4 settembre 2009 - 1:00 pm
Preambolo
Finalmente le tanto meritate vacanze sono iniziate anche per me, e colgo l’occasione per finire finalmente questo post in elaborazione oramai da tanto tempo, come al solito cortesemente corretto da Valentina. Qui descriverò un argomento abbastanza lungo, difficile e ‘spigoloso’ per i profani ed esperti, anche se penso che tutti lo conoscono almeno un po’ per sentito dire.
Parleremo dell’olfatto, un argomento non facile da raccontare in un post divulgativo senza ‘smussare’ qua e là il mosaico di teorie e di esperimenti che sono stati fatti fino ad ora.
L’Olfatto: Alcuni dettagli ovvi

Come al solito mi servirò inizialmente di qualche punto di riferimento per metterci d’accordo ed inizierò dagli odori che sono causati, come tutti voi sapete, da molecole sprigionate dalle sostanze e disperse nell’aria che respiriamo, dove raggiungono il nostro naso. L’altro punto di riferimento utile si trova subito dietro il naso e sopra la volta della nostra cavità buccale dove passano tutte le molecole che noi respiriamo. E’ una cavità rivestita da una mucosa di circa 10 cm2 che attraverso la solubilizzazione, la dispersione, l’adsorbimento e quant altro, ferma una porzione delle molecole che si trovano nello stadio aeriforme nella cavità nasale e le disperde nel fluido mucoso. Qui le molecole possono incontrare una o più cellule recettoriali olfattive (ORC), in un uomo adulto se ne contano circa 10-20 milioni, ricche di propagini dette ciglia e di proteine dette recettori olfattivi (da qui chiamate Odorant Receptor OR).
I OR hanno il compito ‘legare’ in maniera più o meno specifica alcuni gruppi funzionali di queste molecole presenti nel fluido mucoso, ed innescare una cascata di eventi che si amplifica fino ad attivare la cellula recettrice e scatenare la propagazione del ‘segnale odoroso’. Il cervello, a sua volta, provvederà ad interpretare il segnale in diversi stadi con una serie di meccanismi molto complessi. Per dettagli ed approfondimenti potete guardare questo link.
Fin qui il tutto è quasi scontato ed ovvio, però dalla teoria alla pratica c’è una notevole differenza, vi dico subito che ancora oggi ci sono vari lati oscuri che cercherò di descrivervi in parole semplici, portandovi ai problemi scientifici in maniera intuitiva per quanto sia nelle mie capacità.
Quanti odori esistono?
Come penso molti di voi possono intuire, esiste un numero inimmaginabile di odori, e la maggioranza di questi è causato da un mix di ‘odori primari’ in diversi rapporti, ma a complicare la situazione c’è che una molecola odorosa può agire su decine di recettori diversi con diversa specificità. I OR dei composti aminici, ad esempio, riconoscono solamente l’azoto primario, secondario o terziario con diversa efficacia, per cui gli odori di questi composti non possono essere discriminati con facilità e sembrano tutti molto simili. C’è da dire però che nonostante questa piccola sovrapposizione di segnali si possono discriminare con elevata sensibilità circa 10.000 odori diversi.
Ciò premesso, consentitemi da questo punto in poi di semplificare e di concentrarci esclusivamente sugli ‘odori primari‘ che sono riconosciuti quasi esclusivamente da un solo tipo di OR e che danno una sensazione odorosa molto precisa.
Cosa c’è di difficile?
Nel mondo animale, il non saper distinguere l’odore di una preda dall’odore del proprio predatore fa la differenza tra fare una buona colazione ed essere la colazione di qualcun altro. Anche riconoscere l’odore delle cose che si possono mangiare da quelle che è meglio evitare è fondamentale per la sopravvivenza, quindi i mammiferi durante l’evoluzione hanno accumulato più di 1.000 geni che sovraintendono il più misterioso dei 5 sensi. In pratica più del 3% del genoma dei mammiferi è deputato alla percezione degli odori, e dato che questi recettori possono riconoscere anche più tipologie di molecole con diversa affinità determinando una combinazione di interazioni intermedie, questo amplifica esponenzialmente il ventaglio di sensazioni che possono dare le molecole presenti nell’aria.
La chiave di volta per ottenere un buon olfatto è sicuramente il collegamento tra le cellule recettoriali odorose (ORC) ed il cervello, ovvero quel meccanismo che consente di poter capire quale specifico OR è stato attivato. Si tratta di un meccanismo per nulla banale, e come punto di riferimento, possiamo considerare l’esempio del gusto, dove i recettori cellulari sono generati in base alla localizzazione sulla superficie della lingua. Nel cervello si forma una sorta di correlazione tra aree specifiche corticali ed aree della lingua denominata ‘mappa sensoriale‘. A questo consegue che è possibile percepire il salato, l’amaro, il dolce ed l’acido in base a quale zona della lingua è stata stimolata maggiormente.
Possiamo trasportare questa ipotesi nell’olfatto, ed immaginare che l’area in cui si trovano le ORC determina anche il set di recettori da esprimere. Ipotizziamo che ciascuna cellula recettrice dell’olfatto possa esprimere un centinaio o più OR localizzati in diverse aree della mucosa nasale. Ogni area in cui vi sono le ORC potrebbe essere correlata ad una zona del cervello a cui corrisponderebbero determinate sensazioni odorose.
Quanti recettori per cellula?
Sapere quanti tipi di recettori sono presenti per cellula è fondamentale per capire quante aree ci dovremmo aspettare di trovare e per verificarlo potremmo ricorrere a tecniche avanzatissime di in situ hybridization, e di retrotrascrizione ed amplificazione per PCR su singola cellula. Ovviamente non sono tecniche facili e nemmeno tanto diffuse, ma gli esperti sono riusciti a dimostrare con questi esperimenti che ogni ORC esprime solamente un singolo OR.
