti l’antigene, cellule B etc,) devono necessariamente fare tutto da sole adattandosi di volta in volta alle nuove necessità. Sull’orario non c’é stata alcuna dichiarazione falsa, ogni cellula della microglia esprime o meno degli antigeni in funzione del lavoro che sta facendo, se non esistono ancora metodi per marcarli tutte ciò non indica alcuna colpevolezza.
Sulla questione delle sostanze tossiche e letali, é ovvio che una guardia giurata abbia sempre con sé la pistola ed il caricatore sempre pronti, tuttavia può anche avere con sé i materiali di primo soccorso. Fino ad ora non ci sono prove che la microglia abbia liberato sostanze tossiche verso i neuroni in quei momenti.
Anzi, l’imputato si è dimostrato utile per rimuovere le sostanze potenzialmente tossiche, ovvero quei residui post-ischemici che aumentano l’infiammazione e la sofferenza neuronale. Inoltre la microglia ha creato anche un ambiente idoneo per la formazione di nuove sinapsi per la ripresa post-danno.
La difesa poi ricorda che i topi transgenici che non hanno la microglia non sopravvivono all’embriogenesi, per cui stiamo trattando di cellule essenziali per la vita stessa. Poi cita gli innumerevoli casi in cui la microglia ha svolto ruoli eroici in difesa dei nostri delicati neuroni. Tutto questo non può essere cancellato da qualche sospetto e soprattutto da condizioni alle quali la microglia stessa non era preparata.
Se questo fosse un giallo…
Se questo fosse un giallo non potrebbe mancare il classico colpo di scena. Questa volta arriva proprio da Mario Capecchi che scopre, in una sua recente pubblicazione su cell, che l’inattivazione della microglia provoca un fenotipo ossessivo-convulsivo. Quello che sorprende é che l’iniezione nel midollo osseo di cellule microgliali marcate e fluorescenti provoca la comparsa di cellule microgliali nel cervello. Ancora una volta la microglia ha mentito, e a quanto pare ha un passaggio segreto per oltrepassare la BEE, anche se oggi non é stato ancora possibile scoprire come. A quanto pare la microglia ha molti aspetti ancora oscuri, forse anche delle identità e dei passaporti che non conosciamo ancora.
Inoltre come può l’iniezione midollare di una microglia inattiva causare un fenotipo psichiatrico? Siamo di fronte ad un personaggio davvero interessante.
Il giudizio
Mettere insieme tutti questi dati sparsi non é semplice. Nella ricerca, infatti, é difficile soprattutto distinguere la verità obiettiva dalle interpretazioni, ed in questo lungo processo sono state fatte solo delle allusioni, niente di più. L’articolo di Capecchi parla di una interferenza sui recettori nocicettivi periferici da parte della microglia. Un topo con difficoltà nella percezione del dolore ha dei comportamenti anomali, ma non c’é niente di significativamente neurologico.
La corte, quindi propone una nuova perizia. Verifichiamo cosa avviene in un topo transgenico capace di inattivare la funzione microgliale in maniera condizionata.
Il risultato é sconcertante, l’inattivazione condizionale della microglia, poco prima e durante l’ictus, provoca un notevole peggioramento del danno ischemico ed una sopravvivenza neuronale ridotta. Ovviamente ci sono state anche le critiche su quale gene é stato scelto per disattivare la microglia. Forse é stato scelto quel gene che sovraintende le funzioni microgliali ‘buone’. Si vedrà.
Tratta la somma, l’imputato é assolto per insufficienza di prove.
Conclusioni
Purtroppo, siamo ancora lontani dalla verità. Le indagini sulla microglia sono tutt’altro che concluse, si tratta di un campo in rapida espansione ed é sotto indagine per tantissime patologie come l’HIV, la sclerosi multipla, l’Alzheimer e tante altre patologie neurodegenerative.
Per ora il processo sull’ischemia é fermo per insufficienza di prove, ma qualcuno nel mondo sta ancora tentando di incastrare la microglia, chissà se ci sarà nuovamente qualche altro colpo di scena che la riporterà nuovamente sotto processo.
La ricerca, come al solito, non ha mai fine.
Alla prossima
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23 maggio 2010 - 4:52 pm
Preambolo
Dovete sapere che si può essere famosi nelle scienze per due motivi principali: per meriti di lunghe ricerche medico scientifiche (Alzheimer, Parkinson, Cushing, etc) oppure essere sfortunatamente il primo paziente descritto di una nuova patologia. Raramente però si può essere noti anche per una terza motivazione, come ad esempio per una similitudine tra i sintomi della patologia ed il carattere di un personaggio particolare (es Priapismo). Oggi vedremo, invece, un motivo anomalo che non corrisponde perfettamente ai suddetti casi.
La Sindrome di Fregoli
Le coordinate di oggi sono determinate dalla parola “Fregoli”. Ovviamente non si tratta di una parola che compare nel dizionario italiano, essa deriva infatti da Leopoldo Fregoli, il trasformista italiano per antonomasia, famoso soprattutto nella prima metà del 1900 per cambiare abito e carattere in pochi secondi. In Italia fu coniato anche il termine ‘fregolismo politico’ per indicare una ben nota attitudine di alcuni dirigenti italiani.
Fin qui tutto ok, il termine ‘fregolismo’ può essere debitamente accettato dalla similitudine, ma recentemente questo nome é stato impropriamente attribuito anche ad una stranissima sindrome di cui parleremo oggi: la Sindrome di Fregoli per l’appunto.
La Sindrome di Fregoli é una patologia psichiatrica di difficile interpretazione. Essa si manifesta principalmente per schizofrenia, ma anche in seguito a neurodegenerazione oppure a danni a carico del SNC. Spesso può susseguire anche ad un evento ischemico in maniera transitoria. Il nome della patologia, tuttavia, non richiama un vero e proprio camaleontismo come nel caso della Sindrome di Zelig, anzi a trasformarsi sono proprio gli altri. Il paziente con la Sindrome di Fregoli manifesta un’ottima capacità di riconoscere le persone a lui familiari, o semplicemente vicine; tuttavia il riconoscimento é seguito da una profonda delusione di essere stato tratto in inganno da un sosia o un individuo travestito. In altre parole, il paziente vede, nei suoi conoscenti, degli ‘impostori’ sostituiti impunemente ad essi. Si tratta di una patologia con vari gradi di gravità e colpisce più frequentemente le donne. Nei casi peggiori si può avere anche una vera e propria mania di persecuzione perché si avverte, in tutte le persone intorno, sempre lo stesso individuo che di volta in volta si traveste da portiere, da passante, da medico, negoziante fino ai colleghi di ufficio etc etc. Comprenderete bene ora l’infelice attribuzione del nome alla sindrome.
Psichiatrico o neurologico?
Ovviamente non si tratta di un gioco poiché la patologia é altamente invalidante. C’é anche un discreto costo sociale per il mantenimento e la cura di una persona con tali sintomi. Sì certo, ma come curare un paziente con una tale sindrome? Questi pazienti oggi sono contesi tra psichiatri e neurologi perché non si é ancora certi di cosa siano affetti esattamente. Gli studi hanno mostrato che il paziente con la Sindrome di Fregoli conserva la piena capacità di riconoscere il viso delle persone e di attribuirgli una identità certa; la sua memoria visiva non é per nulla intaccata come anche la capacità di riconoscere le persone e dare a questi un nome. Gli psichiatri, forti di questi dati, sostengono che nei pazienti non c’è nulla di errato a livello neurologico, e quindi il trattamento deve essere di tipo psicologico. Ben presto la Sindrome di Fregoli é stata rinominata in “delusione di Capgras“ in riferimento al primo psichiatra che classificò questa sindrome ed in base all’atteggiamento dei pazienti quando incontrano i propri familiari.
I neurologi, invece, sostengono sempre di più che non si possa considerare questa sindrome come una patologia a se stante, ma piuttosto di un sintomo neurologico che può indicare altro (es Alzheimer, ictus etc). D’altro canto, la Sindrome di Fregoli compare proprio in seguito a neurodegenerazione e non può essere un caso.
Recenti studi su pazienti affetti dalla Sindrome di Fregoli hanno mostrato che alcuni di questi, in seguito al progredire della neurodegenerazione, hanno sviluppato anche prosopagnosia, ovvero l’incapacità totale di riconoscere le facce mentre conservano ancora la capacità di riconoscere gli oggetti inanimati. Secondo i neurologi questo dovrebbe escludere l’effetto psicologico e chiudere definitivamente il caso, tuttavia non è ancora chiaro come possa insorgere tale sintomo e soprattutto cosa possa ripristinare il normale stato mentale.
