Uno sguardo ai meccanismi della mente

Inside Neuroscience

28 giugno 2010 - 7:28 pm

Il Coma (I Parte): Il Limbo della Coscienza

Preambolo

Un po’ di tempo fa mi é capitato di discutere con una persona dell’etica medica riguardo la donazione degli organi dei pazienti in coma. In particolare c’erano forti dubbi sul perché alcuni medici stacchino subito la spina per l’espianto degli organi, mentre in altri casi attendano anni. In seguito a questa discussione mi sono accorto ben presto che la maggioranza delle persone non ha una chiara idea di cosa sia effettivamente un coma e quando sia possibile espiantare gli organi. Non entro nel merito delle ragioni, ma credo che per avere una qualsiasi legittima opinione bisogna quantomeno essere certi di conoscere bene l’argomento. Tralasciando i pareri personali che sono propri ed inoppugnabili, ecco quanto segue in termini più o meno tecnici e divulgativi. A voi farvene una opinione.

Definizioni

Come avrete sicuramente intuito, oggi parleremo di un argomento piuttosto difficile, portato alla più ampia diffusione da un evento di cronaca. La parola d’ordine di questo post sarà ‘coma, dal greco κῶμα (koma, sonno profondo), che si definisce semplicemente come un profondo stato di incoscienza simile al sonno che però non è suscettibile di risveglio. Da questa parola deriva poi lo stato comatoso che si definisce come un’apparente condizione simil-dormiente in cui l’individuo non è in grado di rispondere agli stimoli esterni.

Le definizioni sono alquanto generiche perché comprendono vari stadi di gravità (profondità del coma) e dobbiamo definire ulteriori limiti per capire meglio.

Cosa NON è il Coma

Ci sono 5 casi che rispondono apparentemente allo stato comatoso ma non sono tali:

  1. Il sonno non è coma poiché lo stato di incoscienza è solo parziale e facilmente reversibile con un rumore, con il tatto o con un’abitudine.
  2. La morte che appare come la suddetta definizione, ma é una situazione evidentemente diversa.
  3. La sindrome locked-in, in cui i muscoli volontari dell’individuo sono completamente paralizzati, e non c’é possibilità di interagire con l’ambiente. Il paziente è pienamente cosciente di sé, sveglio e vigile, ma letteralmente immobile.
  4. Lo stato vegetativo, dove il paziente appare sveglio, ma non risponde agli stimoli esterni. Le funzioni di base come la respirazione, il ciclo biologico di sonno veglia restano intatte. Raramente possono anche afferrare degli oggetti in maniera istintiva.
  5. Lo stato stuporoso, un effetto transiente simile allo stato vegetativo, dovuto generalmente ad uno shock. Può essere facilmente interrotto o revertito mediante stimoli che attivino meccanismi istintivi ed irrazionali (es. pizzicotto).

Cosa è il Coma

Una volta definito cosa non è il coma, ora passiamo a capire meglio quale condizione possa essere definita tale.

Nel coma abbiamo una scissione della coscienza dal mondo esterno in maniera simile ad un’anestesia generale. Il meccanismo esatto che spegne i canali di comunicazione tra alcune zone del cervello, e che causa lo stato comatoso, è tutt’ora ignoto; si sa solo che è implicato il danneggiamento o l’inibizione della regione reticolare del romboencefalo. Questa zona del cervello, tra le altre cose, partecipa al ciclo sonno-veglia ed indirettamente partecipa allo ‘spegnimento’ della coscienza durante il sonno. Forse é per questo meccanismo condiviso che nel coma il cervello può percepire incoscientemente il mondo esterno in maniera simile a quanto avviene durante il sonno. Tuttavia, la differenza più significativa tra un paziente che dorme ed uno in coma è che quest’ultimo potrebbe subire un’operazione chirurgica senza rendersene conto e soprattutto senza svegliarsi.

C’é coma e coma

Non tutti i coma sono identici così come non sono simili le cause scatenanti. La metodica più elementare per valutare la ‘profondità’ del coma è la Scala di Glasgow (GCS) che si basa sulla risposta agli stimoli oculari, verbali e motori. Ad ognuno di questi viene assegnato un punteggio la cui somma costituisce l’indice GCS. L’indice può andare da 3 (coma profondo) a 15 (paziente sveglio e cosciente).

Un paziente in coma può ripetutamente svegliarsi, guardare intorno, afferrare qualcosa, magari farfugliare qualche parola e persino muoversi, senza però potersi definire fuori dal coma. C’é da dire, però, che tutti questi sintomi non sono innescati da eventi esterni come ad esempio un rumore, la vista di un oggetto etc, e neppure da un apparente ciclo spontaneo. Ogni condizione fisiologica guidata dall’encefalo é soggetto a stimoli apparentemente casuali ed imprevedibili, persino la respirazione in queste persone è soggetto a discontinuità. E’ da sottolineare che l’individuo è vivo, ha una coscienza, la sua memoria e tutto quanto sia parte della sua personalità resta intatta; c’è solo un problema nel ‘svegliarlo’ o comunque collegare la sua coscienza con gli stimoli esterni.

Cosa succede ‘dopo’?

Una volta inquadrata la patologia per schemi intuitivi ed in maniera molto generale ora vediamo cosa può portare al coma e cosa avviene dopo.

Tra le cause più comuni che possono portare al coma ci sono le intossicazioni (stupefacenti, alcool, tossine etc), le alterazioni del metabolismo (ipoglicemia, iperglicemia, chetoacidosi) o danni e malattie del sistema nervoso centrale (ictus, traumi cranici, ipossia, edema etc). L’induzione in coma, specie se traumatico, può portare direttamente alla morte nella fase acuta, oppure può seguire due vie più o meno lunghe:

  1. recupero della coscienza con un ritorno parziale o totale alla normale vita quotidiana
  2. evolvere nello stato vegetativo.

Tranne per il coma post-traumatico e quello indotto farmacologicamente, lo stato comatoso raramente persiste per più di 4 settimane, e per lo più il ripristino delle normali facoltà mentali è spontaneo. Se ne deduce che il risveglio è molto probabile nelle prime 4 settimane, anche se il recupero può non essere totale. Quando il coma supera abbondantemente le 4 settimane si definisce ‘coma persistente’ poiché è noto che le probabilità di risveglio spontaneo diventano molto scarse, anche se non impossibili. La maggioranza delle persone ‘miracolosamente’ uscite dal coma, infatti, appartengono a questo gruppo.

Ad ogni modo dobbiamo sottolineare che un paziente in coma NON è morto e quindi non è possibile effettuare alcun espianto di organi. Il risveglio, seppur estremamente improbabile, è ancora possibile come anche il ritorno ad una vita ‘normale’.

Lo stato vegetativo

Purtroppo l’alternativa più frequente al ritorno ad una vita normale dal coma è l’evoluzione allo stato vegetativo. Questa complessa situazione, già definita prima in maniera intuitiva, é facilmente distinguibile dal coma stesso. Nello stato vegetativo, infatti, le funzioni biologiche tornano ad una ‘apparentemente normalità’, l’individuo mostra uno spontaneo ciclo di sonno veglia, può osservare degli oggetti intorno, ed in alcuni casi può camminare, piangere, ridere ed altro. Raramente ci possono essere delle condizioni esterne che possono alterare queste funzioni biologiche.

Alcuni definiscono questi pazienti come dei gusci vuoti senza volontà e senza sentimenti. In alcuni casi questo corrisponde ad una obiettiva realtà, come ad esempio nelle persone che hanno subito un grave danneggiamento cerebrale delle funzioni superiori. Tuttavia ciò non é vero per tutti gli altri pazienti.

Anche in questo caso il ritorno miracoloso ad una vita ‘normale’ dopo lo stato vegetativo è relativamente raro ma non impossibile. Chi è affascinato dalla ricerca e dalla filmografia potrebbe vedere il film “Risvegli” con Robin Williams e Robert De Niro, basato su fatti realmente accaduti, che esplicano bene il risveglio di un gruppo di persone da uno stato vegetativo a cui erano state tolte tutte le speranze da tantissimi anni. Purtroppo ancora oggi non abbiamo ancora trovato un metodo efficace ed universale per sbloccare il corto circuito cerebrale che avviene in questi pazienti, ma c’é sempre la speranza di ritrovare un metodo in futuro.

C’é da dire che l’espianto di organi equivale ad uccidere il paziente o ad una eutanasia, secondo il vostro punto di vista, per cui il medico é impossibilitato a ‘staccare la spina’ per espiantare gli organi.

Conclusioni

In questo breve post introduttivo abbiamo definito il coma per via intuitiva ed esaminato alcune condizioni tratte dall’esperienza senza entrare nel merito dell’etica. Abbiamo visto anche che l’espianto di organi di questi pazienti è alquanto discutibile poiché non sono ancora morti e in opportune condizioni potrebbero essere recuperati.

Nel prossimo post, invece, vedremo quali sono le condizioni che la medicina considera opportune per l’espianto degli organi.

Tags: coma, Ictus, Percezione, stato comatoso, stato vegetativo
16 aprile 2010 - 2:37 pm

Memento

Preambolo

Oggi vi scrivo, ahimè, dal letto poiché ammalato. Con tanto tempo a disposizione e poco altro da fare ho scritto un nuovo post, spero per voi, interessante. Oggi parleremo della memoria e dei suoi aspetti più curiosi. La parola chiave di oggi è ‘Memento’, un termine latino ed inglese che significa “ricordati” e che tra l’altro è anche un titolo di un film utile da commentare.

Memento

Il film Memento, diretto da Christopher Nolan nel 2000, parla di un ragazzo di nome Leonard Shelby impegnato nel vendicarsi di alcuni criminali che violentarono ed uccisero la moglie durante una rapina andata male. Tentando di salvare la moglie dai due malviventi, Leonard rimane gravemente ferito alla testa, e  tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi (‘amnesia anterograda’). Leonard ricorda proprio tutto quello che è successo poco prima dell’incidente, ma è incapace di fissare nuovi ricordi. Per immedesimarsi meglio nel protagonista, il montaggio del film replica proprio il suo punto di vista. In pratica il film procede su due binari: le scene si susseguono alternativamente dall’ultima in ordine cronologico, poi alla prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. In questo modo lo spettatore insieme al protagonista vive il momento sospeso nel tempo e senza poterlo inquadrare in un contesto cronologico. L’intreccio, montato lungo tutto il film, verrà sciolto solo alla fine con una scena chiave. Consiglierei la visione di questo film agli appassionati di puzzle, ed a quelli che hanno un’ottima memoria.

Henry Gustav Molaison

Tra le altre cose il protagonista del film ricorda dettagliatamente la storia di un certo Sammy che ha avuto il suo stesso problema di memoria. I frammenti di questa storia nella storia sono sparsi lungo tutto il film, ed è volutamente confusa da molte scene di pochi secondi che insinuano dubbi e perplessità nello spettatore.