Una cosa simile avviene durante il differenziamento cellulare, dove la combinazione di alcuni fattori trascrizionali decide l’attivazione di meccanismi sempre più specializzati che ‘bloccano’ l’espressione specifica di determinati geni. Questo meccanismo, definito ‘deterministico’, è quello maggiormente utilizzato durante la specializzazione cellulare nel nostro organismo. Potremmo ipotizzare un meccanismo simile per le ORC in cui dalla combinazione di alcuni fattori trascrizionali si determina l’attivazione dell’espressione di un singolo OR.
Verifica della Teoria Deterministica
Secondo questa teoria la combinazione casuale o pseudocasuale di fattori trascrizionali per esprimere un singolo OR non può essere disturbata dalla coespressione di un OR transgenico scelto da noi. Per verificare questa teoria ‘deterministica‘, quindi, possiamo generare un topo transgenico in cui alcune ORC esprimono in maniera forzata un determinato OR scelto da noi e valutare se c’è coespressione.
Il risultato è interessante, non c’è alcuna sovrapposizione di segnali tra il OR espresso forzatamente da noi ed un qualsiasi altro recettore olfattivo endogeno. In pratica l’espressione forzata del nostro OR transgenico non permette di esprimere un qualsiasi altro OR endogeno, e se si tenta di generare un topo transgenico con una espressione forzata di due OR diversi nella stessa ORC, queste muoiono per apoptosi. Questi dati non sono di certo a supporto per la teoria deterministica, evidentemente la scelta del recettore olfattivo è un meccanismo molto più complesso. Ad aggiungere benzina sul fuoco c’è un’altra prova interessante, ovvero le ORC possono cambiare più volte il recettore odoroso espresso prima di prendere contatto con il cervello (maturazione cellulare). La teoria deterministica è molto fallace con questi risultati, poco probabile che sia quella buona.
La Teoria Stocastica
Un’altra teoria che si è fatta strada nel tempo è basata sulla casualità della scelta del OR espresso (teoria stocastica). Per capirci immaginiamo un fattore trascrizionale unico che sia in grado di legare il promotore di tutti i geni dei OR e di consentirne l’espressione; tecnicamente può legarsi ad un solo OR e quindi può esprimere solo quello. Se il fattore trascrizionale non è molto efficiente nell’esprimere un OR si potrebbe spiegare come mai una ORC cambia OR nei primi stadi pur seguendo sempre la regola di esprimere un solo OR alla volta. In seguito, quando un OR espresso dà un forte segnale di funzione (feed-back) il fattore trascrizionale si fissa sul gene che sta trascrivendo fino allo stadio di maturazione.
E’ una teoria che funziona e che spiega anche i risultati dei topi transgenici; il OR transgenico blocca l’espressione di altri recettori attraverso un feed-back abberrante. Però, come al solito la teoria va convalidata, e c’è l’imbarazzo della scelta sul come; una prova schiacciante potrebbe derivare dall’eliminazione del feed-back recettoriale. In particolare potremmo alterare un gene OR in modo tale da codificare un recettore non funzionante pur conservandone la struttura genica.
I risultati dimostrano che il topo transgenico non esprime mai un OR non funzionante, probabilmente proprio per la mancanza del feed-back del recettore maturo necessario per fissare la scelta. Per esserne sicuri, è stata effettuata una controprova per dimostrare che le ORC tentano di esprimere il OR non funzionante, e che solo successivamente cambiano la scelta su un altro gene OR che funzioni. Per dimostrarlo si è generato un topo transgenico in cui l’espressione anche transiente del recettore non funzionante provoca un danno irreversibile al DNA della stessa cellula (tecnica Cre/LoxP), ed i risultati hanno mostrato che le ORC scelgono il OR transgenico e non funzionante con la stessa probabilità di tutti gli altri OR, sebbene questa scelta sia cambiata prima della maturazione cellulare per mancanza di feed-back. Un’altra prova conclusiva e schiacciante è che la generazione di un topo trangenico che esprime un OR esogeno e non funzionante non disturba l’espressione dei OR endogeni. Questo dimostra che è la funzione di un OR a bloccare l’espressione dei OR endogeni, non la struttura e l’espressione dei geni OR endogeni.
La spina nel fianco per la Teoria Stocastica
La teoria stocastica fino ad ora ha sempre soddisfatto tutti i dati sperimentali ottenuti, ma ciononostante ha un punto debolissimo. Questa teoria è retta dalla possibilità di poter innescare la trascrizione di qualsiasi dei 1.000 geni dei OR da uno o pochi fattori trascrizionali, e questo sarebbe possibile solo nel caso in cui i geni OR presentino una sequenza consenso che li identifichi nel genoma. Ebbene, nonostante molti ricercatori si siano impegnati nell’analisi di omologie di sequenze tra i geni degli OR, i risultati ottenuti sono stati alquanto deludenti; con i dati attuali si potrebbero raggruppare non più di una decina di geni degli OR per volta tirando in ballo meccanismi di riconoscimento improbabili.
E se fossero dei Linfociti?
Se ci pensate, esiste un meccanismo di scelta molto simile che avviene nei linfociti. Queste cellule, però, non decidono l’anticorpo da esprimere in base a fattori trascrizionali, ma attraverso una ricombinazione genetica guidata. Si tratta di una piccola deviazione della teoria stocastica ed è anche risolutiva.