Le mosche bianche della ricerca
La Sindrome di Fregoli, o delusione di Capgras, rappresenta una vera rarità medica e pochissimi ricercatori conoscono tale patologia, tantomeno ne studiano i dettagli neurologici. Tuttavia esistono sempre delle mosche bianche che come formiche apportano, ogni tanto, un piccolo e prezioso contributo alla conoscenza. Proprio recentemente due ricercatori hanno ipotizzato che il motivo di questo alone di mistero sulle cause della Sindrome di Fregoli è derivato dal cercare nel punto sbagliato del cervello. Questa sindrome, infatti, potrebbe essere la controparte della prosopagnosia dove manca la capacità di riconoscere le persone mentre i sentimenti restano invariati. Secondo questi studi la Sindrome di Fregoli, invece, potrebbe essere causata dall’incapacità di suscitare emozioni da visi familiari, mentre la capacità di riconoscerli resta invariata. La delusione di Capgras, quindi, potrebbe essere derivata da una neurodegenerazione che può colpire prima una determinata area cerebrale coinvolta nelle emozioni e poi proseguire in un’altra area causando la prosopagnosia. Una teoria molto valida poiché le aree in questione sono molto vicine ed entrambe coinvolte nei fenomeni neurodegenerativi dell’Alzheimer per esempio.
Proprio su queste ipotesi una serie di ricercatori indipendenti sono saliti sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti ed hanno confermato, con l’uso della risonanza magnetica nucleare funzionale, che i pazienti con la Sindrome di Fregoli presentato delle anomalie neurologiche nell’area limbica. In altre parole hanno dei problemi proprio nelle regioni coinvolte nelle emozioni suscitate quando si vede un viso noto rispetto ai soggetti ‘sani’.
Conclusione
In questo post abbiamo visto una strana sindrome che oggi occupa ancora un posto nelle MIS, ovvero le sindromi da errata identificazione. Molto probabilmente questa classificazione protrebbe cambiare nei prossimi anni, se i prossimi risultati confermeranno che la causa di questa sindrome risiede nell’area dedicata alle emozioni suscitate dal vedere dei visi noti.
Restano ancora da capire alcuni dettagli, poiché questi ultimi studi sono stati fatti solo su pazienti schizofrenici, ed è difficile correlare tali risultati con soggetti che sono colpiti da neurodegenerazione o peggio da soggetti apparentemente ‘sani’.
Insomma c’é ancora spazio per altre ‘mosche bianche’ della ricerca.
Alla prossima
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28 aprile 2010 - 2:08 pm
Dieci piccoli indiani
Preambolo
Nella puntata precedente abbiamo visto un esempio di un delitto mirato ad uno dei punti cardini delle difese cellulari. I fatti ci dimostrano sempre più che la morte neuronale in seguito ad ischemia non sia un evento incidentale, ma voluto da qualcuno con le idee ben chiare su quali difese eliminare e chi distruggere secondo uno schema prestabilito.
Dieci piccoli indiani
Per chi non ha tempo può leggere direttamente il prossimo paragrafo.
Nell’aprile del 1841, Edgar Allan Poe pubblicò “I delitti della Rue Morgue”, considerato da molti il primo racconto ‘poliziesco moderno’ della storia della letteratura. Pochi sanno che questo racconto rappresenta anche il primo esempio di un particolare tipo di giallo definito il “mistero della camera chiusa”. In questa tipologia di racconto si cerca di scoprire il responsabile di un delitto compiuto in circostanze apparentemente impossibili, poiché il bersaglio del crimine generalmente è isolato dal resto del mondo. Sicuramente si tratta di un genere letterario di difficile stesura, infatti molto spesso l’autore ricorre a passaggi segreti, all’intervento di animali o altro che sono sapientemente nascosti fino alla conclusione del racconto. Persino Conan Doyle, Edgard Allan Poe, e tanti altri prestigiosi autori hanno fatto ricorso a questi espedienti.
Probabilmente l’essenza del genere letterale è stata superbamente rappresentata da Agata Christie nel suo giallo intitolato “…e poi non rimase nessuno” poi aggiornato in “Dieci piccoli indiani”. Qui non vi è trucco né inganno, la storia narra di dieci persone che si ritrovano su di una isola deserta su cui all’arrivo verrà annunciata la morte di ciascun protagonista. La cosa sorprendente è che si verifica ciò che è esplicitamente scritto nel titolo, ovvero muoiono tutti e nessuno entra o esce dall’isola. Nella storia non vi è alcuna persona al di sopra di ogni sospetto e non vi è alcun Deus ex machina che risolve il delitto. L’intera storia è narrata dal di fuori dei personaggi senza entrare nella loro testa, mediante sguardi sospetti reciproci, dubbi, perplessità teorie varie. Sicuramente un capolavoro si psicologia e suspense che ha debitamente meritato il record di vendite di libri e le diverse trasposizioni cinematografiche.
Ovviamente non vi svelo il finale ma forse questa storia è interessante poiché potrebbe essere la chiave di lettura di questo post.
Il cervello in una stanza chiusa
Le analogie tra i delitti della camera chiusa e l’ictus sono molteplici.
Il delitto ovviamente è consumato durante il propagarsi del danno neuronale e l’annuncio è dato dal mancato afflusso di sangue, ma perché si dovrebbe considerare il cervello come una stanza chiusa ed isolata?
Il cervello è avvolto da una barriera, detta ematoencefalica (BEE), che lo isola dal sangue circolante. In pratica solo pochissime sostanze controllatissime possono raggiungere l’encefalo mediante diffusione passiva oppure trasporto proteico.
Questa barriera ematoencefalica difende il nostro centro di comando e di pensiero dagli effetti potenzialmente dannosi di sostanze, virus o batteri che circolano nel nostro organismo. Persino i farmaci che dovrebbero agire sul SNC debbono avere delle caratteristiche molto particolari per raggiungere un singolo neurone. Oltrepassare la BEE non é per niente facile sia per entrare che per uscire dal cervello, sebbene esistano dei punti con maggiore permeabilità.
Ciononostante, oltre la BEE ci sono degli strati di astrociti che tamponano ulteriormente l’afflusso di sostanze dal sangue ai neuroni.
Il cervello, inoltre, é immerso in un liquido (liquor cerebrospinale) che serve per alleggerire il proprio peso, per attutire eventuali colpi alla testa e diminuire l’effetto degli sbalzi termici. Ebbene nuotando in questo liquido sarebbe possibile raggiungere quasi ogni regione cerebrale in poco tempo. Il liquido encefalorachidiano, infatti, oltre ad avvolgere completamente l’encefalo, il cervelletto fino al midollo allungato, passa anche dentro il cervello stesso attraversando dei vuoti detti ventricoli cerebrali. Questo é un meccanismo che permette una ottima estensione della superficie di contatto.
C’è da considerare, però, che il cervello è avvolto anche da involucri connettivali membranosi costituiti di 3 lamine concentriche particolarissime, definite, meningi. Dall’esterno verso l’interno all’interno c’è la dura madre (o dura meninge), l’aracnoide, e la pia madre (o pia meninge).
Il ruolo fondamentale delle meningi è la protezione meccanica del SNC ed impedire a sostanze tossiche, metaboliti e farmaci di penetrare dal sangue all’ambiente perineuronale. Serve anche per nutrire il tessuto cerebrale ed a riassorbire parte del liquor cerebrospinale.
Ritorniamo alle indagini
Una volta constatato che c’é in giro un assassino molto furbo e raffinato, il primo punto in discussione oggi é la permeabilità, ovvero verificare se il cervello é veramente isolato oppure c’é qualche passaggio segreto che consentirebbe ad un malintenzionato di entrare e fuoriuscire indisturbato dalla scena del crimine.
Consideriamo ad esempio il ruolo del cervello nel sovraintendere le ghiandole endocrine dell’organismo. L’ipofisi è parte del SNC e stimola numerose funzioni del nostro organismo attraverso la liberazione di numerosi ormoni proteici e non. Come può svolgere questa funzione al di là della barriera? Indagando bene la BEE ha delle piccolissime zone di ‘fenestramento’. Zone in cui la barriera é più sottile e passano più facilmente gli ormoni proteici. Tuttavia queste zone non possono essere facilmente utilizzate per far entrare farmaci, poiché rappresentano una superficie estremamente piccola e con un percorso per raggiungere tutto il sistema nervoso centrale molto lungo. Qualsiasi sostanza o cellula che voglia intraprendere questo percorso dovrebbe oltrepassare la BEE, poi una serie di barriere gliali, assonali, l’ipofisi e poi tutto il cervello per arrivare alla corteccia dove avverrà l’ictus. Un percorso troppo lungo e complicato per una qualsiasi sostanza da poter sostenere come realistica.