Una cosa molto curiosa è che la storia di Sammy narrata dal protagonista nel film è ispirata da un fatto vero e che ha fatto molto eco nel campo delle neuroscienze. Si tratta di Henry Gustav Molaison, sicuramente uno dei più grandi contributori nel campo delle neuroscienze. Come avete capito, non si tratta di un grande ricercatore e neanche di un coraggioso eroe, bensì si tratta di una persona davvero molto sfortunata, che suo malgrado ha rivoluzionato il campo nelle neuroscienze degli ultimi 50 anni. La sua storia e la sua patologia è stata studiata dettagliatamente da neurologi, psichiatri e da tanti studenti di medicina per tantissimi anni. Per capirne l’importanza basta dire che su di lui ci sono centinaia di pubblicazioni su importanti riviste scientifiche internazionali che vanno dagli anni ’50 fino a pochi anni fa. Henry è stato definito da tutti il più importante paziente nella storia delle neuroscienze. Lo stesso prof. Eric Kandel, uno dei più grandi neuroscienziati moderni, definì lo studio di Brenda Milner sul paziente H. M. come una pietra miliare nella storia delle neuroscienze moderne per capire la memoria umana e le patologie ad esse correlate.

Andiamo con ordine

La storia di Henry, noto alla ricerca come paziente H.M., incomincia nel 1935 all’età di 9 anni con un incidente ciclistico che gli procurerà delle pericolose crisi epilettiche. All’età di 27 anni è costretto ad una operazione chirurgica per ridurre le crisi epilettiche e gli svenimenti che avrebbero potuto portarlo alla morte. C’è da dire che a quel tempo non c’erano ancora dei farmaci per trattare efficacemente le crisi epilettiche e tanto meno si conoscevano le dettagliate funzioni cerebrali. A quel tempo il campo delle neuroscienze era molto rudimentale, anche se in piena crescita esponenziale. Fu il chirurgo William Scoville, dell’Hartford Hospital a rimuovere parte dei lobi temporali mediali per tentare di curarlo. In seguito all’operazione Henry perse, oltre ad una parte dei lobi temporali mediali, circa due terzi dell’ippocampo, il giro paraippocampale e l’amigdala.

Il risultato dell’operazione fu un successo dal punto di vista delle crisi epilettiche ma i 2 cm di ippocampo che rimasero si atrofizzarono velocemente a causa dell’interruzione di alcune vie nervose della corteccia entorinale. Al risveglio dall’operazione ci si rese subito conto dei nuovi problemi che Henry aveva acquisito.

Da quel 1 Settembre 1953 la sua memoria si fermò e si aprì davanti a lui un lungo ed inconsapevole calvario tra tanti medici e ricercatori che se lo contesero per anni. Henry, a distanza di decine di anni ricordava perfettamente tutta la sua storia fino all’operazione chirurgica, ricordava tutti i dettagli della sua famiglia, dei suoi problemi e della sua storia, ma era incapace di riconoscere i medici e gli amici che sono stati accanto a lui per i successivi 55 anni dopo l’incidente. Ha partecipato, senza ricordarsene, a centinaia di studi ed ha aiutato a capire tantissime caratteristiche della memoria fino ad allora del tutto inattese.

Per inquadrare meglio il periodo storico, bisogna considerare che agli inizi del 1900 il campo delle neuroscienze era pura alchimia, non c’erano colture in vitro di neuroni, niente TAC, niente NMR, niente PET etc… Non c’era modo di guardare dentro il cervello di una persona viva e tanto meno potevano essere prevedibili gli effetti di contusioni ed operazioni chirurgiche alla testa. A quel tempo, mentre Freud sviluppò la contestata psicoanalisi, i neurologi si affacciavano all’immensità del campo delle neuroscienze.

La memoria

La teoria che andava per la maggiore all’inizio del secolo scorso era che la memoria fosse un’entità unica distribuita in modo uniforme in tutto il cervello, per cui si pensava che un trauma cerebrale poteva intaccare una determinata zona del cervello rendendo inaccessibile una parte della memoria passata. Da questo si poteva anche dedurre che eliminando una parte dell’encefalo si poteva rimuovere parte dei ricordi passati senza intaccare la funzionalità della memoria stessa. Non ci si deve meravigliare, quindi, se all’inizio il caso clinico di Henry fu accesamente discusso da chi pensava che fosse l’incidente traumatico che causò l’epilessia a condizionare il suo cervello oppure ad errori post-operatori. Tutti i test proposti e poi svolti su Henry dimostrarono che il paziente aveva una memoria pienamente intatta e funzionante in ogni aspetto fino al giorno dell’incidente per cui non è stata rimossa o resa inaccessibile la zona in cui la memoria vi è contenuta. Il problema mnemonico riguardava solo il meccanismo che fissa i nuovi ricordi.

La complessità della memoria

Presto i ricercatori però si accorsero che il problema era molto più complesso di quanto si pensasse, sebbene il paziente non ricordava alcunché di quello che aveva fatto, era in grado di imparare nuove cose. Si sapeva, infatti che Henry andava in bicicletta quando era ragazzo e la sua memoria aveva fissato il meccanismo prima dell’incidente, quindi era normale che riuscisse a farlo anche dopo. Tuttavia alcuni medici sapevano anche che Henry non aveva mai visto il mare e tanto meno sapeva nuotare. I medici provarono ad insegnarglielo e con grande sorpresa notarono che riusciva ad imparare la nuova tecnica. Ogni giorno Henry si stupiva nel vedere una piscina per la prima volta, e sorprendentemente scopriva anche di saper già nuotare. Lo stesso succedeva per esercizi di abilità.

I risultati dimostravano chiaramente che la memoria poteva essere divisa grossolanamente in memoria a breve termine ed a lungo termine, con meccanismi indipendenti. Tuttavia, l’altra scoperta ancora più interessante é che esiste anche una ulteriore suddivisione della memoria in procedurale e cognitiva.

Le sorprese non finiscono qui, poiché mentre il mondo si chiedeva quale fosse il limite tra la memoria breve termine quella a lungo termine, e poi cercava di dare una definizione alla memoria procedurale, alcuni ricercatori scoprirono che Henry era in grado di disegnare una piantina topografica della sua abitazione. Sicuramente fu una nuova scoperta sensazionale, poiché Henry non è mai stato in quella casa prima dell’incidente. Fu coniata così anche un altro tipo di memoria, detta spaziale, che interagisce con le altre tipologie di memoria pur rimanendone separata.

Se pensate che le suddivisioni della memoria finiscano qui siete ben lontani dalla realtà, proprio pochi anni fa sono state definite 2 nuove sottocategorie. E’ stato identificato un paziente, definito C.L., che soffre di una selettiva amnesia anterograda. Il paziente C.L. è in grado di avere una discreta capacità di acquisire nuove semplici informazioni oggettive. La cosa incredibile è che la sua capacità di fissare i ricordi correlabili con il tempo o con lo spazio è praticamente nulla. Nel giro di diversi mesi, infatti, i ricercatori sono stati in grado di insegnargli nuove parole ed aumentare le sue informazioni di cultura generale, però il paziente non è riuscito a manifestare alcun progresso nel ricordare dove fosse stato e cosa fosse successo pochi minuti prima. I ricercatori hanno definito così una memoria episodica, correlata con il tempo, ed una memoria semantica, correlata con semplici informazioni indipendenti dal contesto temporale. Ancora oggi si discute sull’esistenza reale di queste sottocategorie ed i limiti per definirle.

Purtroppo è improbabile trovare un modello animale in cui studiare la memoria a questi livelli di categorizzazione, attualmente le uniche possibilità per capire queste effimere differenze sono limitate dalla scoperta di pazienti affetti da forme di particolari di amnesia e da esperti ricercatori che riescano ad identificarle. È ipotizzabile quindi che le ulteriori suddivisioni e categorizzazioni della memoria sono solo all’inizio del loro percorso,

Riprodurre il fenomeno?

Si può riprodurre l’amnesia anterograda? E’ noto che alcuni farmaci e l’intossicazione da alcool possono riprodurre l’amnesia anterograda in maniera transitoria, ma non danno un’idea chiara del meccanismo molecolare su cui si basa. Oggi si sa che i circuiti neuronali presenti nei lobi temporali mediali sono coinvolti in questa patologia, ma si sa anche che si può ottenere lo stesso deficit mediante il danneggiamento selettivo di altre aree cerebrali. C’è da aggiungere che l’interruzione dei circuiti cerebrali dei lobi temporali non causano sempre dei danni alla memoria anterograda, quindi si tratta di una condizione non necessaria e neanche sufficiente. In definitiva, nonostante gli innumerevoli studi sui circuiti di queste regioni cerebrali, il processo di memorizzazione e di recupero della memoria rimane un grande mistero. Ancora oggi, i neuropsicologi e gli scienziati discutono su quale sia il deficit responsabile dell’amnesia anterograda. Sono state poste diverse teorie: difficoltà nella codifica delle nuove informazioni per la memoria, accelerazione dell’eliminazione dei ricordi appena acquisiti, oppure mancato accesso ai ricordi recenti.

La morte

Il martedì sera del 2 dicembre 2008, Henry Gustav Molaison si spegne in una clinica quasi dimenticato nonostante il suo incredibile contributo alla medicina ed alla civiltà mondiale. Le persone a lui vicine per ricerca o per la cura ricordano Henry come la persona più gentile, paziente, e di buona volontà che avessero mai incontrato. Era sempre sorprendente quando più volte al giorno si presentasse a persone a lui vicine da più di mezzo secolo, e quando raccontava del suo presente, in cui Truman era il presidente degli USA e la televisione era una ancora una nuova invenzione.

La dottoressa Corkin, che gli é stato vicino fino agli ultimi momenti definendolo un membro della sua famiglia, ha scritto un libro intitolato “una vita senza memoria” (“A Lifetime Without Memory.” “You’d think it would be impossible to have a relationship with someone who didn’t recognize you, but I did.”).

Alla morte, il cervello di Henry é stato accuratamente analizzato e dissezionato in circa 2400 fette in diretta web, per le generazioni future. Un ultimo ed inconsapevole contributo alle neuroscienze che spero non venga dimenticato.

Conclusione

Oggi é abbastanza chiaro che esistono tanti tipi di memoria e tanti meccanismi di immagazzinamento e di recupero. Le diverse aree cerebrali ed i circuiti in esse contenuti sono coinvolti in compiti specifici ma spesso difficilmente catalogabili secondo schemi oggettivi.

Nel prossimo post vedremo perché c’è un’oggettiva difficoltà nella comprensione i questi circuiti e come questi interagiscano con la memoria stessa.

Alla prossima

Tags: Casi clinici, hadicap, Memoria, Mente, Percezione, Psicologia
9 dicembre 2009 - 11:30 pm

L’Orecchio: l’AP come nuova risorsa (Parte III)

L’Orecchio: l’AP come nuova risorsa (Parte III)

Continuo di: L’Orecchio: Piccoli Dettagli (Parte I)

Continuo di: L’Orecchio: Assoluto o Relativo? (Parte II)

Preambolo

Nei precedenti post 1 e 2 ci siamo occupati di due argomenti apparentemente casuali: le origini delle note musicali e di questa strana caratteristica chiamata Orecchio Assoluto. Ora ci occuperemo della correlazione tra le due cose e vedremo cosa ne uscirà fuori.