Come al solito dobbiamo convalidare tale teoria… ed escludiamo subito la proposta di sequenziare l’intero genoma di singole cellule, sarebbe difficilissimo e ci vorrebbero tanti anni! Possiamo ricorrere ad un trucco chiamato FISH (fluorescent in situ hybridization), ovvero rendere fluorescente una sonda ad RNA verso un introne di un OR. In questa tecnica non è possibile valutare una ricombinazione genica in maniera diretta, tuttavia è possibile localizzare dove inizia la trascrizione di un determinato gene all’interno del nucleo e valutare se, in seguito ad una ricombinazione, cambia posizione. I risultati, alquanto discutibili, dimostrano che il sito di inizio della trascrizione avviene sempre nello stesso punto del nucleo e del genoma, quindi niente ricombinazione, ma c’è una novità inaspettata; la trascrizione di un OR proviene solamente da un singolo allele.
Sbrogliare la matassa di informazioni non è mai facile

Spesso nella ricerca è importante definire delle ipotesi e porsi le domande giuste, ovvero cercare di identificare la cosa più importante di un meccanismo e trarne quante più informazioni possibili per verifica e deduzione. Nel nostro caso la codifica di un singolo allele, cioè solo 1 delle due copie genetiche di un OR, è ancora in linea con la teoria della ricombinazione genetica, poiché se è vero che la scelta è casuale, questa non può avvenire in entrambi gli alleli fratelli allo stesso modo. Inoltre se l’inizio della trascrizione avviene sempre nello stesso punto, questo non esclude che tutto il resto del DNA (es il promotore) possa essere stato ricombinato.
L’ipotesi che ne scaturisce è questa: La cellula sceglie un OR da esprimere in modo casuale, in mancanza di un feed-back funzionale cambia scelta, in seguito, alla maturazione cellulare la scelta diventa definitiva mediante ricombinazione di un promotore o di segnali a monte dell’OR scelto. Questa ipotesi potrebbe spiegare come mai l’espressione forzata di un recettore esogeno possa bloccare l’espressione dei recettori endogeni; probabilmente la proteina inserita provoca un feed-back che innesca una ricombinazione abberrante del DNA nei OR endogeni. La teoria per ora tiene ma con le parole non si dimostra mai niente, è fondamentale convalidare la teoria e questa volta non è per nulla facile evidenziare tante piccole ricombinazioni in singole cellule di 20 micron di diametro circa.
Come dimostrare una ricombinazione che si possa trovare in un qualsiasi punto del genoma? In questo caso il test di validazione è non semplicissimo. L’idea è che la ricombinazione del DNA in una ORC provocherebbe il blocco dell’espressione di un determinato OR in tutte le condizioni, come avviene per un linfocita. Se da questo DNA ricombinato si clonasse il topo stesso da cui deriva… l’animale che risulterebbe dovrebbe esprimere solo un OR, poiché il suo DNA è già ricombinato in maniera irreversibile. I risultati sono stati scioccanti, il topo che ne risulta è perfettamente sano e ha tutto l’apparato olfattivo intatto e funzionante come in un qualsiasi wild-type. Nonostante l’analisi di circa 100 kb a monte ed a valle del gene incriminato non c’è stata nessuna modifica genetica o epigenetica.
Basta un soffio ed il castello crolla
Certamente la ricombinazione è da scartare ma fino ad ora niente ha smentito la casualità della scelta del OR. Tuttavia un gruppo di ricerca ha recentemente messo in discussione anche questa ipotesi granitica.
L’idea di fondo è la seguente… Se è vero che la cellula sceglie casualmente un gene su circa 1.000, e di questo solo 1 allele, ne consegue che la scelta è di 1 sui 2.000 alleli disponibili. Se riuscissimo ad inattivare solo 1 di questi 2.000 alleli, ad esempio in modo tale che esprima irreversibilmente EGFP (tecnica Cre/loxP), potremmo rendere fluorescenti le cellule che hanno ‘cambiato idea’ per mancanza di feed-back e verificare quale altro gene sceglie dei 1.999 rimanenti.
Il risultato, ancora una volta, è assolutamente strabiliante. Il topo transgenico presenta una coespressione di EGFP solo con il suo allele funzionante corrispondente. In poche parole l’espressione di EGFP, come previsto, non dà feed-back positivo per cui la cellula cambia OR da esprimere; ma la seconda scelta non è per niente casuale, qualcosa guida la scelta sull’allele di ‘backup’ presente sul cromosoma fratello e non sugli altri 1.998 alleli rimanenti. Come potrebbe la cellula riconoscere in modo specifico l’altro allele se la scelta è basata solo sulla casualità? Qualcosa non quadra, ed in questo modo la casualità che ha retto la teoria stocastica fino ad ora è stata, almeno parzialmente, distrutta in un soffio.
L’olfatto che guida l’assone durante il lungo cammino
L’ultima domanda è ‘Cosa succede con il collegamento al cervello quando forziamo una cellula ORC ad esprimere un recettore specifico scelto da noi?’. Gli esperimenti mostrano che il collegamento cervello-recettore è perfetto, quindi ne consegue che il collegamento è basato solo sull’OR espresso.
Ma quando questa scelta cambia all’improvviso?
Per rispondere a questa domanda un gruppo di ricercatori ha tentato di cambiare il recettore scelto dalla cellula poco prima che questa riesca ad ‘agganciarsi’ al cervello (maturare), attraverso un gene OR esogeno ed inducibile.
In questo topo transgenico le ORC scelgono un recettore endogeno in un modo apparentemente casuale, e cominciano la propagazione dell’assone verso il cervello cercando la zona giusta per formare sinapsi. Durante questa fase si può innescare l’espressione del recettore transgenico con il conseguentemente spegnimento del recettore endogeno…
La cellula ancora immatura, come abbiamo visto, si ‘adatta’ al nuovo recettore, ma si aggancerà anche alla zona cerebrale giusta? La risposta è incredibilmente sì. il collegamento e la funzione del recettore è perfetto nonostante il cambio recettoriale durante la formazione dell’assone. Tuttavia, se si cerca di cambiare la scelta dell’OR espresso dopo la maturazione della ORC, si provoca una abberrazione che innesca apoptosi.