Ci può essere però un’eccezione nota a tutti. Si sa, infatti, che i linfociti ed i macrofagi si ritrovano nel sangue e possono attraversare l’endotelio dei capillari senza causare danni e soprattutto in maniera mirata per raggiungere il sito di infiammazione.
Potremmo considerare l’ischemia cerebrale con una componente infiammatoria e quindi potremmo anche pensare che ci sia una possibilità per le cellule infiammatorie attivate di oltrepassare le barriere e ritrovarsi nel SNC.
Andiamo in laboratorio e riproduciamo l’ictus in un modello animale ed osserviamo il cervello e le cellule accorse sul luogo del danno. La prima sorpresa é che nel SNC non ci sono le classiche cellule del sistema immunitario né in condizioni fisiologiche e neanche in corso di infezione. Il cervello, infatti, é privo di linfociti, macrofagi ed altre cellule classiche del sistema immunitario. Per difendersi il cervello presenta una particolare forma di glia che fa le veci del sistema immunitario. Si definisce microglia, una particolare forma di glia che di fatto é una forma di cellule immunitarie residente nel SNC. Rappresentano circa il 20% della popolazione gliale, e circolano liberamente attraverso la stretta maglia dei neuroni e della glia in cerca di neuroni danneggiati, placche e agenti infettivi. Ovviamente si dirigono sul luogo dell’infiammazione o sul sito di richiamo ed hanno funzioni molto interessanti.
La microglia
Immaginiamo un ipotetico interrogatorio per conoscere meglio il nostro candidato.
“Lei chi è e cosa ci fa in questa ‘casa’?”
“Io sono parte integrante del sistema immunitario. Il mio ruolo è quello di proteggere gli abitanti del cervello da eventuali infezioni od eventi dannosi.”
“Perché non ci sono le cellule del sistema immunitario qui?”
“Perché non è possibile passare attraverso la BEE, i macrofagi, le cellule B ed altre sono recluse fuori ed io sono reclusa dentro il cervello. Non sono possibili scambi”
“Se ho capito bene Lei non è né una forma neuronale e nemmeno una vera glia. Da dove viene Lei?”
“Io derivo dalle cellule staminali ematopoietiche, le stesse che danno origine alle altre cellule del sistema immunitario”
“Allora Lei come ha fatto ad entrare qui senza attraversare la BEE? C’è qualche passaggio segreto forse?”
“Le cellule microgliali sono originate durante l’embriogenesi, quando la BEE non esisteva ancora. In pratica una piccola popolazione di cellule staminali ematopoietiche migrano in quello che sarà il SNC e si differenziano in microglia. Una volta chiusa la BEE nessuno entra e nessuno esce”
“uhmm… c’è una cosa che non mi quadra. I macrofagi, le cellule dendritiche, e tantissime altre cellule del sistema immunitario spesso si usurano e vengono rimpiazzati da altre cellule nuove che si differenziano secondo le necessità. Lei non invecchia mai? Non riceve mai un rinforzo dall’esterno per combattere le infezioni?”
“In verità no. Le cellule del midollo osseo non possono aiutarmi in alcun modo, poiché non possono attraversare la BEE, quindi siamo sole e facciamo il possibile.”
“…e quando si trova in difficoltà? Come fa?”
“La BEE generalmente non lascia passare molti organismi patogeni e ciò basta per un equilibrio. Tuttavia, se le circostanze lo richiedono abbiamo una discreta capacità di replicazione e possiamo combattere gli agenti patogeni con notevole forza.”
“Alcuni esperti sostengono che i suoi progenitori sono in grado di accorrere nel SNC quando ci sono infezioni molto gravi. Devo dedurre che c’è qualche modo per oltrepassare la BEE”
“Questo capita quando l’infiammazione o chi l’ha causata danneggia la BEE, in questo caso è possibile che dei nostri progenitori abbiamo abbastanza spazio per attraversare la BEE e differenziarsi in loco per combattere al nostro fianco.”
Il sospetto
Qualcosa non quadra perfettamente. Il sistema immunitario è un complesso meccanismo di riconoscimento degli agenti infettivi attraverso diversi tipi di cellule specializzate. Un agente infettivo può essere riconosciuto in maniera innata oppure attraverso l’apprendimento, in ogni caso gli anticorpi hanno un ruolo essenziale per tale riconoscimento. Nessuna cellula può essere in grado di riconoscere tutte le possibili combinazioni di agenti infettivi non-self.
Proviamo a stringere l’interrogatorio sul nostro indagato
“Come fa a riconoscere un agente infettivo? La BEE non lascia passare nemmeno gli anticorpi, e senza le cellule B è improponibile saper riconoscere tutti i possibili agenti patogeni.”
“Da questa parte della BEE ci dobbiamo arrangiare a riconoscere gli agenti patogeni attraverso piccoli cambiamenti patologici che hanno luogo nel SNC. In verità ci sono solo poche e controllatissime cellule nel SNC, ogni cosa fuori posto è subito notata. Ad esempio ci possono essere anche dei piccoli cambiamenti nell’ambiente ionico del cervello per indicare una certa sofferenza”
“Si è mai sbagliato a riconoscere un estraneo? In altre parole ha mai riconosciuto come patogeno o infettivo un neurone?”
“A volte mi è capitato, specie quando un neurone sta per morire si attiva un meccanismo di fagocitosi e rimozione dei residui prima che i frammenti possano danneggiare le cellule circostanti. Oppure in alcune patologie dove i neuroni invecchiano precocemente e sono costretto ad intervenire”
“…e nel caso di ictus? Ha trovato in questo caso degli agenti infettivi? O ha praticato eutanasia su qualche cellula del SNC?”
“In verità sono accorso quanto prima cercando di capire perché morivano così tanti neuroni, ma non ho potuto far nulla per salvarli”
“Perché Lei non è morto durante il propagarsi del danno neuronale insieme ai neuroni ed alla glia?”
“Sono stato chiamato in ritardo dai neuroni danneggiati, sono accorso quanto prima ma la situazione era già disperata, ho provato a liberare sostanze per sostenere i neuroni, ma quando le cose sono andate male mi sono allontanato per salvarmi”
Conclusione
In questo post abbiamo introdotto un nuovo individuo del SNC, un terzo incomodo misterioso che coabita con le vittime e che ha un comportamento alquanto strano. Nel prossimo post lo sottoporremo ad un vero processo per capire bene il suo ruolo e la sua posizione in questo intricato giallo.
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16 aprile 2010 - 2:37 pm
Preambolo
Oggi vi scrivo, ahimè, dal letto poiché ammalato. Con tanto tempo a disposizione e poco altro da fare ho scritto un nuovo post, spero per voi, interessante. Oggi parleremo della memoria e dei suoi aspetti più curiosi. La parola chiave di oggi è ‘Memento’, un termine latino ed inglese che significa “ricordati” e che tra l’altro è anche un titolo di un film utile da commentare.
Memento
Il film Memento, diretto da Christopher Nolan nel 2000, parla di un ragazzo di nome Leonard Shelby impegnato nel vendicarsi di alcuni criminali che violentarono ed uccisero la moglie durante una rapina andata male. Tentando di salvare la moglie dai due malviventi, Leonard rimane gravemente ferito alla testa, e tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi (‘amnesia anterograda’). Leonard ricorda proprio tutto quello che è successo poco prima dell’incidente, ma è incapace di fissare nuovi ricordi. Per immedesimarsi meglio nel protagonista, il montaggio del film replica proprio il suo punto di vista. In pratica il film procede su due binari: le scene si susseguono alternativamente dall’ultima in ordine cronologico, poi alla prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. In questo modo lo spettatore insieme al protagonista vive il momento sospeso nel tempo e senza poterlo inquadrare in un contesto cronologico. L’intreccio, montato lungo tutto il film, verrà sciolto solo alla fine con una scena chiave. Consiglierei la visione di questo film agli appassionati di puzzle, ed a quelli che hanno un’ottima memoria.
Henry Gustav Molaison
Tra le altre cose il protagonista del film ricorda dettagliatamente la storia di un certo Sammy che ha avuto il suo stesso problema di memoria. I frammenti di questa storia nella storia sono sparsi lungo tutto il film, ed è volutamente confusa da molte scene di pochi secondi che insinuano dubbi e perplessità nello spettatore.