Buona Lettura

Qual è l’interesse neuroscientifico dell’AP?

cervelloLeggendo i post precedenti sembra esserci un interesse puramente musicale nell’AP e nelle origini delle note stesse, ma in realtà c’è un discreto interesse neuroscientifico. L’orecchio assoluto, infatti, è un chiaro esempio di come un’abilità possa essere così strettamente correlata ai processi neuronali del cervello fino ad ora ignoti.

Ora cercheremo di concentrarci su dove possa poggiare l’AP per i suoi effetti.

In altre parole, da cosa dipende l’AP in un soggetto?

Differenze della struttura dell’orecchio?

La prima domanda è se la percezione della musica intesa come struttura dell’orecchio e la generazione del segnale che arriverà al cervello è la stessa in soggetti AP e soggetti non AP. I dati scientifici obiettivi indicano che entrambi i gruppi sperimentali hanno delle orecchie che generano gli stessi segnali e non c’è alcuna differenza significativa nella qualità (risoluzione) del suono percepito.

Suono differito?

Orecchio AssolutoUna cosa fondamentale per la percezione è sempre la velocità di flusso del segnale percettivo dalla periferia al cervello e poi, non meno importante, la simmetria dell’effetto stesso. Anche una lieve differenza tra le velocità dei segnali che raggiungono l’emisfero destro e sinistro può portare a ‘malessere’ o cattiva percezione ed interpretazione della sensazione.

Nel caso dell’orecchio c’è una fisiologica differenza di velocità del segnale dai sensori del suono fino agli emisferi, in pratica in tutti noi il segnale sonoro percepito raggiunge prima l’emisfero sinistro e dopo l’emisfero destro, questo tempo intercorso tra le due percezioni possiamo definirlo ‘differimento’.

Nei soggetti non-AP c’è un notevole aumento del tempo di differimento, in altre parole il segnale sonoro percepito raggiunge l’emisfero destro con maggiore lentezza rispetto ai soggetti AP.

Questa analisi è addirittura in accordo con gli studi fatti sulla mancanza di specularità delle capacità di identificazione del suono da entrambe le orecchie. I soggetti non-AP sbagliano più frequentemente quando ascoltano il suono solo con l’orecchio sinistro rispetto all’orecchio destro, suggerendo che è proprio l’emisfero destro ad essere più inefficace nell’identificazione del suono.

Differenze cerebrali?

Gli studi neuroanatomici hanno mostrato da tempo che i soggetti AP mostrano una maggiore asimmetria cerebrale nell’estensione tra regioni di destra e di sinistra in alcune aree che sono strettamente correlate alle funzioni verbali, come ad esempio nel planum temporale. C’è anche uno studio che dimostra una corrispondenza tra la grandezza assoluta del planum temporale destro e la possibilità di essere un AP. Anche questi studi contribuiscono ad attribuire all’emisfero destro un ruolo principale nell’AP.

Causa o effetto?

Sappiamo bene che il cervello è un organo plastico e che può ipertrofizzare o atrofizzare in relazione con l’esercizio o la stimolazione. Non è chiaro dunque se le differenze morfologiche cerebrali tra i soggetti AP e soggetti non-AP determinano di per sé una differenza nelle capacità cognitive oppure è la capacità di capire le note che ipertrofizza alcune aree cerebrali.

Rispondere a questo punto non è facile.

Differenze funzionali?

PET-imageCome abbiamo visto, basarsi sulle dimensioni e sulle velocità di conduzione del segnale nervoso non basta, bisogna anche collocare la funzionalità cerebrale con l’AP. Per fare questo è possibile utilizzare una tecnica che permette di visualizzare le zone del cervello messe in funzione al momento dell’esecuzione di un compito preciso; trattasi della tomografia a emissione di positroni (Pet).

Attraverso esperimenti fatti con questa tecnica, si è visto che la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra, area coinvolta nella memoria associativa condizionale, é iperattiva fra gli “assolutisti” in fase di ascolto. Il tipo di memoria di quest’area cerebrale sarebbe proprio quella che ci si aspetterebbe quando si devono dare risposte diverse ad altrettanti stimoli diversi, come avviene nell’AP.

Aggiungendo questo forte indizio con i precedenti, potremmo dedurne che il cervello sinistro contribuisce con una memoria quasi istintiva allo stimolo, mentre il cervello destro contribuisce all’associazione sonora.

Come avviene il riconoscimento delle note?

RiconoscimentoUn piccolo spiraglio emerge dalle ricerche fatte. Partendo dal presupposto che non ci sono differenze nella risoluzione delle frequenze dei suoni percepiti (qualità), potremmo ipotizzare delle differenze nell’abilità di riconoscimento del nome della nota, piuttosto che il suono stesso. Bhé, insomma, io potrei vedere un conoscente, individuarlo e sbagliarne il nome, oppure potrei vedere un conoscente e percepirlo come un’altra persona e quindi dare un nome diverso. Non è facile capire quali dei due meccanismi è fallace nei soggetti non-AP tra il riconoscimento della frequenza e l’associazione del nome della nota.

Recentemente, un lavoro pubblicato su Plos One ha dato degli interessanti sviluppi a tal proposito. Partendo dal presupposto che il nome delle note è perfettamente casuale (vedi post precedente), ci dovrebbero essere le stesse difficoltà nel riconoscere tutte le note Do, Re, Mi… ma questo non è vero.

Seguendo la logica, infatti, ci si aspetterebbe che un soggetto confonda più frequentemente suoni che hanno una frequenza molto simile a quella di riferimento es Do-Re (261-293 Hz) oppure Sol-La (392-440 Hz). Nella realtà, invece, è più frequente la confusione tra note che hanno le stesse vocali nel proprio nome, es Do-Sol (261-392 Hz) rispetto a Do-La (261-440 Hz) sebbene non ci sia alcuna maggiore o minore somiglianza nella frequenza della nota stessa.

A supporto di questo strano comportamento bisogna dire anche che quando il soggetto non-AP è portato a scegliere tra due risposte, migliora la propria performance se sono presenti due note con vocali diverse Do-La, ed ha quasi un 50% di performance quando sono presenti due note con vocali uguali Do-Sol. Anche questi risultati sarebbero incomprensibili senza tener conto di un effetto psicologico ed interpretativo causato dal nome delle note stesse piuttosto che da una propria percezione. Secondo uno studio fatto su più di 2.000 persone, la nota più facilmente riconosciuta da soggetti AP e soggetti non-AP è il Re, probabilmente alla luce di questi dati potremmo interpretarlo come molto probabile, poiché è l’unica nota della scala musicale ad avere la vocale ‘e’ nel nome, quindi c’è minor rischio di confusione. D’altra parte le note diesis o bemolle presentano una frequenza di riconoscimento tra le più basse.

Come si comportano gli anglosassoni?

Tenendo per buoni questi dati scientifici, potremmo osservare gli anglosassoni che non hanno dato alle note alcun nome, rimanendo quindi ancora con le lettere dell’alfabeto C, D, E, F, G, A, e B. Le possibili confusioni tra le note sono le stesse dei latini? La risposta è no.

Si mantiene la capacità di discriminare il Do (C) con il La (A), ma non il Do (C) con il Re (D). Indagando bene, le note C, D, E, G e B condividono egualmente la vocale ‘/i:/’ nella pronuncia inglese e quindi sono egualmente confuse nei soggetti non-AP e presentano anche una eguale maggiore frequenza di errore nei soggetti AP. Le note F (pronunciata con /e/) e A (pronunciata con /ei/) sono le note maggiormente riconosciute dagli anglosassoni, probabilmente perché presentano anche vocali uniche.

Come si comportano gli asiatici?

Gli asiatici hanno note con nomi totalmente diversi da quelli a cui siamo abituati a pensare. Lì purtroppo tutti i nomi delle note presentano la stessa vocale, generalmente la ‘/a/’, anche se si usano tonalità diverse per i nomi. Sebbene queste condizioni non soddisfino a pieno la teoria delle vocali, questa teoria è l’unica a spiegare molto bene la diversa capacità delle note di essere riconosciute e soprattutto la diversa capacità di riconoscere le note tra popolazioni geneticamente molto simili e che usano solo annotazioni musicali diverse.

Conclusioni

Ovviamente non c’è alcuna presunzione di raccontare una verità assoluta, né di essere certi di aver interpretato tutto. L’AP è un fenomeno che andrebbe indagato più a fondo, fino alle radici verbali, dove probabilmente scopriremo nuovi processi cerebrali di formazione del linguaggio, di memoria e di interpretazione che tutt’oggi ci sfuggono.

Per ora immaginerei un mondo in cui ciascuna nota avesse un nome con una vocale diversa… magari in questa popolazione ci potrebbe essere una percentuale di soggetti AP maggiore rispetto a quella dell’attuale popolazione mondiale (0.0001%).

Alla Prossima

Tags: AP, Neuroscienze, note, orecchio, orecchio assoluto, Percezione, udito, vocali
9 dicembre 2009 - 10:50 pm

L’Orecchio: Assoluto o Relativo? (Parte II)

L’Orecchio: Assoluto o Relativo? (Parte II)

Preambolo

Nel post precedente abbiamo preso in esame il suono ed abbiamo accennato all’origine della musica e dei nomi delle note. In questa seconda parte prenderemo in esame le conseguenze di tali scelte nella percezione ed interpretazione del suono per il cervello.

L’orecchio assoluto e l’orecchio relativo

Orecchio

Le coordinate di oggi sono determinate dalle capacità di ‘ascolto’, non in senso letterario, piuttosto nella comprensione delle note musicali come fossero parole. Secondo questo schema possiamo dividere le persone in due categorie principali, quelle che posseggono un orecchio assoluto (meglio definibile con orecchio perfetto) e le altre che hanno un orecchio relativo.

Si intende per orecchio assoluto (absolute pitch: AP) la capacità di identificare una nota musicale senza nessuna altra nota di riferimento, mentre quelli che hanno l’orecchio relativo sanno paragonare due note e due strumenti solo se suonati insieme o a breve distanza.

Per intenderci, quasi tutte le persone con un minimo di cultura possono notare un cantante stonato, uno strumento che non è ben accordato o due note che non sono uguali (orecchio relativo), ma è difficile sentire un singolo suono e determinare quale nota sia senza paragonarla ad un’altra nota di riferimento (orecchio assoluto).

La parola orecchio assoluto suscita nell’ambiente musicale un senso di fascino e mistero, sembra essere presente nel 20% dei musicisti, e solo nel 0.0001% della popolazione totale.

Questa capacità insorge nei bambini piccoli in quella misteriosa fascia di età compresa tra i 6 mesi ed 1 anno di vita (vedi post), ma è genetica? Culturale? Dovuta a stimolazioni esterne? O semplicemente casuale?

Genetica o casuale?

geneticaCertamente l’AP non è una caratteristica che si può assumere da adulto, sebbene esistano degli esercizi difficilissimi per avvicinarsi molto all’orecchio assoluto (ear training).

Da un primo approccio si potrebbe definire il fenomeno come un fattore casuale o una predisposizione genetica, poiché nella maggioranza dei casi si possiede un orecchio assoluto in maniera indipendente dalla presenza di musicisti e di mestieri correlati ad esso in casa. Molte di queste persone speciali non sanno nemmeno di avere questa particolarità.