Come è possibile che un OR possa guidare la scelta della regione cerebrale giusta a cui ‘agganciarsi’ senza avere altri 1.000 geni deputati al riconoscimento dei diversi OR da parte del cervello?
Qualcuno ha suggerito un’ipotesi alquanto affascinante, secondo cui un OR si trovi alla testa dell’assone durante la fase di elongazione, guidandolo verso il corretto punto di aggancio al cervello come farebbe un cane da tartufo a portarci verso questo prezioso tubero in un intero bosco.
Teoria affascinante e stravagante, tuttavia ancora insoluta ed in cerca di qualcuno che la convalidi o la controbatta con esperimenti, o con ipotesi più semplici.
Conclusione
In questo lungo post abbiamo messo sul piatto tutto quello che è noto sull’olfatto senza uscirne fuori con una teoria solida in grado di spiegare tutti i dati sperimentali. Per chi fa ricerca questo risultato è il pane quotidiano poiché non si seguono mai strade battute, si cerca sempre di crearne nuove, con nuove ipotesi, nuove verifiche e nuove deduzioni che porteranno ad altre ipotesi che si spera siano migliori delle precedenti e più vicine alla verità.
Tutt’ora ci sono gruppi di ricerca che analizzano le seguenze di DNA dei recettori OR cercando qualcosa in comune; analisti in cerca di modifiche epigenetiche in questi clusters genomici; cacciatori di nuovi meccanismi cellulari; esperti di transgeni che tentano nuove e più affascinanti teorie, a volte anche bizzarre… e poi ci sono ricercatori che provano a dare un senso a questo puzzle di dati disarmonici. Il tutto per svelare un mistero che dura da tanti anni oramai.
Non vi è dubbio che ci sono persone che provano un certo fascino nel partecipare a questa continua caccia alla soluzione del problema strato dopo strato, tirando fuori teorie sempre più complesse ed affascinanti, ed a volte come in questo caso si tirano fuori addirittura nuovi meccanismi che si ignoravano fino a poco tempo fa.
Un in bocca al lupo a chi si addentrerà nel risolvere questo mistero anche solo per 5 minuti ed un grazie a Nico e Patrizio per l’incoraggiamento ed i consigli che mi hanno dato per la stesura di questo post.
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Percezione
10 agosto 2008 - 8:15 pm
Rieccoci qua dopo un po’ di tempo di “meditazione lavorativa”, spero di recuperare i post di Nico, poiché sto un po’ indietro.
Allora, per ricominciare vorrei trattare un argomento che ha anche un importante risvolto filosofico che spero possa interessare anche ai “non addetti ai lavori”. Dovete sapere che quando ho iniziato a scrivere l’argomento qui di seguito ho scritto talmente tanto che mi sono subito reso conto che potrebbe essere un po’ troppo lungo e barboso per essere digerito in una sola volta. Di conseguenza ho deciso di farne un argomento a brevi “puntate”, spero che questo sistema vi sarà gradito maggiormente.
Se vi sono commenti vi prego di farmene partecipe.
Buona lettura
Pasquale

Per introdurre questo lungo argomento definirò prima il termine “ischemia“. La parola deriva dal Greco ισχαιμία, ovvero isch (riduzione) ed haima (sangue) e sottintende un apporto di sangue insufficiente per soddisfare le richieste energetiche di un determinato distretto dell’organismo. Ovviamente, la mancanza di nutrienti e di ossigeno porta prima alla sofferenza cellulare e poi, se è prolungata, determina la morte dei tessuti circostanti. L’estensione, inteso come volume, e l’entità del danno, inteso come percentuale di cellule morte, dipendono dal tipo cellulare coinvolto e dalla differenza tra la richiesta energetica e l’energia effettivamente fornita.
Il termine ischemia è riferibile a qualsiasi zona dell’organismo; per cui si può parlare di ischemia cardiaca, renale, muscolare, cerebrale etc. Ognuno di questi organi ha caratteristiche diverse, e di conseguenza sono più o meno sensibili al danno ischemico.
Con il termine ictus (dal latino “colpo”) si intende specificamente l’ischemia che riguarda il cervello. Questa patologia è la prima causa di invalidità permanente e la terza causa di morte nei Paesi industrializzati. I recenti progressi medico-scientifici hanno portato a dei miglioramenti nella gestione dei pazienti ischemici come la diagnosi precoce, la trombolisi, la creazione di centri per lo stroke e la riabilitazione. Tuttavia, l’ictus oggi rappresenta ancora un problema medico senza un’efficace terapia. Stranamente, nonostante i numerosi studi sull’argomento in questione l’ischemia cerebrale è ancora una patologia con molti lati oscuri da chiarire.