Una cosa molto curiosa è che la storia di Sammy narrata dal protagonista nel film è ispirata da un fatto vero e che ha fatto molto eco nel campo delle neuroscienze. Si tratta di Henry Gustav Molaison, sicuramente uno dei più grandi contributori nel campo delle neuroscienze. Come avete capito, non si tratta di un grande ricercatore e neanche di un coraggioso eroe, bensì si tratta di una persona davvero molto sfortunata, che suo malgrado ha rivoluzionato il campo nelle neuroscienze degli ultimi 50 anni. La sua storia e la sua patologia è stata studiata dettagliatamente da neurologi, psichiatri e da tanti studenti di medicina per tantissimi anni. Per capirne l’importanza basta dire che su di lui ci sono centinaia di pubblicazioni su importanti riviste scientifiche internazionali che vanno dagli anni ’50 fino a pochi anni fa. Henry è stato definito da tutti il più importante paziente nella storia delle neuroscienze. Lo stesso prof. Eric Kandel, uno dei più grandi neuroscienziati moderni, definì lo studio di Brenda Milner sul paziente H. M. come una pietra miliare nella storia delle neuroscienze moderne per capire la memoria umana e le patologie ad esse correlate.
Andiamo con ordine
La storia di Henry, noto alla ricerca come paziente H.M., incomincia nel 1935 all’età di 9 anni con un incidente ciclistico che gli procurerà delle pericolose crisi epilettiche. All’età di 27 anni è costretto ad una operazione chirurgica per ridurre le crisi epilettiche e gli svenimenti che avrebbero potuto portarlo alla morte. C’è da dire che a quel tempo non c’erano ancora dei farmaci per trattare efficacemente le crisi epilettiche e tanto meno si conoscevano le dettagliate funzioni cerebrali. A quel tempo il campo delle neuroscienze era molto rudimentale, anche se in piena crescita esponenziale. Fu il chirurgo William Scoville, dell’Hartford Hospital a rimuovere parte dei lobi temporali mediali per tentare di curarlo. In seguito all’operazione Henry perse, oltre ad una parte dei lobi temporali mediali, circa due terzi dell’ippocampo, il giro paraippocampale e l’amigdala.
Il risultato dell’operazione fu un successo dal punto di vista delle crisi epilettiche ma i 2 cm di ippocampo che rimasero si atrofizzarono velocemente a causa dell’interruzione di alcune vie nervose della corteccia entorinale. Al risveglio dall’operazione ci si rese subito conto dei nuovi problemi che Henry aveva acquisito.
Da quel 1 Settembre 1953 la sua memoria si fermò e si aprì davanti a lui un lungo ed inconsapevole calvario tra tanti medici e ricercatori che se lo contesero per anni. Henry, a distanza di decine di anni ricordava perfettamente tutta la sua storia fino all’operazione chirurgica, ricordava tutti i dettagli della sua famiglia, dei suoi problemi e della sua storia, ma era incapace di riconoscere i medici e gli amici che sono stati accanto a lui per i successivi 55 anni dopo l’incidente. Ha partecipato, senza ricordarsene, a centinaia di studi ed ha aiutato a capire tantissime caratteristiche della memoria fino ad allora del tutto inattese.
Per inquadrare meglio il periodo storico, bisogna considerare che agli inizi del 1900 il campo delle neuroscienze era pura alchimia, non c’erano colture in vitro di neuroni, niente TAC, niente NMR, niente PET etc… Non c’era modo di guardare dentro il cervello di una persona viva e tanto meno potevano essere prevedibili gli effetti di contusioni ed operazioni chirurgiche alla testa. A quel tempo, mentre Freud sviluppò la contestata psicoanalisi, i neurologi si affacciavano all’immensità del campo delle neuroscienze.
La teoria che andava per la maggiore all’inizio del secolo scorso era che la memoria fosse un’entità unica distribuita in modo uniforme in tutto il cervello, per cui si pensava che un trauma cerebrale poteva intaccare una determinata zona del cervello rendendo inaccessibile una parte della memoria passata. Da questo si poteva anche dedurre che eliminando una parte dell’encefalo si poteva rimuovere parte dei ricordi passati senza intaccare la funzionalità della memoria stessa. Non ci si deve meravigliare, quindi, se all’inizio il caso clinico di Henry fu accesamente discusso da chi pensava che fosse l’incidente traumatico che causò l’epilessia a condizionare il suo cervello oppure ad errori post-operatori. Tutti i test proposti e poi svolti su Henry dimostrarono che il paziente aveva una memoria pienamente intatta e funzionante in ogni aspetto fino al giorno dell’incidente per cui non è stata rimossa o resa inaccessibile la zona in cui la memoria vi è contenuta. Il problema mnemonico riguardava solo il meccanismo che fissa i nuovi ricordi.
La complessità della memoria
Presto i ricercatori però si accorsero che il problema era molto più complesso di quanto si pensasse, sebbene il paziente non ricordava alcunché di quello che aveva fatto, era in grado di imparare nuove cose. Si sapeva, infatti che Henry andava in bicicletta quando era ragazzo e la sua memoria aveva fissato il meccanismo prima dell’incidente, quindi era normale che riuscisse a farlo anche dopo. Tuttavia alcuni medici sapevano anche che Henry non aveva mai visto il mare e tanto meno sapeva nuotare. I medici provarono ad insegnarglielo e con grande sorpresa notarono che riusciva ad imparare la nuova tecnica. Ogni giorno Henry si stupiva nel vedere una piscina per la prima volta, e sorprendentemente scopriva anche di saper già nuotare. Lo stesso succedeva per esercizi di abilità.
I risultati dimostravano chiaramente che la memoria poteva essere divisa grossolanamente in memoria a breve termine ed a lungo termine, con meccanismi indipendenti. Tuttavia, l’altra scoperta ancora più interessante é che esiste anche una ulteriore suddivisione della memoria in procedurale e cognitiva.
Le sorprese non finiscono qui, poiché mentre il mondo si chiedeva quale fosse il limite tra la memoria breve termine quella a lungo termine, e poi cercava di dare una definizione alla memoria procedurale, alcuni ricercatori scoprirono che Henry era in grado di disegnare una piantina topografica della sua abitazione. Sicuramente fu una nuova scoperta sensazionale, poiché Henry non è mai stato in quella casa prima dell’incidente. Fu coniata così anche un altro tipo di memoria, detta spaziale, che interagisce con le altre tipologie di memoria pur rimanendone separata.
Se pensate che le suddivisioni della memoria finiscano qui siete ben lontani dalla realtà, proprio pochi anni fa sono state definite 2 nuove sottocategorie. E’ stato identificato un paziente, definito C.L., che soffre di una selettiva amnesia anterograda. Il paziente C.L. è in grado di avere una discreta capacità di acquisire nuove semplici informazioni oggettive. La cosa incredibile è che la sua capacità di fissare i ricordi correlabili con il tempo o con lo spazio è praticamente nulla. Nel giro di diversi mesi, infatti, i ricercatori sono stati in grado di insegnargli nuove parole ed aumentare le sue informazioni di cultura generale, però il paziente non è riuscito a manifestare alcun progresso nel ricordare dove fosse stato e cosa fosse successo pochi minuti prima. I ricercatori hanno definito così una memoria episodica, correlata con il tempo, ed una memoria semantica, correlata con semplici informazioni indipendenti dal contesto temporale. Ancora oggi si discute sull’esistenza reale di queste sottocategorie ed i limiti per definirle.
Purtroppo è improbabile trovare un modello animale in cui studiare la memoria a questi livelli di categorizzazione, attualmente le uniche possibilità per capire queste effimere differenze sono limitate dalla scoperta di pazienti affetti da forme di particolari di amnesia e da esperti ricercatori che riescano ad identificarle. È ipotizzabile quindi che le ulteriori suddivisioni e categorizzazioni della memoria sono solo all’inizio del loro percorso,
Riprodurre il fenomeno?
Si può riprodurre l’amnesia anterograda? E’ noto che alcuni farmaci e l’intossicazione da alcool possono riprodurre l’amnesia anterograda in maniera transitoria, ma non danno un’idea chiara del meccanismo molecolare su cui si basa. Oggi si sa che i circuiti neuronali presenti nei lobi temporali mediali sono coinvolti in questa patologia, ma si sa anche che si può ottenere lo stesso deficit mediante il danneggiamento selettivo di altre aree cerebrali. C’è da aggiungere che l’interruzione dei circuiti cerebrali dei lobi temporali non causano sempre dei danni alla memoria anterograda, quindi si tratta di una condizione non necessaria e neanche sufficiente. In definitiva, nonostante gli innumerevoli studi sui circuiti di queste regioni cerebrali, il processo di memorizzazione e di recupero della memoria rimane un grande mistero. Ancora oggi, i neuropsicologi e gli scienziati discutono su quale sia il deficit responsabile dell’amnesia anterograda. Sono state poste diverse teorie: difficoltà nella codifica delle nuove informazioni per la memoria, accelerazione dell’eliminazione dei ricordi appena acquisiti, oppure mancato accesso ai ricordi recenti.