Tuttavia è stato dimostrato anche che la crescita di un bambino in un ambiente musicale facilita l’acquisizione di questo dono. Come poter conciliare questi concetti? Da un lato c’è una maggiore frequenza di AP in soggetti che crescono in ambienti ricchi di musica, il che indica un’acquisizione per esperienza. Dall’altro lato bisogna spiegare anche la presenza di AP in soggetti che non hanno alcun rapporto con la musica e posseggono lo stesso dono.

Per capirci potremmo estendere il significato di ‘musica’ dal punto di vista di un bambino di 6 mesi, poiché é  stato dimostrato che in questa fase il soggetto non avverte la differenza fra la lingua madre e una straniera, anche se riconosce dei suoni in maniera istintiva (pianto di un altro bambino, suono amorevole, ninna nanna, battito cardiaco materno).

In queste condizioni il suono di una sillaba potrebbe essere molto simile a quella di una nota, ed una parola simile ad una piccola serie di note; quindi si potrebbe intendere come ‘musica’ anche la lingua materna o dei familiari/amici. A supporto di questa teoria è stato dimostrato da tempo che nelle lingue asiatiche c’è una maggiore percentuale di possessori di questo prezioso dono, probabilmente perché i bambini sono esposti ad una lingua con in cui parole hanno un significato diverso a secondo della tonalità con la quale sono pronunciate le “vocali” (lingua tonale). In ‘mandarino’, per esempio, il suono ‘ma’ può significare “mamma” oppure “cavallo” secondo l’altezza del suono. La particolare attenzione a questi dettagli, quando si ascolta o quando si parla, in un bambino potrebbe contribuire ad affinare o far rimanere l’abilità di riconoscere le frequenze sonore, che è poi trasferita allo studio della musica.

Seguendo questo schema, potremmo definire la causa di questo dono con una spiccata attidudine ad ascoltare i suoni con molta attenzione da una parte, ed ovviamente una stimolazione giusta della madre o dell’ambiente che circonda il bambino in quei preziosi momenti.

A supportare questa teoria ci sono anche gli studi fatti sui non vedenti congenici ed i malati di autismo che presentano questa strana caratteristica con un’altissima frequenza, senza per altro averla ‘ereditata’ da parenti ‘musicisti’.

Solo verso il nono mese, mediamente, incomincia ad essere chiara l’associazione tra una parola ed i suoi effetti, ovvero, anche se il bimbo non riesce ancora ad esprimersi a parole è in grado di capire seppur grossolanamente cosa gli viene detto.

Correlazione genetica?

genetica o casualeBisogna dire anche che l’associazione delle popolazioni con l’AP é il pomo della discordia, poiché considerando il punto di vista di un genetista, una popolazione asiatica ha un corredo genetico che differisce da quello europeo/americano. Alcuni geni o alleli eventualmente presenti nelle popolazioni asiatiche potrebbero favorire l’acquisizione dell’AP.

Indagando più a fondo, infatti, i coreani e i giapponesi hanno una frequenza di AP molto alta senza avere una lingua tonale. Anche gli asiatico-americani che parlano esclusivamente l’inglese e che non sono stati esposti alla lingua asiatica durante l’infanzia hanno una accertata alta ricorrenza di AP.

Una differente distribuzione di AP tra le popolazioni può essere spiegata meglio con delle differenze genetiche.

I primi ricercatori che tentarono di dimostrare questa teoria furono Profita e Bidder che riportarono nel 1988 un’elevata ricorrenza di AP in alcuni alberi genealogici e conclusero che l’AP viene ereditato come un tratto autosomico dominante con penetranza incompleta. Per approfondire l’argomento Baharloo e colleghi, nel 1998 riportarono una consistente aggregazione familiare dell’AP e indicarono un possibile ruolo dei meccanismi genetici nello sviluppo dell’AP.

Da un altro studio è emerso anche che un’istruzione musicale precoce dà più possibilità di avere un AP nell’età adulta se si è parenti di primo grado di un soggetto con AP. Questi dati confermano la possibilità di una componente genetica dell’AP.

Tuttavia questa ipotesi è indebolita da una serie di dubbi. Questi studi sono stati fatti esclusivamente su musicisti che ovviamente hanno dato un ambiente musicale ai propri parenti di primo grado, il che favorirebbe l’acquisizione dell’AP attraverso un fattore ambientale e non genetico.

Musica come linguaggio?

spartitoAncora oggi non è chiaro quanto partecipino l’elemento genetico e quello ambientale alla formazione dell’AP, tuttavia è probabile che la capacità di identificare le note musicali derivi da un processo neurologico che corre parallelo a quello di acquisizione delle capacità linguistiche. In sostanza l’orecchio assoluto potrebbe essere il risultato di un rapporto biunivoco fra linguaggio e suono, dove la capacità di distinzione tonale viene mantenuta e inserita nel sistema tassonomico del linguagio musicale, parallelo a quello verbale.

Per intenderci, si immagini Beethoven che riusciva a scrivere la musica senza suonarla come un romanziere potrebbe essere in grado di scrivere un racconto senza sentirlo mai leggere alta voce, ed un musicista che scrive su uno spartito le ‘parole’ sentite da un pianoforte. La corrispondenza con il linguaggio sarebbe perfetta come associare alle vocali ‘a’, ‘e’, ‘i’, ‘o’, o ‘u’ con la corrispettiva lettera rappresentativa.

Conclusioni

Bisogna dire anche che avere un orecchio assoluto in realtà non facilita certamente il poter suonare meglio di altri, piuttosto spinge chi ha questo dono ad apprezzare molto più a fondo la musica e le relative note sotto tanti aspetti che ai più sfuggono. Con l’orecchio assoluto magari sarà più facile accordare uno strumento senza punti di riferimento, ma potrebbe essere anche più difficile suonare con l’accordatura ad una tonalità diversa (fare una trasposizione), come suonare ad esempio il clarinetto, il sassofono, il corno, poiché sono accordati in tonalità diversa da quella di Do. In altre parole, sebbene l’orecchio assoluto sia comunque un vantaggio, per un musicista avanzato è solo uno strumento in più che può utilizzare. L’ideale sarebbe avere entrambe le caratteristiche per poter dare il meglio.

Nel prossimo post cercheremo di entrare ancora più in dettaglio sull’origine dell’orecchio assoluto.

Continua: L’Orecchio: l’AP come nuova risorsa (Parte III)

Alla prossima

Tags: Neuroscienze, note, orecchio assoluto, orecchio relativo, Percezione, suono, udito
4 dicembre 2009 - 11:41 pm

L’Orecchio: Piccoli Dettagli (Parte I)

L’Orecchio: Piccoli Dettagli (Parte I)

Preambolo

Dopo aver preso in esame l’olfatto, ora vedremo un altra misteriosa percezione che mi sta molto a cuore; l’udito.

Sicuramente si tratta del più evoluto dei proverbiali 5 sensi, poiché é stata la fonte per le nostre intercomunicazioni sociali al più alto livello. Mediante la comunicazione abbiamo organizzato battute di caccia di gruppo, abbiamo chiesto aiuto, ci siamo accorti del pericolo e poi abbiamo cominciato a discutere di problemi, sentimenti fino ad arrivare alla poesia ed alla musica.

Il suono

Suono

Come al solito è necessario qualche punto di riferimento per metterci d’accordo e questa volta inizierò con la definizione di suono. Non vi è alcun dubbio che per suono si intenda una forma di energia cinetica (di tipo vibrazionale) che si propaga mediante un mezzo (aria, acqua, o altro) fino a raggiungere il nostro orecchio che ce lo rende percettibile attraverso il timpano e comprensibile attraverso connessioni nervose.

Il suono come energia

Diapason

L’esempio più percettibile del suono inteso come propagazione di energia è quel fenomeno ben noto ai vecchi musicisti che accordavano il proprio strumento con il diapason. Il diapason, per chi non lo sapesse, è generalmente un pezzo di metallo a forma di Y che una volta colpito vibra con una particolarissima frequenza (440 Hz) chiamata ‘LA’ (in americano ‘A’). E’ utilizzato come suono di riferimento per accordare uno strumento (ad esempio la chitarra) sulla nota musicale LA, e poi da questa accordatura si possono ottenere tutte le altre note per trasposizione.

E’ esperienza comune che quando lo strumento è accordato bene, basta semplicemente avvicinare il diapason vibrante alle corde della chitarra per far vibrare magicamente la corda del LA senza toccarla. Quando ero giovane e suonavo la chitarra stupivo sempre mio cugino piccolo con questo fenomeno ben noto con il nome di risonanza. La spiegazione è semplice, l’energia cinetica del diapason riesce ad interagire in fase con la corda bersaglio che ne acquisisce l’energia, un po’ come sull’altalena, in cui c’è bisogno di dare la spinta con una certa frequenza per generare ed aumentare l’oscillazione del sellino. Questo fenomeno è valido a tutti i livelli tanto che il termine è stato poi traslato anche in altre discipline, come ad esempio nella chimica-fisica dove il termine di risonanza ed energia compatibile sono molto usati.

La musica nella scienza

HesseL’insieme strutturato ed armonico di suoni è senza alcun dubbio la musica e l’importanza di questa arte nella nostra specie non ha eguali in natura ed é anche correlata strettamente alle scienze. L’origine stessa della musica si perde nella preistoria ed è progredito parallelamente al nostro linguaggio fino ai tempi moderni. La perfetta correlazione tra la musica, la matematica, la scienza e l’arte non ha eguali.

Non a caso il premio Nobel per la letteratura Hermann Hesse, nel suo mirabile capolavoro ‘il gioco delle perle di vetro‘ (1943) mette al centro dell’universo scientifico proprio la musica. Il romanzo di fantasia ambientato in un lontano futuro, infatti, parla di una tale frammentazione scientifica per le eccessive specializzazioni che non é più possibile una intercomunicazione tra i ricercatori. L’obiettivo del gioco delle perle di vetro é proprio quello di coniugare argomenti apparentemente tanto lontani in un unico concetto condiviso. Tra queste arti, proprio la musica é il principale capostipite, in quanto é già di fatto armonia di matematica, fisica, energia, ingegneria, arte, cultura, linguaggio e sentimento poetico in maniera semplice.

Le note come nomi

imagesSappiamo tutti che a seconda della frequenza di vibrazione (Hertz) del suono si possono definire delle note raggruppate in periodi (ottave). L’insieme delle note stesse formeranno la musica la cui origine si perde nella preistoria.

Fin qui tutto già noto, ma pochi sanno che la musica ha avuto un ruolo sociale di intercomunicazione che è progredito parallelamente al linguaggio durante la nostra evoluzione, quindi ha quantomeno centinaia di migliaia di anni. Tuttavia, la formalità di questa arte, intesa come scrittura è recentissima, meno di un secolo.

Se prendiamo in esame i nomi ed il numero delle note, infatti, é solo un caso che si é concordati all’uso iniziale di 7 note periodiche a cui sono state aggiunte successivamente altre 5 (diesis o bemolle).