L’ictus, infatti, presenta diverse caratteristiche anomale che lo contraddistinguano dagli altri tipi di ischemia. La caratteristica più evidente è che la morte dei neuroni non avviene quando c’è la carenza di carburante ed ossigeno, ma diverse ore fino a giorni dopo il ristabilirsi del normale flusso sanguigno. Si può affermare quindi che la morte neuronale non è causata direttamente della semplice mancanza di cibo ed ossigeno, ma per complessi meccanismi che sono scaturiti da questa mancanza. Questa caratteristica rende l’ischemia cerebrale una sezione medica di notevole interesse scientifico poiché è una patologia molto grave e diffusa, con un periodo di possibile intervento (finestra terapeutica) abbastanza ampia. Il tempo che intercorre tra l’ictus ed il raggiungimento del massimo danno cerebrale è abbastanza lungo per un tempestivo intervento farmacologico sul paziente. Purtroppo le attuali terapie mirano a fenomeni macroscopici come ripristinare il flusso sanguigno mediante agenti anticoagulanti che rompono il coagulo che ha occluso un’arteria. Queste terapie sono utili solo se sono effettuate entro 2-3 ore dall’inizio dei sintomi ed hanno scarsa efficacia. Secondo molti la “vera terapia” dovrebbe mirare a bloccare quei sistemi cellulari che portano una determinata cellula, apparentemente non sofferente, a morire dopo giorni dall’evento ischemico. Per questo motivo è in corso da tempo la caratterizzazione di questi complicati meccanismi cellulari per la ricerca di efficaci bersagli farmacologici che siano in grado fermare questo percorso neurodegenerativo ritardato. Sin dai primi risultati delle ricerche svolte è emerso che uno dei punti chiave della neurodegenearazione è lo ione calcio e la fine regolazione delle sue concentrazioni intracellulari ed extracellulari.
Il Calcio: la “Spada di Damocle” dell’ischemia

Il Calcio (Ca2+) è un componente essenziale per la vita; questo ione infatti oltre ad essere un componente fondamentale per le ossa, è usato anche come un importante segnale cellulare per innescare migliaia di processi fisiologici che vanno dalla contrazione cellulare, come nel caso delle cellule cardiache e muscolari, fino all’impulso nervoso di ogni singolo neurone del cervello.
Pensate che la concentrazione di calcio presente all’interno di una qualsiasi cellula del nostro organismo a riposo è estremamente bassa (50-100 nanoMolare), praticamente meno della concentrazione di calcio che si ha nella semplice acqua distillata! All’esterno delle cellule, invece, c’è una concentrazione di calcio di circa 10.000 volte superiore che è separata dall’interno delle cellule da un doppio strato lipidico sottilissimo. Questa differenza di concentrazione è fondamentale, poiché basta anche un lieve incremento dei livelli di calcio intracellulari per innescare in base al tipo di cellule interessate: l’apertura di canali, fusioni di vescicole, contrazioni cellulari, depolarizzazioni nervose, rilascio di neurotrasmettitori e/o ormoni. Una cellula neuronale, durante la sia attività, può passare per brevi istanti da concentrazioni di calcio di 50-100 nanoMolare fino a 1 milliMolare (1.000 volte di più) per poi ritornare ai livelli basali e prepararsi per essere stimolata nuovamente.
Potete immaginare che mantenere bassa la concentrazione di calcio all’interno delle cellule richiede molti sforzi energetici che consumano ATP, la molecola che conserva l’energia cellulare. Immaginate ora cosa può accadere quando manca il sangue in un determinato distretto del cervello; la mancanza di ossigeno e nutrimenti non consentirebbero alle cellule di produrre energia sottoforma di ATP e di conseguenza comincerebbero ad essere meno efficienti tutti i meccanismi che servono a mantenere basse le concentrazioni cellulari di Calcio. In definitiva, durante l’ischemia, i neuroni non riescono più a cacciare fuori il calcio che entra durante la propria attività, di conseguenza anche le funzioni fondamentali sono compromesse ed inizia la lunga agonia che porterà alla morte cellulare.
Il Calcio, quindi, è una spada di Damocle che pende su tutte le cellule che ne fanno uso; l’ingresso di calcio è fondamentale per attivare la maggior parte dei meccanismi cellulari, ma quando un neurone non c’è l’energia necessaria per estruderlo per ritornare nuovamente alle condizioni basali, le concentrazioni citoplasmatiche di questo ione aumentano e di conseguenza si innescano, in maniera incontrollabile, una serie di meccanismi non desiderati con un ulteriore dispendio energetico.
A complicare le cose c’è la fitta rete di contatti che i neuroni hanno tra di essi e con l’organismo. L’accumulo di calcio in un neurone provoca un’attivazione incontrollabile con il rilascio di neurotrasmettitori eccitatori verso altri neuroni, che a loro volta si attiveranno facendo entrare ioni calcio che non riusciranno ad estrudere. La reazione a catena potrebbe continuare all’infinito in tutto il cervello causando la generazione di scariche elettriche senza controllo che si propagano longitudinalmente rispetto il centro dell’infarto cerebrale (core ischemico) con liberazione di neurotrasmettitori e conseguenze che vedremo nelle prossime puntate.
Il calcio quindi è uno ione fondamentale per la vita perché è il centro di regolazione di funzioni cellulari importanti. Tuttavia proprio per questo motivo è anche uno ione molto pericoloso perché in condizioni patologiche, come l’ictus per l’appunto, può innescare l’autodistruzione cellulare. Un articolo pubblicato su Journal of Neuroscience descrive l’importanza di alcuni meccanismi; per chi è interessato
Durukan and Tatlisumak Pharmacology, Biochemistry and Behavior 87 (2007) 179-197.
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2 febbraio 2008 - 11:44 pm
Negli ultimi 20 anni la biologia molecolare ha fatto passi da gigante. Siamo arrivati ad un punto in cui parlare di DNA è cosa normale, tanto che uno si può far sequenziare il genoma ad un prezzo relativamente abbordabile, ci si può costruire il proprio batterio personale e chiunque ha la propria opinione sugli OGM (anche se magari non sa cosa siano…).
Anche le neuroscienze sono state colpite da questa ondata di novità, tanto che oramai è cosa assolutamente normale e quasi necessaria utilizzare animali transgenici per molti tipi di esperimenti.
C’è però un’area delle neuroscienze che forse non ha ricevuto questo grande successo di pubblico ed è l’imaging. L’imaging è un campo molto vasto, che non è solo ristretto alle neuroscienze e che comprende una serie di tecniche atte a visualizzare molti processi cellulari. Pur non essendo necessariamente ristretto alle neuroscienze, credo che negli ultimi anni molti dei maggiori progressi a riguardo siano stati fatti proprio in questo campo.