La morte
Il martedì sera del 2 dicembre 2008, Henry Gustav Molaison si spegne in una clinica quasi dimenticato nonostante il suo incredibile contributo alla medicina ed alla civiltà mondiale. Le persone a lui vicine per ricerca o per la cura ricordano Henry come la persona più gentile, paziente, e di buona volontà che avessero mai incontrato. Era sempre sorprendente quando più volte al giorno si presentasse a persone a lui vicine da più di mezzo secolo, e quando raccontava del suo presente, in cui Truman era il presidente degli USA e la televisione era una ancora una nuova invenzione.
La dottoressa Corkin, che gli é stato vicino fino agli ultimi momenti definendolo un membro della sua famiglia, ha scritto un libro intitolato “una vita senza memoria” (“A Lifetime Without Memory.” “You’d think it would be impossible to have a relationship with someone who didn’t recognize you, but I did.”).
Alla morte, il cervello di Henry é stato accuratamente analizzato e dissezionato in circa 2400 fette in diretta web, per le generazioni future. Un ultimo ed inconsapevole contributo alle neuroscienze che spero non venga dimenticato.
Conclusione
Oggi é abbastanza chiaro che esistono tanti tipi di memoria e tanti meccanismi di immagazzinamento e di recupero. Le diverse aree cerebrali ed i circuiti in esse contenuti sono coinvolti in compiti specifici ma spesso difficilmente catalogabili secondo schemi oggettivi.
Nel prossimo post vedremo perché c’è un’oggettiva difficoltà nella comprensione i questi circuiti e come questi interagiscano con la memoria stessa.
Alla prossima
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25 gennaio 2010 - 3:58 pm
Preambolo
Oggi continuiamo il viaggio tra le righe di questo misterioso neuroomicidio in seguito ad ischemia cerebrale. Per chi non avesse seguito i capitoli precedenti siamo sule tracce di un apparente cameriere innocuo che nasconde dietro di sé una inquietante storia. Questo personaggio, rappresentato dalla proteina di membrana NCX, sembra essere coinvolto nel danno ischemico del cuore. Oggi vedremo di traslare la ricerca al cervello e di capire come stanno effettivamente le cose.
I gemelli
Per chi si annoia facilmente può passare subito al prossimo paragrafo, se siete curiosi, invece, in questa sezione descriveremo un breve racconto che ci potrebbe essere utile per la nostra storia.
Sicuramente conoscerete almeno un po’ della letteratura greca e della sua mitologia che descrive l’origine di tutte le cose naturali, incluse le costellazioni. In questa ‘letteratura’ la costellazione dei gemelli presenta, per una strana combinazione, due storie diverse e contrastanti. La prima storia é quella più diffusa, che racconta dei due fratelli gemelli di Elena di Troia in cerca del vello d’oro con gli argonauti. L’altra storia meno nota, invece, racconta di un re greco che ebbe due gemelli come primo genito. Questo avvenimento era considerato un segno di sventura, poiché la tradizione dell’epoca dava al solo primo figlio maschio l’eredità reale, ed avere due gemelli comportava dividere il regno. Coscienti di ciò, l’ostetrica insieme a pochi fidati nascosero il secondo parto ed abbandonarono il fagotto lontano dal palazzo reale. Il primo figlio divenne un re buono e giusto, mentre il secondo visse nell’ombra e dovette arrancare per vivere. Quando scoprì la propria somiglianza con il regnante, pensò bene di prendersi di diritto il trono e spodestare il gemello. Nessuno si accorse dell’inganno tant’é che i sudditi avvertirono questo scambio tra gemelli come un improvviso cambio di pensiero del re, da buono e giusto ad un aguzzino sanguinario. Per chi non conoscesse il seguito della storia sono sicuro che riuscirà a trovarla con un paio di click. É curioso che ancora oggi, a causa di questa seconda origine mitologica, i gemelli sono spesso disegnati con due volti diversi, uno sereno e sorridente, l’altro cattivo.
Come in tutti i racconti greci, c’é dietro un pensiero filosofico. Probabilmente il racconto ci insegna a suo modo che i cambiamenti del comportamento possono essere determinati dalla confusione tra più persone, oppure secondo un altro punto di vista più teologico, che dentro ognuno di noi ci possono essere più personalità con lo stesso volto esteriore.
Conosci con chi vai e saprai chi sei.
Il primo punto in discussione oggi é l’uso di farmaci specifici per limitare la funzione di NCX durante il danno ischemico. Questo ci darebbe un inestimabile contributo alla comprensione del suo ruolo in senso positivo o negativo. Purtroppo, come abbiamo già accennato più volte i farmaci agiscono anche su altri bersagli, es canali ionici e recettori, quindi sono inutili. Tuttavia c’é un dubbio, perché tutti gli esperimenti fatti con queste sostanze presentano un unico risultato coincidente quando si tratta di ischemia cardiaca, mentre nell’ischemia cerebrale ci sono risultati molto discordanti?
La storia, scientifica e letteraria, ci insegna che dietro ai comportamenti ambigui ci sono sempre delle verità più profonde da scoprire. Per questo, prima di andare dal nostro indagato e sbattergli in faccia quello che abbiamo scoperto sul suo ruolo nel cuore, cercheremo ci informarci meglio sul suo conto.
La disparità dei farmaci su NCX nel cervello puzza di bruciato, appesantito poi dall’effetto convergente sul cuore. Andiamo quindi in laboratorio in cerca di maggiori informazioni. Tenendo presente la storia mitologica accennata prima cerchiamo subito di chiarire eventuali confusioni di persona. Conoscendo la sequenza del nostro gene target possiamo seguire due strade principali per la scoperta di eventuali gemelli, una via più predittiva e teorica oppure una via più sperimentale ed alchimica.
La veggenza
La tecnica più semplice oggi é quella che fa uso della bioinformatica per la ricerca di geni o pseudogeni simili al nostro indagato. Si tratta di un approccio molto economico ma che richiede un certo grado di esperienza e pazienza. Sappiamo infatti che il genoma umano, come quello di altri organismi, é stato interamente sequenziato, per cui i geni sono sotto gli occhi di qualsiasi curioso. Un po’ come avere un dizionario in cui compaiono tutte le parole italiane, possiamo raggrupparle in aggettivi, verbi, soggetti etc, oppure per sinonimi e contrari. Lo stesso vale per le sequenze ritrovate nel genoma umano, dove partendo da un preciso gene, si può facilmente risalire ad un suo analogo, per omologia di sequenza nucleotidica o addirittura aminoacidica.
Per farlo basta un pc, una connessione internet, i servizi da Italia-IPTV.it, qualche programma specializzato e tanta buona volontà. Il tutto dovrebbe essere condito anche con una buona dose di pazienza, poiché questa metodologia non é perfetta e capita spesso di essere abbagliati da errori, pseudogeni o sequenze che in realtà si esprimono solo in particolari cellule o particolari condizioni che non ci interessano.
Ciononostante ci armiamo di impegno e pazienza alla ricerca di geni simili al nostro imputato. Da un’analisi preliminare emerge subito che ci sono diverse sequenze simili al nostro NCX, alcune possono essere escluse poiché non portano all’espressione una proteina completa, altre non presentano i classici segni dell’espressione (expressed sequence tags = EST). Dai nostri sforzi sembrano emergere tutto e nulla contemporaneamente.
Tuttavia, valutando bene, ci sono due zone della nostra sequenza genica che sono molto conservate e si ritrovano in tante altre sequenze. Raccolte queste informazioni possiamo procedere all’identificazione degli altri possibili mRNA, e vedere per quale proteina codificano e se qualcuna di queste possa somigliare al nostro cameriere.
L’alchimia
Un seconda fase o secondo approccio potrebbe essere quello di cercare gli mRNA target direttamente su cellule o tessuto. Questo é necessario per verificare se quei candidati identificati con il pc sono poi effettivamente espressi nell’organo che ci interessa, es cervello, oppure trovare degli mRNA che ci sono sfuggiti perché magari hanno delle strutture genetiche insolite.
La seconda strada che possiamo percorrere, quindi, é alternativa alla prima ed anche complementare a questa.
In teoria, dobbiamo prendere l’RNA del tessuto o organo che ci interessa e cercare delle sequenze omologhe con la tecnica Race. Con questa tecnica, infatti, é possibile individuare i membri di una famiglia di mRNA, partendo dalla conoscenza di alcune regioni conservate.