Anticamente si usava una notazione di origine greca che utilizzava le lettere dell’alfabeto α, β, γ etc per indicare le note. Tale notazione è ancora in uso nei paesi di lingua inglese con le lettere latine:

A = La, B = Si, C = Do, D = Re, E = Mi, F = Fa, G = Sol

Successivamente sappiamo che questa notazione è stata cambiata, tuttavia pochi sanno che il nome attuale delle note non é riferito al suono onomatopeico (tipo “bau” per l’abbaiare dei cani e “miao” per il miagolio dei gatti), bensì ad una convenzione stabilita arbitrariamente da Guido d’Arezzo nel XII secolo. Il nome delle note corrisponde al nome delle sillabe iniziali dei primi sei versetti dell’inno “Ut queant laxis

« Ut queant laxis | Resonare fibris | Mira gestorum | Famuli tuorum | Solve polluti | Labii reatum, | Sancte Iohannes »

Traduzione

« Affinché i tuoi servi possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue azioni, cancella il peccato, o santo Giovanni, dalle loro labbra indegne »

Nel XVI secolo la settima nota riceve il suo nome definitivo ‘Si’ e nel XVII secolo in Italia la nota ‘Ut’ viene sostituita con il nome attuale Do (da Dominus o da quello che l’ha proposto Giovanni Battista Doni) per la difficile pronuncia. In Francia questa modifica non venne fatta, e ancora oggi si usa il nome “ut” per la prima nota.

Cosa c’entra il suono con le Neuroscienze?

Bambino allo specchioUna volta, in un seminario del nostro dottorato ci venne a trovare un professore che provò a spiegare cosa fosse e dove si trovasse la nostra coscienza. Non ricordo nulla di interessante in quelle parole, ma una cosa mi affascinò molto:

Nel primo anno di vita, un bambino, con tutto il rispetto, è molto simile agli animali per quanto riguarda la coscienza della propria esistenza nel mondo. Lo si può notare quando portate un bambino di circa 6 mesi di fronte ad uno specchio, noterete che il primo approccio è quello di salutare, afferrare o interagire con l’immagine sua riflessa senza rendersi conto che quell’individuo risponde ai propri movimenti. In seguito ad una esposizione più lunga i bambini mostrano una quasi totale indifferenza a quello strano vetro magico, in pratica capiscono che è un trucco e non tentano più una interazione. L’approccio dei classici animali domestici di frone al ‘vetro magico’ é lo stesso. Chi ha un cane o un gatto avrà sicuramente notato una interazione in una prima fase, poi una totale indifferenza.

Nell’uomo però c’è una rivoluzione sostanziale che, se non fosse blasfemo, potremmo definire miracolosa. Un bambino, tra i sei mesi fino ad un anno di età, proprio nella fase in cui comincia a parlare, camminare e fare alcuni abbozzi che ripeterà continuamente da grande, ha anche la rivoluzione di capire che esiste nel mondo. Portato al ‘vetro magico’ questo bambino ‘cresciuto’, ha una interazione con lo specchio del tutto diversa… comincia a capire che quello che vede è se stesso, a toccarsi nelle zone che ritiene diverse dal solito, es macchie evidenti, sporco, colori che non gradisce. Anche di fronte alla televisione incomincia uno spirito di identificazione ed imitazione spinto proprio dai suoni.

Link video Spirito di Imitazione

Per quanto si sappia, questa è una caratteristica di pochissime specie animali, solo alcune scimmie e l’uomo (vedi post “Allo specchio“). Tuttavia solo la vista e l’udito possono stimolare questo istinto naturale.

Non vorrei entrare nel merito di questa strana e misteriosa maturazione nervosa che è ancora più colossale della nascita stessa del bambino, poiché non sto trattando solo di coscienza, linguaggio, equilibrio, voglia di interazione sociale ed una maturazione anche del carattere che avrà da grande, parlo anche di capacità di capire i suoni e dare a questi un significato. Insomma la rottura definitiva tra il vecchio mondo ancestrale e quello più evoluto e complesso degli esseri umani sapiens sapiens, ricco di emozioni, poesie, pensieri, riflessioni e rancori.

Nel prossimo post vedremo uno di questi piccoli ‘miracoli’ della vita, un argomento di neuroscienze, che è avvenuto in tanti bambini senza che ce ne rendiamo conto.

Conclusione

Qualcuno disse che “non è possibile cogliere un fiore senza turbare una stella” oppure “una farfalla che sbatte le ali in brasile crea una tempesta in un altro continente”. Bhé insomma, questo che abbiamo visto è un piccolo ‘dettaglio storico’ rappresentato dalla farfalla, nel prossimo post vedremo la perturbazione che ne consegue sul campo delle neuroscienze.

Continua: L’Orecchio: Assoluto o Relativo? (Parte II)

Tags: Neuroscienze, Percezione, suono, udito
4 settembre 2009 - 1:00 pm

L’Olfatto, un mosaico di ipotesi

Preambolo

Finalmente le tanto meritate vacanze sono iniziate anche per me, e colgo l’occasione per finire finalmente questo post in elaborazione oramai da tanto tempo, come al solito cortesemente corretto da Valentina. Qui descriverò un argomento abbastanza lungo, difficile e ‘spigoloso’ per i profani ed esperti, anche se penso che tutti lo conoscono almeno un po’ per sentito dire.

Parleremo dell’olfatto, un argomento non facile da raccontare in un post divulgativo senza ‘smussare’ qua e là il mosaico di teorie e di esperimenti che sono stati fatti fino ad ora.

L’Olfatto: Alcuni dettagli ovvi

Olfatto

Come al solito mi servirò inizialmente di qualche punto di riferimento per metterci d’accordo ed inizierò dagli odori che sono causati, come tutti voi sapete, da molecole sprigionate dalle sostanze e disperse nell’aria che respiriamo, dove raggiungono il nostro naso. L’altro punto di riferimento utile si trova subito dietro il naso e sopra la volta della nostra cavità buccale dove passano tutte le molecole che noi respiriamo. E’ una cavità rivestita da una mucosa di circa 10 cm2 che attraverso la solubilizzazione, la dispersione, l’adsorbimento e quant altro, ferma una porzione delle molecole che si trovano nello stadio aeriforme nella cavità nasale e le disperde nel fluido mucoso. Qui le molecole possono incontrare una o più cellule recettoriali olfattive (ORC), in un uomo adulto se ne contano circa 10-20 milioni, ricche di propagini dette ciglia e di proteine dette recettori olfattivi (da qui chiamate Odorant Receptor OR).

I OR hanno il compito ‘legare’ in maniera più o meno specifica alcuni gruppi funzionali di queste molecole presenti nel fluido mucoso, ed innescare una cascata di eventi che si amplifica fino ad attivare la cellula recettrice e scatenare la propagazione del ‘segnale odoroso’. Il cervello, a sua volta, provvederà ad interpretare il segnale in diversi stadi con una serie di meccanismi molto complessi. Per dettagli ed approfondimenti potete guardare questo link.

Fin qui il tutto è quasi scontato ed ovvio, però dalla teoria alla pratica c’è una notevole differenza, vi dico subito che ancora oggi ci sono vari lati oscuri che cercherò di descrivervi in parole semplici, portandovi ai problemi scientifici in maniera intuitiva per quanto sia nelle mie capacità.

Quanti odori esistono?

mosaicoCome penso molti di voi possono intuire, esiste un numero inimmaginabile di odori, e la maggioranza di questi è causato da un mix di ‘odori primari’ in diversi rapporti, ma a complicare la situazione c’è che una molecola odorosa può agire su decine di recettori diversi con diversa specificità. I OR dei composti aminici, ad esempio, riconoscono solamente l’azoto primario, secondario o terziario con diversa efficacia, per cui gli odori di questi composti non possono essere discriminati con facilità e sembrano tutti molto simili. C’è da dire però che nonostante questa piccola sovrapposizione di segnali si possono discriminare con elevata sensibilità circa 10.000 odori diversi.

Ciò premesso, consentitemi da questo punto in poi di semplificare e di concentrarci esclusivamente sugli ‘odori primari‘ che sono riconosciuti quasi esclusivamente da un solo tipo di OR e che danno una sensazione odorosa molto precisa.

Cosa c’è di difficile?

better-than-free_id690012_size485Nel mondo animale, il non saper distinguere l’odore di una preda dall’odore del proprio predatore fa la differenza tra fare una buona colazione ed essere la colazione di qualcun altro. Anche riconoscere l’odore delle cose che si possono mangiare da quelle che è meglio evitare è fondamentale per la sopravvivenza, quindi i mammiferi durante l’evoluzione hanno accumulato più di 1.000 geni che sovraintendono il più misterioso dei 5 sensi. In pratica più del 3% del genoma dei mammiferi è deputato alla percezione degli odori, e dato che questi recettori possono riconoscere anche più tipologie di molecole con diversa affinità determinando una combinazione di interazioni intermedie, questo amplifica esponenzialmente il ventaglio di sensazioni che possono dare le molecole presenti nell’aria.

La chiave di volta per ottenere un buon olfatto è sicuramente il collegamento tra le cellule recettoriali odorose (ORC) ed il cervello, ovvero quel meccanismo che consente di poter capire quale specifico OR è stato attivato. Si tratta di un meccanismo per nulla banale, e come punto di riferimento, possiamo considerare l’esempio del gusto, dove i recettori cellulari sono generati in base alla localizzazione sulla superficie della lingua. Nel cervello si forma una sorta di correlazione tra aree specifiche corticali ed aree della lingua denominata ‘mappa sensoriale‘. A questo consegue che è possibile percepire il salato, l’amaro, il dolce ed l’acido in base a quale zona della lingua è stata stimolata maggiormente.

Possiamo trasportare questa ipotesi nell’olfatto, ed immaginare che l’area in cui si trovano le ORC determina anche il set di recettori da esprimere. Ipotizziamo che ciascuna cellula recettrice dell’olfatto possa esprimere un centinaio o più OR localizzati in diverse aree della mucosa nasale. Ogni area in cui vi sono le ORC potrebbe essere correlata ad una zona del cervello a cui corrisponderebbero determinate sensazioni odorose.

Quanti recettori per cellula?

recettoriSapere quanti tipi di recettori sono presenti per cellula è fondamentale per capire quante aree ci dovremmo aspettare di trovare e per verificarlo potremmo ricorrere a tecniche avanzatissime di in situ hybridization, e di retrotrascrizione ed amplificazione per PCR su singola cellula. Ovviamente non sono tecniche facili e nemmeno tanto diffuse, ma gli esperti sono riusciti a dimostrare con questi esperimenti che ogni ORC esprime solamente un singolo OR.

Una cosa simile avviene durante il differenziamento cellulare, dove la combinazione di alcuni fattori trascrizionali decide l’attivazione di meccanismi sempre più specializzati che ‘bloccano’ l’espressione  specifica di determinati geni. Questo meccanismo, definito ‘deterministico’, è quello maggiormente utilizzato durante la specializzazione cellulare nel nostro organismo. Potremmo ipotizzare un meccanismo simile per le ORC in cui dalla combinazione di alcuni fattori trascrizionali si determina l’attivazione dell’espressione di un singolo OR.

Verifica della Teoria Deterministica

La prima pistaSecondo questa teoria la combinazione casuale o pseudocasuale di fattori trascrizionali per esprimere un singolo OR non può essere disturbata dalla coespressione di un OR transgenico scelto da noi. Per verificare questa teoria ‘deterministica‘, quindi, possiamo generare un topo transgenico in cui alcune ORC esprimono in maniera forzata un determinato OR scelto da noi e valutare se c’è coespressione.