Penso che uno dei motivi per cui queste tecniche siano un po’ sconosciute a molti (o solo conosciute di nome) sia la difficoltà tecnica dei processi coinvolti. Molte di queste tecniche richiedono l’uso di un microscopio ma, mentre ci sono poche difficoltà a capire come funziona un microscopio tradizionale e magari uno a fluorescenza, quando si comincia a parlare di eccitazione a due fotoni, deflettori opto-acustici e amenità del genere generalmente si perde molto velocemente l’attenzione di chi non è del campo. Se è vero infatti che fare un esperimento di imaging non richiede generalmente particolari conoscenze tecniche, per riuscire ad ottimizzare ed usare al meglio queste tecniche è necessaria una conoscenza piuttosto ampia dei processi fisici sottostanti. Ebbene sì, la fisica quantistica è molto importante in questo caso ed è cosa piuttosto normale oramai trovare articoli di microscopia applicata alle neuroscienze che sembrano trattare di elettronica o fisica più che di biologia! Personalmente sono affascinato da tutte queste tecniche, e credo che nei prossimi anni con nuovi avanzamenti tecnologici si riusciranno a fare cose ancora più incredibili di quanto si riesca a fare ora.
Tanto per farvi un paio di esempi, è oggigiorno facilmente possibile usare l’imaging per misurare il livello di ioni (come calcio, cloro, magnesio e zinco) all’interno di una cellula, all’interno di singoli compartimenti della cellula o addirittura visualizzare l’apertura di un singolo canale ionico. E’ possibile “visualizzare” l’attività elettrica di un neurone senza usare elettrodi, usando particolari coloranti sensibili al voltaggio. E’ possibile visualizzare singole molecole e vedere come si muovono all’interno di una cellula. E’ inoltre possibile visualizzare la crescita e plasticità dei neuroni al passare del tempo, come dicevo in precedenza… e potrei andare avanti per pagine e pagine!
Tutte queste cose sono relativamente facili su sistemi in vitro (es. cellule in coltura), tuttavia è ora possibile applicarne alcune su animali anestetizzati o addirittura svegli, ed è quindi possibile osservare questi processi cellulari in funzione durante determinate attività.
Insomma le possibilità sono tantissime e veramente affascinanti, e credo che nei prossimi anni ci sarà veramente un boom di nuove tecniche in questo campo… dobbiamo solo aspettare e vedere!
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11 gennaio 2008 - 5:28 am
Tornato da una necessaria pausa, riprendo a scrivere parlando un po’ di splicing (e ovviamente faccio gli auguri di buon anno a tutti!).
Devo ammettere che i dettagli dei fenomeni di splicing esulano un po’ dalla mia confort zone, tuttavia ho deciso di scrivere questo post dopo aver letto questo interessante articolo pubblicato su PLoS Biology.
Exon Silencing by UAGG Motifs in Response to Neuronal Excitation – An P, Grabowski J
(ne approfitto per ricordare a tutti che tutti i giornali pubblicati da PLoS sono ad accesso completamente gratuito, e permettono di leggere articoli peer-reviewed di qualità molto alta senza dover pagare alcun abbonamento).
La maggior parte dei geni del nostro organismo possono generare diversi mRNA grazie al processo dello splicing alternativo, per cui lo stesso mRNA precursore viene tagliato in modo diverso da un complesso riboproteico (cioè formato da RNA e proteine) chiamato, con poca fantasia, spliceosoma. In questo modo dallo stesso gene si possono generare diversi mRNA e quindi diverse proteine che possono avere funzioni simili o essere usate per processi completamente diversi. Il cervello non fa certo eccezione, e anche a livello neuronale lo splicing alternativo gioca un ruolo molto importante.
L’articolo in questione è centrato sullo studio dello splicing alternativo del recettore NMDA, un recettore-canale che, in risposta al legame con uno dei principali neurotrasmettitori nel cervello, il glutammato, permette il passaggio di ioni Ca++. Moltissimi gruppi hanno studiato il recettore NMDA, dimostrando come esso sia implicato in moltissimi importanti processi cellulari; tanto per fare un esempio, esso è importante per l’apprendimento, la memoria ed in generale i fenomeni di plasticità neuronale. Lo splicing alternativo di questo recettore riguarda l’inclusione/esclusione dell’esone 21, chiamato anche esone CI della subunità NR1. Questo esone è importante per la localizzazione del recettore in membrana e quindi il controllo del processo di splicing deve essere strettamente regolato.
Gli autori dell’articolo iniziano mostrando che stimolando delle colture primarie di neuroni con KCl, che provoca una depolarizzazione e quindi un eccitamento elettrico di queste cellule, si può modulare lo splicing di questo mRNA.
Insomma, se normalmente c’è l’80% di una forma e il 20% dell’altra, stimolando le cellule si può arrivare ad avere 50% e 50%. Il fenomeno è reversibile eliminando il KCl e lasciando “riposare” le cellule per 24 ore. Questo fenomeno è specifico per i neuroni e, ad esempio, non avviene nelle cellule gliali presenti nelle stesse colture, oltre ad essere specifico solo per alcuni geni.
L’articolo prosegue con ingegnosi esperimenti di biologia molecolare per trovare quale siano le esatte sequenze che mediano l’effetto. Una volta determinate queste sequenze gli autori sono anche stati in grado di “trapiantarle” in un altro gene il cui splicing non viene normalmente modificato dall’eccitazione neuronale e mostrare che esso diventa sensibile al KCl.