Risultati
Dall’analisi risulta subito evidente che NCX é una proteina unica in quasi tutto l’organismo, tranne nel cervello e nel muscolo scheletrico. Definiamo NCX1, l’isoforma ubiquitaria, mentre NCX2 e NCX3 sono quelle che si trovano solo nel cervello e nel muscolo scheletrico.
NCX1, NCX2 e NCX3 sono generati da 3 geni diversi ed hanno la medesima struttura (topologia) e funzione. Sono talmente simili in sequenza aminoacidica che é possibile generare delle proteine chimeriche con pezzi di ciascuna isoforma senza alterarne la funzione e regolazione. Probabilmente la presenza di più geni con funzioni simili potrebbe essere dovuto alla ridondanza, tipica di geni molto importanti. Proprio questo é in contrasto con un possibile ruolo negativo.
Da qui la prima possibile spiegazione sui farmaci, probabilmente hanno selettività diverse per le isoforme di NCX e di conseguenza hanno anche risultati diversi. Se prima eravamo in dubbio sul ruolo di una singola proteina, adesso ne abbiamo tre. In pratica ci siamo avvicinati al vero e ci siamo accorti di essere notevolmente distanti dal concludere le indagini.
Qual é il ruolo di queste proteine?
Quando le cose si complicano é meglio semplificare.
Per capire bene la funzione di ogni singola proteina andiamo in laboratorio e transfettiamo stabilmente queste proteine in altrettante linee cellulari. In questo modo possiamo evidenziare il comportamento individuale di ogni isoforma e nel contempo siamo in un sistema più facile da controllare ed analizzare.
La prima notizia é che le cellule costrette ad esprimere questo scambiatore sembrano non soffrirne affatto in condizioni fisiologiche. Se però volessimo considerare delle condizioni patologiche, ad esempio un overload di calcio?
Per sovraccaricare di calcio le cellule possiamo aggiungere al mezzo la ionomicina, una sostanza tossica che forma dei pori sulla membrana plasmatica e fa entrare quantità massicce di calcio. Le cellule wild-type muoiono poco dopo l’incubazione, mentre le cellule che esprimono NCX sopravvivono senza difficoltà.
Tutte le isoforme, NCX1, NCX2, e NCX3 hanno lo stesso effetto protettivo in egual misura, ma qualcosa non quadra; stessa funzione=stesso ruolo?
Se proviamo a testare i farmaci incriminati ci accorgiamo subito che c’é una discreta selettività. Alcuni farmaci agiscono su una isoforma in particolare, altri farmaci agiscono solo in determinare condizioni ioniche. L’ipotesi premessa sembra essere vera e quindi la strada farmacologica non é percorribile.
Sorpresa!
Nella ricerca, come nelle indagini poliziesche, può capitare spesso di essere abbagliati e di semplificare troppo le cose, ora ne vedremo un esempio.
Questa volta cerchiamo di sottoporre le cellule a stimolazioni più simil-ischemiche, non più solo sostanze tossiche. Una possibilità é di sottoporre le cellule che esprimono ciascuna isoforma ad una deprivazione di ossigeno e glucosio (OGD). In questo modo il modello é più complesso e simile all’ischemia, vedremo quale proteina ha un effetto protettivo e quale ha un effetto letale.
I risultati sentenziano che NCX3 é l’unica proteina con capacità protettiva in quelle condizioni. NCX2 e NCX1 sembrano non avere alcun effetto.
La situazione sembra essere interessante, ma perché le due proteine NCX1 e NCX2 non fanno nulla durante l’OGD mentre sono fondamentali nell’overload di calcio con la ionomicina? Dopotutto hanno la stessa struttura e funzione di NCX3. Qui é la sorpresa, presi per la gola ed interrogati per bene, NCX1 e NCX2 confessano entrambi che seppur non consumino ATP per funzionare, in realtà l’ATP stesso é un regolatore della funzione degli scambiatori. In pratica in assenza di questa molecola i due indagati non agiscono, anche se in teoria potrebbero. Ovviamente durante l’ischemia cerebrale c’é una carenza di ATP e questo avrebbe bloccato ogni azione di scambio ionico proprio come avverrebbe per le pompe ioniche. NCX3 invece é diverso e non é regolato dalla presenza di ATP, quindi era l’unico che poteva agire inisturbato, ma per fare cosa?
Una nuova strategia
Tenuto conto che il nostro sospettato é NCX3, e che in vitro sembra essere neuroprotettivo, andiamo a vedere cosa succede in vivo durante l’ischemia cerebrale vera.
Per farlo possiamo utilizzare una nuova strategia interessante, ovvero abbassare l’espressione del nostro indagato con gli oligonucleotidi antisenso o con l’RNA interference direttamente nell’animale vivo. Il risultato é sconcertante, basta anche un lieve abbassamento dell’espressione di NCX3 per causare un notevole peggioramento del danno ischemico.
A qesto punto possiamo effettuare la prova del nove; ovvero generiamo un topo ko per NCX3 e verificare se ciò è confermato. Il topo ko sembra essere vitale e non avere alcun problema, sottoposto ad ischemia cerebrale i dati ci danno ragione. I topi ko per NCX3 presentano un volume ischemico notevolmente maggiore rispetto ai loro fratelli wild-type, soprattutto nelle prime fasi del danno. Tra tanti assassini abbiamo trovato un prode paladino della nostra sicurezza.
Se questa fosse una storia di fantasia…
Se questa fosse solo una storia di fantasia terminerebbe qui, con un buon presagio ed un possibile target farmaceutico per limitare l’estensione del danno cerebrale. Purtroppo spesso la realtà é molto più sorprendente di tutti gli scrittori di gialli. La storia non finisce qui, infatti, poiché su due autorevolissimi giornali scientifici, cell e nature, compaiono due articoli su un argomento che già era nell’aria da un po’ e che cambierà drasticamente la visuale della nostra storia.
La notizia
Tutti i ricercatori che hanno trattato direttamete o indirettamete la proteina NCX3 sapevano già da tempo che nei western blot degli estratti cerebrali compaiono diverse bande oltre a quella corrisponde ad NCX3. In realtà non si ha ancora un anticorpo monoclonale per questa isoforma e neppure un policlonale perfetto per cui spesso si è tralasciato una scottante verità. Durante l’ischemia cerebrale l’espressione di NCX3 tende a diminuire nel centro dell’ischemia, mentre aumenta nelle zone peri-infartuate. Qualcosa richiama l’attenzione sul fatto che i neuroni attorno all’area ischemica tentano di esprimere le proteine di emergenza perché si trovano sul fronte ischemico e vogliono resistere. Tuttavia all’improvviso, queste stesse cellule perdono l’espressione di NCX3 e muoiono di lì a poco. Il western delle aree ischemiche, infatti, é povero della banda di NCX3, mentre compaiono invece altre bande a basso peso molecolare.
L’articolo pubblicato su cell dimostrerà, infatti, che durante l’ischemia cerebrale ‘qualcuno’ dall’interno uccide NCX3 poiché é proprio l’ultima difesa del neurone per la sopravvivenza. Si tratta di una serie di tagli netti in più punti che provocano la scomparsa di NCX3 intero dalle cellule e la comparsa di una serie di bande proteolitiche.
Uno shock dunque ripreso anche da Nature sul dubbio della selezione naturale e perché abbiamo un vero e proprio assassino nel nostro cervello che, agendo nella confusione, taglia e degrada in maniera specifica e selettiva proprio le nostre difese migliori lasciando intatte NCX1 e NCX2 ferme a guardare poiché sono impossibilitate ad agire in assenza di ATP.
Conclusioni
In questa lunga puntata shock abbiamo scoperto ancora una volta la complessità del caso e soprattutto una volontà programmata di uccidere i neuroni. C’é sicuramente un mandante dell’omicidio e che sa bene il fatto suo, poiché degrada in maniera chirurgica solo le proteine che servono per le nostre difese, lasciando intatte quelle che non possono comunque fare nulla.
Alla prossima
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9 dicembre 2009 - 11:30 pm
L’Orecchio: l’AP come nuova risorsa (Parte III)
Continuo di: L’Orecchio: Piccoli Dettagli (Parte I)
Continuo di: L’Orecchio: Assoluto o Relativo? (Parte II)
Preambolo
Nei precedenti post 1 e 2 ci siamo occupati di due argomenti apparentemente casuali: le origini delle note musicali e di questa strana caratteristica chiamata Orecchio Assoluto. Ora ci occuperemo della correlazione tra le due cose e vedremo cosa ne uscirà fuori.
Buona Lettura
Qual è l’interesse neuroscientifico dell’AP?