Il risultato è interessante, non c’è alcuna sovrapposizione di segnali tra il OR espresso forzatamente da noi ed un qualsiasi altro recettore olfattivo endogeno. In pratica l’espressione forzata del nostro OR transgenico non permette di esprimere un qualsiasi altro OR endogeno, e se si tenta di generare un topo transgenico con una espressione forzata di due OR diversi nella stessa ORC, queste muoiono per apoptosi. Questi dati non sono di certo a supporto per la teoria deterministica, evidentemente la scelta del recettore olfattivo è un meccanismo molto più complesso. Ad aggiungere benzina sul fuoco c’è un’altra prova interessante, ovvero le ORC possono cambiare più volte il recettore odoroso espresso prima di prendere contatto con il cervello (maturazione cellulare). La teoria deterministica è molto fallace con questi risultati, poco probabile che sia quella buona.

La Teoria Stocastica

roulette-2Un’altra teoria che si è fatta strada nel tempo è basata sulla casualità della scelta del OR espresso (teoria stocastica). Per capirci immaginiamo un fattore trascrizionale  unico che sia in grado di legare il promotore di tutti i geni dei OR e di consentirne l’espressione; tecnicamente può legarsi ad un solo OR e quindi può esprimere solo quello. Se il fattore trascrizionale non è molto efficiente nell’esprimere un OR si potrebbe spiegare come mai una ORC cambia OR nei primi stadi pur seguendo sempre la regola di esprimere un solo OR alla volta. In seguito, quando un OR espresso dà un forte segnale di funzione (feed-back) il fattore trascrizionale si fissa sul gene che sta trascrivendo fino allo stadio di maturazione.

E’ una teoria che funziona e che spiega anche i risultati dei topi transgenici; il OR transgenico blocca l’espressione di altri recettori attraverso un feed-back abberrante. Però, come al solito la teoria va convalidata, e c’è l’imbarazzo della scelta sul come; una prova schiacciante potrebbe derivare dall’eliminazione del feed-back recettoriale. In particolare potremmo alterare un gene OR in modo tale da codificare un recettore non funzionante pur conservandone la struttura genica.

I risultati dimostrano che il topo transgenico non esprime mai un OR non funzionante, probabilmente proprio per la mancanza del feed-back del recettore maturo necessario per fissare la scelta. Per esserne sicuri, è stata effettuata una controprova per dimostrare che le ORC tentano di esprimere il OR non funzionante, e che solo successivamente cambiano la scelta su un altro gene OR che funzioni. Per dimostrarlo si è generato un topo transgenico in cui l’espressione anche transiente del recettore non funzionante provoca un danno irreversibile al DNA della stessa cellula (tecnica Cre/LoxP), ed i risultati hanno mostrato che le ORC scelgono il OR transgenico e non funzionante con la stessa probabilità di tutti gli altri OR, sebbene questa scelta sia cambiata prima della maturazione cellulare per mancanza di feed-back. Un’altra prova conclusiva e schiacciante è che la generazione di un topo trangenico che esprime un OR esogeno e non funzionante non disturba l’espressione dei OR endogeni. Questo dimostra che è la funzione di un OR a bloccare l’espressione dei OR endogeni, non la struttura e l’espressione dei geni OR endogeni.

La spina nel fianco per la Teoria Stocastica

La teoria stocastica fino ad ora ha sempre soddisfatto tutti i dati sperimentali ottenuti, ma ciononostante ha un punto debolissimo. Questa teoria è retta dalla possibilità di poter innescare la trascrizione di qualsiasi dei 1.000 geni dei OR da uno o pochi fattori trascrizionali, e questo sarebbe possibile solo nel caso in cui i geni OR presentino una sequenza consenso che li identifichi nel genoma. Ebbene, nonostante molti ricercatori si siano impegnati nell’analisi di omologie di sequenze tra i geni degli OR, i risultati ottenuti sono stati alquanto deludenti; con i dati attuali si potrebbero raggruppare non più di una decina di geni degli OR per volta tirando in ballo meccanismi di riconoscimento improbabili.

E se fossero dei Linfociti?

linfocita-tSe ci pensate, esiste un meccanismo di scelta molto simile che avviene nei linfociti. Queste cellule, però, non decidono l’anticorpo da esprimere in base a fattori trascrizionali, ma attraverso una ricombinazione genetica guidata. Si tratta di una piccola deviazione della teoria stocastica ed è anche risolutiva.

Come al solito dobbiamo convalidare tale teoria… ed escludiamo subito la proposta di sequenziare l’intero genoma di singole cellule, sarebbe difficilissimo e ci vorrebbero tanti anni! Possiamo ricorrere ad un trucco chiamato FISH (fluorescent in situ hybridization), ovvero rendere fluorescente una sonda ad RNA verso un introne di un OR. In questa tecnica non è possibile valutare una ricombinazione genica in maniera diretta, tuttavia è possibile localizzare dove inizia la trascrizione di un determinato gene all’interno del nucleo e valutare se, in seguito ad una ricombinazione, cambia posizione. I risultati, alquanto discutibili, dimostrano che il sito di inizio della trascrizione avviene sempre nello stesso punto del nucleo e del genoma, quindi niente ricombinazione, ma c’è una novità inaspettata; la trascrizione di un OR proviene solamente da un singolo allele.

Sbrogliare la matassa di informazioni non è mai facile

broglio di informazioni

Spesso nella ricerca è importante definire delle ipotesi e porsi le domande giuste, ovvero cercare di identificare la cosa più importante di un meccanismo e trarne quante più informazioni possibili per verifica e deduzione. Nel nostro caso la codifica di un singolo allele, cioè solo 1 delle due copie genetiche di un OR, è ancora in linea con la teoria della ricombinazione genetica, poiché se è vero che la scelta è casuale, questa non può avvenire in entrambi gli alleli fratelli allo stesso modo. Inoltre se l’inizio della trascrizione avviene sempre nello stesso punto, questo non esclude che tutto il resto del DNA (es il promotore) possa essere stato ricombinato.

L’ipotesi che ne scaturisce è questa: La cellula sceglie un OR da esprimere in modo casuale, in mancanza di un feed-back funzionale cambia scelta, in seguito, alla maturazione cellulare la scelta diventa definitiva mediante ricombinazione di un promotore o di segnali a monte dell’OR scelto. Questa ipotesi potrebbe spiegare come mai l’espressione forzata di un recettore esogeno possa bloccare l’espressione dei recettori endogeni; probabilmente la proteina inserita provoca un feed-back che innesca una ricombinazione abberrante del DNA nei OR endogeni. La teoria per ora tiene ma con le parole non si dimostra mai niente, è fondamentale convalidare la teoria e questa volta non è per nulla facile evidenziare tante piccole ricombinazioni in singole cellule di 20 micron di diametro circa.

Come dimostrare una ricombinazione che si possa trovare in un qualsiasi punto del genoma? In questo caso il test di validazione è non semplicissimo. L’idea è che la ricombinazione del DNA in una ORC provocherebbe il blocco dell’espressione di un determinato OR in tutte le condizioni, come avviene per un linfocita. Se da questo DNA ricombinato si clonasse il topo stesso da cui deriva… l’animale che risulterebbe dovrebbe esprimere solo un OR, poiché il suo DNA è già ricombinato in maniera irreversibile. I risultati sono stati scioccanti, il topo che ne risulta è perfettamente sano e ha tutto l’apparato olfattivo intatto e funzionante come in un qualsiasi wild-type. Nonostante l’analisi di circa 100 kb a monte ed a valle del gene incriminato non c’è stata nessuna modifica genetica o epigenetica.

Basta un soffio ed il castello crolla

Castello di CarteCertamente la ricombinazione è da scartare ma fino ad ora niente ha smentito la casualità della scelta del OR. Tuttavia un gruppo di ricerca ha recentemente messo in discussione anche questa ipotesi granitica.

L’idea di fondo è la seguente… Se è vero che la cellula sceglie casualmente un gene su circa 1.000, e di questo solo 1 allele, ne consegue che la scelta è di 1 sui 2.000 alleli disponibili. Se riuscissimo ad inattivare solo 1 di questi 2.000 alleli, ad esempio in modo tale che esprima irreversibilmente EGFP (tecnica Cre/loxP), potremmo rendere fluorescenti le cellule che hanno ‘cambiato idea’ per mancanza di feed-back e verificare quale altro gene sceglie dei 1.999 rimanenti.

Il risultato, ancora una volta, è assolutamente strabiliante. Il topo transgenico presenta una coespressione di EGFP solo con il suo allele funzionante corrispondente. In poche parole l’espressione di EGFP, come previsto, non dà feed-back positivo per cui la cellula cambia OR da esprimere; ma la seconda scelta non è per niente casuale, qualcosa guida la scelta sull’allele di ‘backup’ presente sul cromosoma fratello e non sugli altri 1.998 alleli rimanenti. Come potrebbe la cellula riconoscere in modo specifico l’altro allele se la scelta è basata solo sulla casualità? Qualcosa non quadra, ed in questo modo la casualità che ha retto la teoria stocastica fino ad ora è stata, almeno parzialmente, distrutta in un soffio.

L’olfatto che guida l’assone durante il lungo cammino

tomtom-iq-rutes-sceglie-percorso-evitando-ingorghiL’ultima domanda è ‘Cosa succede con il collegamento al cervello quando forziamo una cellula ORC ad esprimere un recettore specifico scelto da noi?’. Gli esperimenti mostrano che il collegamento cervello-recettore è perfetto, quindi ne consegue che il collegamento è basato solo sull’OR espresso.

Ma quando questa scelta cambia all’improvviso?

Per rispondere a questa domanda un gruppo di ricercatori ha tentato di cambiare il recettore scelto dalla cellula poco prima che questa riesca ad ‘agganciarsi’ al cervello (maturare), attraverso un gene OR esogeno ed inducibile.

In questo topo transgenico le ORC scelgono un recettore endogeno in un modo apparentemente casuale, e cominciano la propagazione dell’assone verso il cervello cercando la zona giusta per formare sinapsi. Durante questa fase si può innescare l’espressione del recettore transgenico con il conseguentemente spegnimento del recettore endogeno…

La cellula ancora immatura, come abbiamo visto, si ‘adatta’ al nuovo recettore, ma si aggancerà anche alla zona cerebrale giusta? La risposta è incredibilmente sì. il collegamento e la funzione del recettore è perfetto nonostante il cambio recettoriale durante la formazione dell’assone. Tuttavia, se si cerca di cambiare la scelta dell’OR espresso dopo la maturazione della ORC, si provoca una abberrazione che innesca apoptosi.

Come è possibile che un OR possa guidare la scelta della regione cerebrale giusta a cui ‘agganciarsi’ senza avere altri 1.000 geni deputati al riconoscimento dei diversi OR da parte del cervello?

Qualcuno ha suggerito un’ipotesi alquanto affascinante, secondo cui un OR si trovi alla testa dell’assone durante la fase di elongazione, guidandolo verso il corretto punto di aggancio al cervello come farebbe un cane da tartufo a portarci verso questo prezioso tubero in un intero bosco.