Seguono poi vari studi farmacologici che essenzialmente tentano di spiegare il pathway biochimico sottostante a questo processo. Quello che hanno scoperto è che il processo è modulato dallo stesso recettore NMDA che quindi va a controllare il suo stesso splicing.
Questa ipotesi è ben supportata da molta altra letteratura e vari modelli secondo cui un neurone può rispondere ad una sovraeccitazione cronica diminuendo la sua potenza sinaptica, ovvero la sua capacità di ricevere inputs da altri neuroni. Insomma, il neurone viene stimolato eccessivamente e risponde diminuendo la sua responsività a tali stimoli.
Questo può essere visto come un sistema di protezione per le cellule da un’eccessiva stimolazione che, come è noto, può risultare in severi danni.
Il lavoro contiene molti altri interessanti esperimenti su cui non mi dilungherò, ma invito chiunque sia appassionato di biologia molecolare a spendere un po’ di tempo e leggere questo articolo, sicuramente lo troverete molto interessante!
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7 gennaio 2008 - 3:20 pm
Uno dei motivi per cui leggo spesso le riviste con altissimo impact factor è la speranza di trovare un articolo davvero rivoluzionario che possa chiarire un determiato meccanismo oppure possa aprire la strada verso nuove prospettive, oltre che per aggiornarmi sulle recenti scoperte. Purtroppo devo dire che le riviste scientifiche più importanti alla fine non pubblicano sempre cose drasticamente innovative o chiarificatrici, anzi a volte le riviste un po’ più modeste contengono articoli con informazioni molto più convincenti e serie rispetto a Nature, Cell, Neuron etc.
In una di queste letture, mi è capitato di leggere qualcosa su Cell che, a mio avviso, è veramente incredibile, oltre che curioso. L’articolo in questione tratta di un canale del calcio voltaggio dipendente (Cav1.2) che ha anche un secondo ruolo funzionale del tutto diverso ed imprevedibile da quello che ci si aspetterebbe da un semplice canale.
Prima di entrare nel merito bisognerebbe introdurre il concetto di canale voltaggio dipendente oramai acquisito da tanti anni nel campo delle neuroscienze ma che per i non addetti ai lavori potrebbe sembrare fuorviante.
Diciamo che almeno qualche migliaio dei circa 30.000 geni umani codificano per proteine di membrana che possono formare dei canali idrofilici attraverso cui, in particolari condizioni, possono passare degli ioni. Il motivo per cui esistono tante proteine non è dovuto alla presenza tanti tipi di ioni da far passare, ma dalla fine regolazione a cui questi canali devono rispondere. La quasi totalità di questi canali ionici sono sempre chiusi, ma possono aprirsi in determinate condizioni secondo una cinetica caratteristica che è dipendente dai componenti da cui è formato.
Alcuni canali possono aprirsi solamente in seguito al legame di un neurotrasmettitore sulla regione esterna, o interna, del complesso proteico (Recettori canale), come avvine per il recettore nicotinico che fa entrare sodio all’interno della cellula in seguito al legame dell’acetilcolina con la parte esterna del recettore; la cinetica di apertura/chiusura o l’affinità con l’agonista recettoriale dipende dai componenti del canale stesso. Ovviamente l’ingresso di sodio che ne scaturisce provoca a sua volta l’attivazione di una serie di altri meccanismi a cascata come le tessere del domino che portano all’attivazione di altri effettori. Altri canali possono invece aprirsi in seguito al cambiamento delle condizioni cellulari, variazione di pH (es ASICs), di concentrazioni ioniche (es Connessine) oppure del potenziale di membrana (es canali voltaggio dipendenti).
Ogni tipo cellulare possiede il proprio corredo di recettori canale, canali voltaggio dipendenti, canali passivi e trasportatori; l’insieme di tali complessi proteici con caratteristiche finemente diverse tra loro determina delle differenze macroscopiche e microscopiche nella reattività cellulare, forma del potenziale d’azione, velocità di risposta ad uno stimolo, eccitabilità di membrana, potenziale di membrana a riposo, picco di depolarizzazione e tantissime altre variabili che fanno di un neurone un sottotipo cellulare unico. Non entro nel dettaglio di quanti canali del calcio voltaggio dipendenti esistono, dico solo che sono identificate in varie classi con la sigla Cav seguita da un numero che identifica la classe seguito da un punto e poi un altro numero che identifica il sottotipo. Tutti questi canali regolano direttamente o indirettamente tante funzioni neuronali, come la memoria, il dolore, l’eccitabilità, la fertilità e la sensibilità a determinati danni patologici. Tuttavia è noto anche che questi canali ionici possono avere anche una funzione nella regolazione della trascrizione genica, poiché molti fattori trascrizionali sono regolati dalle concentrazioni di determinati ioni come ad esempio il calcio. Questa è stata sempre una teoria debole, poiché indubbiamente ci sono dei casi in cui l’effetto sulla trascrizione genica può essere drasticamente diverso se si trasfettano in cellule dei canali composti da subunità diverse. Insomma se è l’ingresso di ioni calcio a determinare l’attivazione di alcuni fattori trascrizionali allora l’effetto dovrebbe essere uguale per qualsiasi canale che fa entrare calcio, soprattutto se 4 subunità su 5 sono identiche e le caratteristiche cinetiche di ingresso e uscita del calcio sono praticamente le stesse.
Tuttavia questo non avviene sempre, come ho già accennato, l’effetto può essere drasticamente diverso, tale che alcuni canali ionici possono determinare il differenziamento neuronale in alcune cellule, mentre altri canali possono determinare l’espressione di proteine del metabolismo o neurotrasmettitori in maniera non chiara.