Leggendo i post precedenti sembra esserci un interesse puramente musicale nell’AP e nelle origini delle note stesse, ma in realtà c’è un discreto interesse neuroscientifico. L’orecchio assoluto, infatti, è un chiaro esempio di come un’abilità possa essere così strettamente correlata ai processi neuronali del cervello fino ad ora ignoti.
Ora cercheremo di concentrarci su dove possa poggiare l’AP per i suoi effetti.
In altre parole, da cosa dipende l’AP in un soggetto?
Differenze della struttura dell’orecchio?
La prima domanda è se la percezione della musica intesa come struttura dell’orecchio e la generazione del segnale che arriverà al cervello è la stessa in soggetti AP e soggetti non AP. I dati scientifici obiettivi indicano che entrambi i gruppi sperimentali hanno delle orecchie che generano gli stessi segnali e non c’è alcuna differenza significativa nella qualità (risoluzione) del suono percepito.
Suono differito?
Una cosa fondamentale per la percezione è sempre la velocità di flusso del segnale percettivo dalla periferia al cervello e poi, non meno importante, la simmetria dell’effetto stesso. Anche una lieve differenza tra le velocità dei segnali che raggiungono l’emisfero destro e sinistro può portare a ‘malessere’ o cattiva percezione ed interpretazione della sensazione.
Nel caso dell’orecchio c’è una fisiologica differenza di velocità del segnale dai sensori del suono fino agli emisferi, in pratica in tutti noi il segnale sonoro percepito raggiunge prima l’emisfero sinistro e dopo l’emisfero destro, questo tempo intercorso tra le due percezioni possiamo definirlo ‘differimento’.
Nei soggetti non-AP c’è un notevole aumento del tempo di differimento, in altre parole il segnale sonoro percepito raggiunge l’emisfero destro con maggiore lentezza rispetto ai soggetti AP.
Questa analisi è addirittura in accordo con gli studi fatti sulla mancanza di specularità delle capacità di identificazione del suono da entrambe le orecchie. I soggetti non-AP sbagliano più frequentemente quando ascoltano il suono solo con l’orecchio sinistro rispetto all’orecchio destro, suggerendo che è proprio l’emisfero destro ad essere più inefficace nell’identificazione del suono.
Differenze cerebrali?
Gli studi neuroanatomici hanno mostrato da tempo che i soggetti AP mostrano una maggiore asimmetria cerebrale nell’estensione tra regioni di destra e di sinistra in alcune aree che sono strettamente correlate alle funzioni verbali, come ad esempio nel planum temporale. C’è anche uno studio che dimostra una corrispondenza tra la grandezza assoluta del planum temporale destro e la possibilità di essere un AP. Anche questi studi contribuiscono ad attribuire all’emisfero destro un ruolo principale nell’AP.
Causa o effetto?
Sappiamo bene che il cervello è un organo plastico e che può ipertrofizzare o atrofizzare in relazione con l’esercizio o la stimolazione. Non è chiaro dunque se le differenze morfologiche cerebrali tra i soggetti AP e soggetti non-AP determinano di per sé una differenza nelle capacità cognitive oppure è la capacità di capire le note che ipertrofizza alcune aree cerebrali.
Rispondere a questo punto non è facile.
Differenze funzionali?
Come abbiamo visto, basarsi sulle dimensioni e sulle velocità di conduzione del segnale nervoso non basta, bisogna anche collocare la funzionalità cerebrale con l’AP. Per fare questo è possibile utilizzare una tecnica che permette di visualizzare le zone del cervello messe in funzione al momento dell’esecuzione di un compito preciso; trattasi della tomografia a emissione di positroni (Pet).
Attraverso esperimenti fatti con questa tecnica, si è visto che la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra, area coinvolta nella memoria associativa condizionale, é iperattiva fra gli “assolutisti” in fase di ascolto. Il tipo di memoria di quest’area cerebrale sarebbe proprio quella che ci si aspetterebbe quando si devono dare risposte diverse ad altrettanti stimoli diversi, come avviene nell’AP.
Aggiungendo questo forte indizio con i precedenti, potremmo dedurne che il cervello sinistro contribuisce con una memoria quasi istintiva allo stimolo, mentre il cervello destro contribuisce all’associazione sonora.
Come avviene il riconoscimento delle note?
Un piccolo spiraglio emerge dalle ricerche fatte. Partendo dal presupposto che non ci sono differenze nella risoluzione delle frequenze dei suoni percepiti (qualità), potremmo ipotizzare delle differenze nell’abilità di riconoscimento del nome della nota, piuttosto che il suono stesso. Bhé, insomma, io potrei vedere un conoscente, individuarlo e sbagliarne il nome, oppure potrei vedere un conoscente e percepirlo come un’altra persona e quindi dare un nome diverso. Non è facile capire quali dei due meccanismi è fallace nei soggetti non-AP tra il riconoscimento della frequenza e l’associazione del nome della nota.
Recentemente, un lavoro pubblicato su Plos One ha dato degli interessanti sviluppi a tal proposito. Partendo dal presupposto che il nome delle note è perfettamente casuale (vedi post precedente), ci dovrebbero essere le stesse difficoltà nel riconoscere tutte le note Do, Re, Mi… ma questo non è vero.
Seguendo la logica, infatti, ci si aspetterebbe che un soggetto confonda più frequentemente suoni che hanno una frequenza molto simile a quella di riferimento es Do-Re (261-293 Hz) oppure Sol-La (392-440 Hz). Nella realtà, invece, è più frequente la confusione tra note che hanno le stesse vocali nel proprio nome, es Do-Sol (261-392 Hz) rispetto a Do-La (261-440 Hz) sebbene non ci sia alcuna maggiore o minore somiglianza nella frequenza della nota stessa.
A supporto di questo strano comportamento bisogna dire anche che quando il soggetto non-AP è portato a scegliere tra due risposte, migliora la propria performance se sono presenti due note con vocali diverse Do-La, ed ha quasi un 50% di performance quando sono presenti due note con vocali uguali Do-Sol. Anche questi risultati sarebbero incomprensibili senza tener conto di un effetto psicologico ed interpretativo causato dal nome delle note stesse piuttosto che da una propria percezione. Secondo uno studio fatto su più di 2.000 persone, la nota più facilmente riconosciuta da soggetti AP e soggetti non-AP è il Re, probabilmente alla luce di questi dati potremmo interpretarlo come molto probabile, poiché è l’unica nota della scala musicale ad avere la vocale ‘e’ nel nome, quindi c’è minor rischio di confusione. D’altra parte le note diesis o bemolle presentano una frequenza di riconoscimento tra le più basse.
Come si comportano gli anglosassoni?
Tenendo per buoni questi dati scientifici, potremmo osservare gli anglosassoni che non hanno dato alle note alcun nome, rimanendo quindi ancora con le lettere dell’alfabeto C, D, E, F, G, A, e B. Le possibili confusioni tra le note sono le stesse dei latini? La risposta è no.
Si mantiene la capacità di discriminare il Do (C) con il La (A), ma non il Do (C) con il Re (D). Indagando bene, le note C, D, E, G e B condividono egualmente la vocale ‘/i:/’ nella pronuncia inglese e quindi sono egualmente confuse nei soggetti non-AP e presentano anche una eguale maggiore frequenza di errore nei soggetti AP. Le note F (pronunciata con /e/) e A (pronunciata con /ei/) sono le note maggiormente riconosciute dagli anglosassoni, probabilmente perché presentano anche vocali uniche.
Come si comportano gli asiatici?
Gli asiatici hanno note con nomi totalmente diversi da quelli a cui siamo abituati a pensare. Lì purtroppo tutti i nomi delle note presentano la stessa vocale, generalmente la ‘/a/’, anche se si usano tonalità diverse per i nomi. Sebbene queste condizioni non soddisfino a pieno la teoria delle vocali, questa teoria è l’unica a spiegare molto bene la diversa capacità delle note di essere riconosciute e soprattutto la diversa capacità di riconoscere le note tra popolazioni geneticamente molto simili e che usano solo annotazioni musicali diverse.
Conclusioni
Ovviamente non c’è alcuna presunzione di raccontare una verità assoluta, né di essere certi di aver interpretato tutto. L’AP è un fenomeno che andrebbe indagato più a fondo, fino alle radici verbali, dove probabilmente scopriremo nuovi processi cerebrali di formazione del linguaggio, di memoria e di interpretazione che tutt’oggi ci sfuggono.
Per ora immaginerei un mondo in cui ciascuna nota avesse un nome con una vocale diversa… magari in questa popolazione ci potrebbe essere una percentuale di soggetti AP maggiore rispetto a quella dell’attuale popolazione mondiale (0.0001%).