Teoria affascinante e stravagante, tuttavia ancora insoluta ed in cerca di qualcuno che la convalidi o la controbatta con esperimenti, o con ipotesi più semplici.

Conclusione

In questo lungo post abbiamo messo sul piatto tutto quello che è noto sull’olfatto senza uscirne fuori con una teoria solida in grado di spiegare tutti i dati sperimentali. Per chi fa ricerca questo risultato è il pane quotidiano poiché non si seguono mai strade battute, si cerca sempre di crearne nuove, con nuove ipotesi, nuove verifiche e nuove deduzioni che porteranno ad altre ipotesi che si spera siano migliori delle precedenti e più vicine alla verità.

Tutt’ora ci sono gruppi di ricerca che analizzano le seguenze di DNA dei recettori OR cercando qualcosa in comune; analisti in cerca di modifiche epigenetiche in questi clusters genomici; cacciatori di nuovi meccanismi cellulari; esperti di transgeni che tentano nuove e più affascinanti teorie, a volte anche bizzarre… e poi ci sono ricercatori che provano a dare un senso a questo puzzle di dati disarmonici. Il tutto per svelare un mistero che dura da tanti anni oramai.

Non vi è dubbio che ci sono persone che provano un certo fascino nel partecipare a questa continua caccia alla soluzione del problema strato dopo strato, tirando fuori teorie sempre più complesse ed affascinanti, ed a volte come in questo caso si tirano fuori addirittura nuovi meccanismi che si ignoravano fino a poco tempo fa.

Un in bocca al lupo a chi si addentrerà nel risolvere questo mistero anche solo per 5 minuti ed un grazie a Nico e Patrizio per l’incoraggiamento ed i consigli che mi hanno dato per la stesura di questo post.

Tags: Animali transgenici, Apoptosi, Biologia molecolare, Cellule Recettoriali, Cre/LoxP, fattori trascrizionali, mappa sensoriale, Neuroni, neuroni olfattivi, Olfatto, Percezione
5 gennaio 2009 - 11:52 am

Essere Anormali: Vantaggio o Svantaggio?

Preambolo

Carissimi,

recentemente mi è capitato di incontrare una patologia rara, che ignoravo fino a poco tempo fa, e che ha innescato in me pensieri e teorie contrastanti a cui non saprei dare un giusto ordine.

Per capirci, come al solito, c’è bisogno di fare un po’ d’ordine nel linguaggio. Il punto d’origine dei nostri assi cartesiani verbali in questo post sarà la parola ‘Normale’ che identifica, senza ombra di dubbio, una qualsiasi caratteristica che si presenta nella quasi totalità della popolazione. Da questo ‘punto zero’ potremmo allontanarci definendo un maggiore o minore grado di ‘anormalità’. Si potrebbe persino tracciare un asse con una direzione per ‘anormalità buone’ e ‘cattive’ e deporre in queste due zone tutte le possibili caratteristiche che ci fanno allontanare dalla normalità. Questa semplificazione, purtroppo, ci porta ad un limite, cioè per quanto ci potremmo sforzare alcune ‘anormalità’ potrebbero essere difficili da sistemare. Per intenderci, tutti noi saremmo certamente lieti di essere ‘anormalmente intelligenti e forti’, molto meno per ‘anormalmente bassi e brutti’. Tuttavia, alcune di queste certezze sarebbero perse quando dovremmo ipoteticamente posizionare in questo contesto la sindrome di Asperger.

Cosa è la Sindrome di Asperger?

EinsteinCosa è la Sindrome di Asperger?

Si potrebbe definire come un innato disordine del comportamento, ma è difficile avere una definizione di questa patologia in due parole, forse potrebbe essere meglio considerata semplicemente come un insieme di sintomi con una maggiore o minore gravità.

Se vi dicessi che alcuni studiosi pensano che Michelangelo, Wittgenstein, Kurt Gödel, Glenn Gould, Bobby Fischer, Satoshi Tajiri, The Vines Craig Nicholls, Albert Einstein e Isaac Newton soffrissero in qualche misura di questa ‘sindrome anormale’ e che proprio questa caratteristica donasse loro un qualcosa in più rispetto alla ‘normalità’?

Se tutto questo fosse vero, lo stesso concetto di ‘malattia’ o ‘sindrome’ si rivaluterebbe in qualcosa di assolutamente meraviglioso, anzi molti si precipiterebbero ad informarsi su come potersi ‘ammalare’ di questa ‘anormalità’.

L’anormalità è quindi positiva? Come ho già accennato non si tratta di una cosa semplice, poiché la malattia in questione è la sindrome di Asperger, un disordine psicologico che secondo alcuni appartiene alle mille sfaccettature dell’autismo. Già il concetto di autismo è di difficile comprensione, e la sindrome di Asperger sembra esserne una ulteriore complicazione, poiché prende alcune delle peggiori caratteristiche dell’autismo con le più belle caratteristiche che l’umanità possa desiderare in una complessa macchina psicologica completamente impenetrabile ad una semplice analisi.

Vi prego di non immaginare che le persone affette da questa ‘anormalità’ appaiono chiuse e taciturne come Dustin Hoffman in Rain Man; tutt’altro, la loro facilità di linguaggio è tale da poter essere definiti “iperlessici”. Si può dire anche che hanno un raro e sviluppato senso dell’umorismo, con un’abilità non comune per capire e creare doppi sensi, giochi linguistici, satira ed altro. Le persone con la sindrome di Asperger, inoltre, appaiono come delle persone molto intelligenti ed in molti casi dei veri e propri geni. Sono immersi nella società e spesso fanno dei lavori molto impegnativi e che richiedono una particolare intelligenza, cultura o concentrazione; ad esempio architettura, ingegneria, programmazione informatica e persino la chirurgia medica. Persone abbastanza ‘normali’ per trovarsi immersi nella società, ma abbastanza speciali per non essere classificati come persone mediocri anche se spesso non si rendono conto di essere così speciali.

I soggetti ‘malati’ della sindrome di Asperger sono spesso attratti, con un intenso livello di attenzione, solo da determinate cose che interessano loro e da attività in cui si possa ritrovare un certo ordine come le classificazioni, liste e simili.

L’individuo può portare avanti anche una vita di successo, poiché spesso manifesta ragionamenti estremamente sofisticati, un’attenzione pressoché ossessiva e una memoria eidetica, ovvero focalizzata sulle immagini visuali e sui dettagli, utile ad esempio nella chirurgia.

Ma allora cos’è che manca? Perché si definisce come sindrome?

L’altra faccia della medaglia

AspergerOvviamente tutto ha un prezzo, e queste persone pagano un prezzo altissimo per queste straordinarie ‘anormalità’. Quello che manca a loro è un’innata abilità di capire ed esprimere gli stati emotivi con gesti, linguaggio corporeo ed espressione facciale.

Le persone affette da sindrome di Asperger, sebbene non manchino di intelligenza e capacità linguistiche, appaiono incapaci di comprendere il significato di semplici segnali come un sorriso, che magari può essere interpretato come una semplice smorfia più che un segno di gradimento. Mancano, inoltre, dell’abilità di capire ciò che non viene detto esplicitamente ed in pari modo essi hanno difficoltà a comunicare con accuratezza il loro proprio stato emotivo.

Mentre la maggioranza delle persone al mondo si trova più o meno nella media per qualunque caratteristica fisica o psichica e di conseguenza non brilla per nessuna di queste, i bambini affetti da questa strana sindrome, invece, brillano come ‘piccoli professori’ in materie a loro piacevoli da studiare e spesso potrebbero mettere in difficoltà anche persone di livello universitario su determinati argomenti per cultura, profondità di pensiero e spiccato senso critico. Tutta questa straordinaria capacità di concentrazione, intelligenza, genialità, cultura, passione per lo studio e per la ricerca, però, è impotente di fronte alla capacità di percepire gli stati mentali degli altri a livello cognitivo ed emotivo. Le persone con la sindrome di Asperger possono osservare un sorriso e non capire se si tratti di un segno di comprensione, di accondiscendenza o di malizia, e nei casi più gravi non riescono neppure a distinguere la differenza tra sorriso, ammiccamento e altre espressioni non-verbali di comunicazione interpersonale. Per loro è estremamente difficile saper “leggere attraverso le righe”, ovvero capire quello che una persona afferma implicitamente senza dirlo direttamente.

Bisogna comunque notare che, trattandosi di un disturbo con ampio spettro di variazione, una certa percentuale di individui con la sindrome di Asperger appaiono quasi normali nella loro capacità di leggere le espressioni facciali e le intenzioni degli altri. Molti di questi inconsapevoli geni, infatti, non sanno neanche di essere affetto da una forma lieve di questa patologia, mentre altri più gravi mostrano difficoltà anche nel guardare negli occhi le altre persone, ritenendolo pericoloso e al di sopra delle proprie possibilità, oppure hanno un contatto visivo eccessivamente fisso, che può essere avvertito come “disturbante” per le persone comuni.

Genialità: Croce e Delizia

frustratoBisogna parlare anche della parte più oscura della sindrome di Asperger che come avrete intuito non dà quello che si potrebbe definire una vita tutta rose e fiori. Spesso può portare al soggetto molti problemi nelle interazioni sociali tra persone di pari livello. Un bambino affetto da tale sindrome, ad esempio, ha difficoltà a decodificare i segnali impliciti su cui si reggono le interazioni sociali e può essere messo da parte dai coetanei, generando un’alienazione sociale talmente intensa che il bambino può arrivare a creare degli amici immaginari per sentirsi in compagnia.

I problemi proseguono anche nella vita adulta, molti individui con la sindrome di Asperger, infatti, non possono avere una vita considerata socialmente appagante dalla gente comune, molti infatti rimangono pressoché soli, anche se è possibile che stringano strette relazioni con alcuni individui.

Stiamo trattando di una patologia con un diverso grado di severità, quindi si troveranno anche molte persone, che soffrendo di questo disturbo, si sono sposate e hanno avuto figli; i loro bambini possono essere persone comuni o soffrire di qualche disturbo di tipo autistico.

Tutt’oggi la causa della sindrome di Asperger non è ancora nota, anche se si sa che c’è una forte influenza genetica e non ci sono differenze neurologiche confrontati ai soggetti così detti ‘normali’.

I soggetti non hanno avuto alcun trauma evidente da piccoli, non sviluppano un ritardo nel parlare e non manca il desiderio di comunicare con l’esterno.

Tutto sommato le persone con la sindrome di Asperger sono vittime inconsapevoli dei lati oscuri della genialità, sono più facili a cadere in una forma depressiva rispetto alla popolazione generale perché essi hanno spesso difficoltà a comunicare problemi o capire quando è il momento di mostrare affetto. Amano come gli individui ‘normali’, e forse di più perché spesso sono soli, ma sono molto letterali nel parlare e hanno difficoltà nel comunicare in maniera emozionale, e frequentemente possono instillare nella propria compagna insicurezza e confusione.

Riflessioni

handicapMalattia quindi? o dono divino? Un fardello, appesantito dalla solitudine, da portare sulle spalle o semplici effetti collaterali della genialità?