Una spiegazione che, secondo me, ha aperto la strada e gli occhi a molti ricercatori scientifici risiede nell’articolo di cui parlavo all’inizio di questa disquisizione, pubblicato su un numero di Cell dell’anno scorso dalla dott.sa Gomez-Ospina dell’università di Stenford. Il canale del calcio voltaggio dipendente (Cav1.2) possiede nel dominio C-terminale una sequenza peptidica che, se tagliata, è di fatto un fattore trascrizionale a tutti gli effetti e modula un cospicuo gruppo di geni endogeni importanti per la neurotrasmissione e per l’eccitabilità neuronale.
Il fattore trascrizionale in questione è stato definito Fattore Trascrizionale Associato al Canale del Calcio (CCAT) e si origina mediante la proteolisi di Cav1.2. Appena liberato, questo fattore trascrizionale si localizza nel nucleo dei soli neuroni grazie a meccanismi non ancora ben chiari e lì lega proteine nucleari e sequenze specifiche di DNA attivando la trascrizione dei geni target.
La cosa curiosa è che CCAT a sua volta è regolato dalle concentrazioni di calcio e dalla presenza di altri fattori trascrizionali che variano durante lo sviluppo, quindi il suo funzionamento è regolato da diverse variabili. L’effetto finale che ha il canale Cav1.2 quindi non è semplicemente variare la concentrazione di calcio ma regolare direttamente la trascrizione di geni target.
Bhé in definitiva questo articolo ci racconta come a volte le teorie che vengono formulate e che leggiamo di continuo non siano altro che un velo oltre il quale si nascondono dei meccanismi, come in questo caso, inimmaginabili e forse anche al limite della credibilità secondo le attuali conoscenze molecolari.
Forse non tutti i meccanismi sono di questo tipo e così semplici da spiegare, ma possiamo essere certi che c’è ancora tanto da scoprire dietro le nostre attuali teorie.
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20 novembre 2007 - 9:49 pm
Immaginate di voler capire come funziona un apparecchio elettronico:
lo aprite e ciò che vedete è un ammasso di cavi che vanno da ogni parte… una cosa che potreste fare per cominciare è disegnare una mappa dei fili, segnandovi da dove partono e dove arrivano. Certo, non sarebbe la soluzione finale al vostro problema, ma potrebbe essere un buon punto di partenza.
Studiando il cervello ci si trova spesso di fronte ad un problema simile, ma molto più complesso: un cervello umano contiene approssimativamente 100 miliardi di neuroni di molti diversi tipi e si stima che ciascuno di essi abbia collegamenti (sinapsi) in media con altri 7000 neuroni. Una delle sfide più grandi è quindi capire come questi neuroni siano collegati tra di loro, in modo da poter creare una mappa delle connessioni del cervello.
Un enorme passo avanti in questo senso è stato annunciato in un recente studio apparso sull’ultimo numero di Nature da parte di Jean Livet e colleghi al Dipartimento di Biologia Molecolare e Cellulare dell’Università di Harvard (e con uno studio del genere non c’è da sorprendersi che abbiano avuto l’immagine di copertina…).
L’articolo riporta la generazione di varie linee di topi transgenici chiamati “Brainbow”, nome derivato dall’unione di brain (=cervello) e rainbow (=arcobaleno). I neuroni dei topi Brainbow, infatti, emettono fluorescenza in 100-150 colori differenti! Ciò è possibile grazie all’espressione nei neuroni di questi topi di diverse proteine fluorescenti: GFP (verde), YFP (gialla), CFP (azzurro), OFP (arancio) e RFP (rossa). Queste proteine vengono fatte esprimere in modo casuale ed a diversi livelli nei diversi neuroni per generare i diversi colori.
Topi ed altri animali le cui cellule esprimono proteine fluorescenti non sono certo una novità, negli ultimi 10-15 anni si è visto un aumento esponenziale del loro numero. La novità di questo studio è il fatto di avere un così grande numero di colori diversi che permette di seguire facilmente il percorso di un neurone, capire da dove parte e dove arriva e con quali altri neuroni viene a contatto. Sarà infatti probabile che neuroni vicini tra di loro abbiano diverso colore, rendendo così più “semplice” la mappatura delle varie connessioni.
L’articolo mostra anche esempi pratici d’uso di Brainbow come la ricostruzione in 3D di alcuni network cellulari nel cervelletto ed uno studio dell’interazione neuroni-glia.
Per chi fosse interessato all’aspetto più tecnico: il trucco sta nell’utilizzo di un transgene contenente le diverse XFP messe in sequenza in modo tale che solo la prima proteina possa essere tradotta. Le varie XFP sono messe all’interno di siti lox incompatibili tra loro (loxP, lox2272 e loxN) e mutualmente esclusivi; questo in pratica vuol dire che se Cre excide il DNA all’interno di una coppia di questi siti, gli altri non sono più funzionali. Il taglio può avvenire con la stessa probabilità a ciascun sito, portando così all’espressione di una diversa XFP in neuroni diversi. Aggiungete il fatto che diverse copie del transgene possono essere inserite in tandem (una delle linee riportate nell’articolo ha 8 copie del transgene) ed eccovi tutta la variabilità di espressione necessaria per ottenere 100 o più colori diversi!
Una domanda mi sorge però spontanea: supponendo di arrivare ad avere una mappa completa delle connessioni cerebrali, non credete ci troveremo poi in una situazione di stallo su come analizzare la inimmaginabilmente immensa quantità di dati che deriverebbe da questo studio? E come memorizzare questa enorme quantità di dati in un modo accessibile e funzionale?
Ad ogni modo, per ora la cosa migliore da fare è godersi un paio delle fantastiche immagini dei neuroni Brainbow!
E per chi volesse, ecco il link all’articolo (è necessaria una subscription a Nature per vedere il full-text):
Transgenic strategies for combinatorial expression of fluorescent proteins in the nervous system – Nature, 2007

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