Alla Prossima
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9 dicembre 2009 - 10:50 pm
L’Orecchio: Assoluto o Relativo? (Parte II)
Preambolo
Nel post precedente abbiamo preso in esame il suono ed abbiamo accennato all’origine della musica e dei nomi delle note. In questa seconda parte prenderemo in esame le conseguenze di tali scelte nella percezione ed interpretazione del suono per il cervello.
L’orecchio assoluto e l’orecchio relativo
Le coordinate di oggi sono determinate dalle capacità di ‘ascolto’, non in senso letterario, piuttosto nella comprensione delle note musicali come fossero parole. Secondo questo schema possiamo dividere le persone in due categorie principali, quelle che posseggono un orecchio assoluto (meglio definibile con orecchio perfetto) e le altre che hanno un orecchio relativo.
Si intende per orecchio assoluto (absolute pitch: AP) la capacità di identificare una nota musicale senza nessuna altra nota di riferimento, mentre quelli che hanno l’orecchio relativo sanno paragonare due note e due strumenti solo se suonati insieme o a breve distanza.
Per intenderci, quasi tutte le persone con un minimo di cultura possono notare un cantante stonato, uno strumento che non è ben accordato o due note che non sono uguali (orecchio relativo), ma è difficile sentire un singolo suono e determinare quale nota sia senza paragonarla ad un’altra nota di riferimento (orecchio assoluto).
La parola orecchio assoluto suscita nell’ambiente musicale un senso di fascino e mistero, sembra essere presente nel 20% dei musicisti, e solo nel 0.0001% della popolazione totale.
Questa capacità insorge nei bambini piccoli in quella misteriosa fascia di età compresa tra i 6 mesi ed 1 anno di vita (vedi post), ma è genetica? Culturale? Dovuta a stimolazioni esterne? O semplicemente casuale?
Genetica o casuale?
Certamente l’AP non è una caratteristica che si può assumere da adulto, sebbene esistano degli esercizi difficilissimi per avvicinarsi molto all’orecchio assoluto (ear training).
Da un primo approccio si potrebbe definire il fenomeno come un fattore casuale o una predisposizione genetica, poiché nella maggioranza dei casi si possiede un orecchio assoluto in maniera indipendente dalla presenza di musicisti e di mestieri correlati ad esso in casa. Molte di queste persone speciali non sanno nemmeno di avere questa particolarità.
Tuttavia è stato dimostrato anche che la crescita di un bambino in un ambiente musicale facilita l’acquisizione di questo dono. Come poter conciliare questi concetti? Da un lato c’è una maggiore frequenza di AP in soggetti che crescono in ambienti ricchi di musica, il che indica un’acquisizione per esperienza. Dall’altro lato bisogna spiegare anche la presenza di AP in soggetti che non hanno alcun rapporto con la musica e posseggono lo stesso dono.
Per capirci potremmo estendere il significato di ‘musica’ dal punto di vista di un bambino di 6 mesi, poiché é stato dimostrato che in questa fase il soggetto non avverte la differenza fra la lingua madre e una straniera, anche se riconosce dei suoni in maniera istintiva (pianto di un altro bambino, suono amorevole, ninna nanna, battito cardiaco materno).
In queste condizioni il suono di una sillaba potrebbe essere molto simile a quella di una nota, ed una parola simile ad una piccola serie di note; quindi si potrebbe intendere come ‘musica’ anche la lingua materna o dei familiari/amici. A supporto di questa teoria è stato dimostrato da tempo che nelle lingue asiatiche c’è una maggiore percentuale di possessori di questo prezioso dono, probabilmente perché i bambini sono esposti ad una lingua con in cui parole hanno un significato diverso a secondo della tonalità con la quale sono pronunciate le “vocali” (lingua tonale). In ‘mandarino’, per esempio, il suono ‘ma’ può significare “mamma” oppure “cavallo” secondo l’altezza del suono. La particolare attenzione a questi dettagli, quando si ascolta o quando si parla, in un bambino potrebbe contribuire ad affinare o far rimanere l’abilità di riconoscere le frequenze sonore, che è poi trasferita allo studio della musica.
Seguendo questo schema, potremmo definire la causa di questo dono con una spiccata attidudine ad ascoltare i suoni con molta attenzione da una parte, ed ovviamente una stimolazione giusta della madre o dell’ambiente che circonda il bambino in quei preziosi momenti.
A supportare questa teoria ci sono anche gli studi fatti sui non vedenti congenici ed i malati di autismo che presentano questa strana caratteristica con un’altissima frequenza, senza per altro averla ‘ereditata’ da parenti ‘musicisti’.
Solo verso il nono mese, mediamente, incomincia ad essere chiara l’associazione tra una parola ed i suoi effetti, ovvero, anche se il bimbo non riesce ancora ad esprimersi a parole è in grado di capire seppur grossolanamente cosa gli viene detto.
Correlazione genetica?
Bisogna dire anche che l’associazione delle popolazioni con l’AP é il pomo della discordia, poiché considerando il punto di vista di un genetista, una popolazione asiatica ha un corredo genetico che differisce da quello europeo/americano. Alcuni geni o alleli eventualmente presenti nelle popolazioni asiatiche potrebbero favorire l’acquisizione dell’AP.
Indagando più a fondo, infatti, i coreani e i giapponesi hanno una frequenza di AP molto alta senza avere una lingua tonale. Anche gli asiatico-americani che parlano esclusivamente l’inglese e che non sono stati esposti alla lingua asiatica durante l’infanzia hanno una accertata alta ricorrenza di AP.
Una differente distribuzione di AP tra le popolazioni può essere spiegata meglio con delle differenze genetiche.
I primi ricercatori che tentarono di dimostrare questa teoria furono Profita e Bidder che riportarono nel 1988 un’elevata ricorrenza di AP in alcuni alberi genealogici e conclusero che l’AP viene ereditato come un tratto autosomico dominante con penetranza incompleta. Per approfondire l’argomento Baharloo e colleghi, nel 1998 riportarono una consistente aggregazione familiare dell’AP e indicarono un possibile ruolo dei meccanismi genetici nello sviluppo dell’AP.
Da un altro studio è emerso anche che un’istruzione musicale precoce dà più possibilità di avere un AP nell’età adulta se si è parenti di primo grado di un soggetto con AP. Questi dati confermano la possibilità di una componente genetica dell’AP.
Tuttavia questa ipotesi è indebolita da una serie di dubbi. Questi studi sono stati fatti esclusivamente su musicisti che ovviamente hanno dato un ambiente musicale ai propri parenti di primo grado, il che favorirebbe l’acquisizione dell’AP attraverso un fattore ambientale e non genetico.
Musica come linguaggio?
Ancora oggi non è chiaro quanto partecipino l’elemento genetico e quello ambientale alla formazione dell’AP, tuttavia è probabile che la capacità di identificare le note musicali derivi da un processo neurologico che corre parallelo a quello di acquisizione delle capacità linguistiche. In sostanza l’orecchio assoluto potrebbe essere il risultato di un rapporto biunivoco fra linguaggio e suono, dove la capacità di distinzione tonale viene mantenuta e inserita nel sistema tassonomico del linguagio musicale, parallelo a quello verbale.
Per intenderci, si immagini Beethoven che riusciva a scrivere la musica senza suonarla come un romanziere potrebbe essere in grado di scrivere un racconto senza sentirlo mai leggere alta voce, ed un musicista che scrive su uno spartito le ‘parole’ sentite da un pianoforte. La corrispondenza con il linguaggio sarebbe perfetta come associare alle vocali ‘a’, ‘e’, ‘i’, ‘o’, o ‘u’ con la corrispettiva lettera rappresentativa.
Conclusioni
Bisogna dire anche che avere un orecchio assoluto in realtà non facilita certamente il poter suonare meglio di altri, piuttosto spinge chi ha questo dono ad apprezzare molto più a fondo la musica e le relative note sotto tanti aspetti che ai più sfuggono. Con l’orecchio assoluto magari sarà più facile accordare uno strumento senza punti di riferimento, ma potrebbe essere anche più difficile suonare con l’accordatura ad una tonalità diversa (fare una trasposizione), come suonare ad esempio il clarinetto, il sassofono, il corno, poiché sono accordati in tonalità diversa da quella di Do. In altre parole, sebbene l’orecchio assoluto sia comunque un vantaggio, per un musicista avanzato è solo uno strumento in più che può utilizzare. L’ideale sarebbe avere entrambe le caratteristiche per poter dare il meglio.
Nel prossimo post cercheremo di entrare ancora più in dettaglio sull’origine dell’orecchio assoluto.
Continua: L’Orecchio: l’AP come nuova risorsa (Parte III)
Alla prossima
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