Sicuramente le persone con la sindrome di Asperger non si potrebbero definire come semplici pazienti da ‘curare’, ma persone con grandi doti di intelligenza che possono contribuire attivamente allo sviluppo della società e della civiltà, come è già successo in passato. Il trattamento per la sindrome di Asperger, quindi, non c’è, ma attualmente si cerca di migliorare gli effetti collaterali che questi sintomi possono procurare. Poiché in fondo, spesso sono persone che hanno solo bisogno di essere accettati per le proprie caratteristiche. Come un non vedente che vuole dalla società un mondo più accessibile per non esserne escluso… allo stesso modo c’è chi non legge le espressioni degli altri e vorrebbe la stessa cosa. Immaginate chi si dovrebbe definire portatore di handicap… Un genio che ‘non vede’ le espressioni del viso? Oppure le persone ‘normali’ che hanno un intelletto più limitato?

Forse in questo caso la definizione ‘diversamente abile’ sarebbe più azzeccata che mai.

Tags: anormalità, autismo, genialità, handicap, Mente, Neuroscienze, normalità, Percezione, Psicologia, Sindrome di Asperger, Visione

17 maggio 2008 - 4:44 am

Di che colore è il numero 6?

SinestesiaFinalmente torno a scrivere sul blog dopo un periodo di latitanza (mi scuso con tutti i lettori, ma sono stato assorbito dalla scrittura della tesi…).

Oggi vi voglio parlare di un argomento un po’ particolare: la sinestesia. No, non sto parlando della figura retorica…. bensì del fenomeno per cui alcune persone associano determinati stimoli sensoriali associati ad un senso differente.

Il tipo di sinestesia più comune è la sinestesia associata ai grafemi. Un sinesteta associa ad un certo grafema (es. la lettera “A” o il numero “7″) un certo colore. Ad esempio la “A” potrebbe essere associata al rosso: alcune persone vedono effettivamente le lettere colorate, altri creano un’associazione nella loro mente, ma riescono comunque a definire il “vero” colore della lettera. Altri tipi di sinestesia più rari coinvolgono, ad esempio, il gusto: in questo caso la persona percepisce una certa sensazione gustativa quando pronuncia una determinata parola.

Potete leggere un interessante report di un caso di questo tipo in questo articolo (free!)The perceptual reality of synesthetic colors.

L’articolo presenta un’analisi di un caso di sinestesia grafema->colore, in cui il soggetto vede lettere o numeri di un certo colore, anche se sono scritti effettivamente in nero. Uno degli esperimenti consiste nell’identificare un 2 in una figura (generata casualmente dal computer) piena di 5. Il tutto è scritto in bianco su nero, ma il sinesteta ha tempi di risposta più bassi di non-sinesteti a cui viene proposto lo stesso task in quanto per lui il 2 è arancione ed i 5 sono azzurri. Se però la stessa cosa viene fatta con 6 ed 8 che lui vede entrambi in blu, oppure con simboli che non rappresentano una lettera o un numero, i tempi di risposta non sono differenti da quelli dei non-sinesteti.

Un famoso test per individuare sinesteti grafema->colore è l’utilizzo dell’effetto Stroop. Un esempio di questo effetto è il seguente:

dite ad alta voce, ed il più velocemente possibile i colori di queste parole

Rosso Blu Verde Giallo Nero Blu

ora fate lo stesso con queste

Blu Giallo Blu Verde Rosso Rosso Blu

L’effetto Stroop è l’effetto per cui è più difficile dire i colori della seconda serie di parole rispetto alla prima, in quanto nel nostro cervello c’è un’interferenza fra il significato della parola e la percezione della parola stessa. Se ad un sinesteta che vede il numero 6 in rosso viene fatto lo stesso test chiedendogli di dire il colore di questi due numeri:

6 6

la performance nel nominare il colore del secondo sarà più bassa che per il primo.

Il primo report pubblicato di questo fenomeno risale a fine ’800 quando Francis Galton pubblicava su The Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland l’articolo (molto interessante, consiglio di leggerlo) “Visualised numerals“. Le esatte cause di questo fenomeno non sono note, ma sembra che derivi dal fatto che alcune aree della corteccia cerebrale deputate alla percezione di diversi sensi siano collegate in maniera “non corretta“. La sinestesia ha anche una componente genetica ed è infatti una condizione presente in più individui nella stessa famiglia.

Dunque vi chiedo… di che colore è il numero 6?

Tags: Mente, Percezione, Psicologia, Sinestesia
14 marzo 2008 - 10:59 pm

Allo specchio (parte seconda, ovvero canta che ti passa)

(…continua dal post precedente)

Come dicevamo nella prima parte di questo post i neuroni mirror giocano un ruolo importante nell’imitazione. In questa seconda parte vi mostrerò un esempio pratico del funzionamento di questi neuroni, parlandovi di un articolo apparso sull’ultimo numero di Nature:
Precise auditory-vocal mirroring in neurons for learned vocal communication – Nature 2008 Jan 17;451(7176):305-10.

Questo articolo mostra la presenza di neuroni mirror nel cervello del passero che vengono attivati quando l’uccello canta una sua canzone e quando sente la stessa canzone cantata da un altro uccello (o sente una registrazione della sua canzone).
Gli uccelli canori, infatti, sono noti per imitare il verso di altri uccelli e i piccoli di queste specie imparano a cantare imitando i propri genitori.

Per effettuare questi esperimenti Prather e colleghi hanno sfruttato il fatto che molti uccelli canori hanno una tendenza al controcanto: quando sentono un altro uccello cantare nel loro territorio, infatti, rispondono cantando anche essi. Questo può essere un gesto di “sfida” nei confronti di un uccello di un’altra specie o ad esempio un gesto di riconoscimento di un “familiare”.
I ricercatori hanno quindi utilizzato registrazioni del canto di vari uccelli e sono riusciti a trovare dei mirror neurons che sono attivati sia quando l’uccello sente la registrazione sia quando vi risponde.

Mirror neurons responses

Questa immagine fa vedere un esempio della risposta di neuroni auditori. Nella prima colonna è mostrata la risposta alla canzone primaria dell’uccello. La prima traccia in alto rappresenta l’attività di un singolo neurone, e ciascuno dei picchi che vanno in basso è corrispondente ad un potenziale d’azione, indice di attività di quel neurone. L’attività è massima in corrispondenza dello stimolo auditorio (che vedete nell’ultima riga).
Se confrontate questa risposta con la risposta ad un altra canzone dello stesso uccello (colonna 2) o di un altro uccello (colonna 3) potete notare come in questi ultimi due casi non ci sia corrispondenza fra lo stimolo e i potenziali d’azione.
La cosa è ancora più chiara guardando la seconda riga che mostra la risposta del neurone a diverse presentazioni dello stimolo. Nel grafico ciascun puntino rappresenta un potenziale d’azione e ciascuna riga rappresenta un diverso trial su quel neurone. Come potete vedere la risposta è quindi altamente riproducibile.

Ma cosa succede durante il controcanto? Beh, ecco un esempio dei risultati ottenuti:
Mirror neurons responses

In a) l’uccello è esposto ad una registrazione della sua canzone primaria, e il neurone è attivo durante quel periodo. A questo punto l’uccello esegue un controcanto in risposta (con la stessa canzone) e il neurone è ancora attivo. Se però la canzone ascoltata e quella cantata differiscono (b e c) il neurone è attivo solo in una delle due situazioni! Insomma, una cosa molto simile a quanto visto nelle scimmie da Rizzolatti e colleghi (vedi post precedente).

Infine gli autori mostrano anche che queste risposte sono specifiche per le singole note del canto. Alcuni neuroni rispondono durante una particolare nota in una sequenza: facendo ascoltare la sequenza al contrario la risposta è molto attenuata, ma invece persiste se si fa ascoltare una registrazione della canzone di un altro uccello che abbia note simili.

Concludendo, questo studio mostra un altro interessante esempio di come il cervello interpreti con precisione le informazioni derivate dall’ambiente e di come l’imitazione sia codificata a livello neuronale. Situazioni simili a quella descritta in questo articolo potrebbero anche essere alla base dell’apprendimento del linguaggio nell’uomo, probabilmente integrate anche da altri stimoli (visuali e motori).

Tags: Elettrofisiologia, Imitazione, Percezione, Potenziali d'azione
4 marzo 2008 - 2:06 am

Allo specchio

A tutti noi è capitato di dover imparare a fare qualcosa: come è noto uno dei modi migliori è iniziare guardando qualcun altro che fa ciò che vogliamo imparare. Che si tratti di suonare uno strumento, usare un macchinario in laboratorio o imparare a parlare, infatti, l’imitazione gioca sicuramente un ruolo importante nel nostro processo di apprendimento. Ma come funziona esattamente tutto ciò? Abbiamo già detto in post precedenti (ad es. questo e questo) che il nostro cervello memorizza ed impara attraverso il rafforzamento di alcune sinapsi e l’indebolimento di altre… ma come entra l’imitazione in questo sistema?
Purtroppo non vi posso dare una risposta completa, ma vi posso raccontare almeno parte della storia.


Un macaco neonato imita un ricercatore che tira fuori la lingua!
(da Evolution of Neonatal Imitation. Gross L, PLoS Biology Vol. 4/9/2006, e311)

Tutto cominciò circa una decina di anni fa con gli studi di Giacomo Rizzolatti e colleghi all’università di Parma, i quali stavano studiando l’attività dei neuroni della corteccia premotoria del macaco, una regione coinvolta nella pianificazione delle azioni e nella decisione di quali atti compiere (da cui il nome premotoria). Ad esempio, alcuni neuroni di questa regione potrebbero venire attivati quando il macaco prende un pezzo di cibo da un piatto per metterlo in bocca, altri potrebbero essere attivati quando invece si arrampica su di un albero.
Durante i loro studi, Rizzolatti e colleghi scoprirono l’esistenza di una sottopopolazione (10-20%) di questi neuroni, i quali vengono attivati sia quando l’animale fa una certa azione (es. prende una banana), sia quando vede un altro animale fare la stessa azione. Questi neuroni furono chiamati mirror neurons o neuroni specchio e sembrano essere degli ottimi candidati per spiegare questi processi di apprendimento per imitazione.
La precisione di questi neuroni è notevole: ad esempio, un certo neurone che veniva attivato quando la scimmia prendeva il cibo, veniva anche attivato quando vedeva il ricercatore prendere il cibo. Se però quest ultimo usava delle pinze per prendere il cibo l’attivazione era molto minore, e praticamente nulla se faceva il gesto di prendere qualcosa, ma senza che effettivamente ci fosse del cibo.
Da allora, molti studi sono stati fatti nel campo dei neuroni mirror che sono stati trovati anche nell’uomo e in alcune specie di uccelli (come vedremo nella seconda parte di questo post).
In particolare sembra che questi neuroni siano molto importanti nei processi di apprendimento del linguaggio e altri studi hanno suggerito che un loro malfunzionamento potrebbe essere in parte implicato nell’autismo.

Per chi fosse interessato, ecco il link ad uno degli articoli di Rizzolatti: Action recognition in the premotor cortex

(continua…)

Tags: Imitazione, Memoria, Mente, Neuroscienze, Percezione, Plasticità sinaptica, Visione