Uno sguardo ai meccanismi della mente

Inside Neuroscience

16 aprile 2010 - 2:37 pm

Memento

Preambolo

Oggi vi scrivo, ahimè, dal letto poiché ammalato. Con tanto tempo a disposizione e poco altro da fare ho scritto un nuovo post, spero per voi, interessante. Oggi parleremo della memoria e dei suoi aspetti più curiosi. La parola chiave di oggi è ‘Memento’, un termine latino ed inglese che significa “ricordati” e che tra l’altro è anche un titolo di un film utile da commentare.

Memento

Il film Memento, diretto da Christopher Nolan nel 2000, parla di un ragazzo di nome Leonard Shelby impegnato nel vendicarsi di alcuni criminali che violentarono ed uccisero la moglie durante una rapina andata male. Tentando di salvare la moglie dai due malviventi, Leonard rimane gravemente ferito alla testa, e  tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi (‘amnesia anterograda’). Leonard ricorda proprio tutto quello che è successo poco prima dell’incidente, ma è incapace di fissare nuovi ricordi. Per immedesimarsi meglio nel protagonista, il montaggio del film replica proprio il suo punto di vista. In pratica il film procede su due binari: le scene si susseguono alternativamente dall’ultima in ordine cronologico, poi alla prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. In questo modo lo spettatore insieme al protagonista vive il momento sospeso nel tempo e senza poterlo inquadrare in un contesto cronologico. L’intreccio, montato lungo tutto il film, verrà sciolto solo alla fine con una scena chiave. Consiglierei la visione di questo film agli appassionati di puzzle, ed a quelli che hanno un’ottima memoria.

Henry Gustav Molaison

Tra le altre cose il protagonista del film ricorda dettagliatamente la storia di un certo Sammy che ha avuto il suo stesso problema di memoria. I frammenti di questa storia nella storia sono sparsi lungo tutto il film, ed è volutamente confusa da molte scene di pochi secondi che insinuano dubbi e perplessità nello spettatore.

Una cosa molto curiosa è che la storia di Sammy narrata dal protagonista nel film è ispirata da un fatto vero e che ha fatto molto eco nel campo delle neuroscienze. Si tratta di Henry Gustav Molaison, sicuramente uno dei più grandi contributori nel campo delle neuroscienze. Come avete capito, non si tratta di un grande ricercatore e neanche di un coraggioso eroe, bensì si tratta di una persona davvero molto sfortunata, che suo malgrado ha rivoluzionato il campo nelle neuroscienze degli ultimi 50 anni. La sua storia e la sua patologia è stata studiata dettagliatamente da neurologi, psichiatri e da tanti studenti di medicina per tantissimi anni. Per capirne l’importanza basta dire che su di lui ci sono centinaia di pubblicazioni su importanti riviste scientifiche internazionali che vanno dagli anni ’50 fino a pochi anni fa. Henry è stato definito da tutti il più importante paziente nella storia delle neuroscienze. Lo stesso prof. Eric Kandel, uno dei più grandi neuroscienziati moderni, definì lo studio di Brenda Milner sul paziente H. M. come una pietra miliare nella storia delle neuroscienze moderne per capire la memoria umana e le patologie ad esse correlate.

Andiamo con ordine

La storia di Henry, noto alla ricerca come paziente H.M., incomincia nel 1935 all’età di 9 anni con un incidente ciclistico che gli procurerà delle pericolose crisi epilettiche. All’età di 27 anni è costretto ad una operazione chirurgica per ridurre le crisi epilettiche e gli svenimenti che avrebbero potuto portarlo alla morte. C’è da dire che a quel tempo non c’erano ancora dei farmaci per trattare efficacemente le crisi epilettiche e tanto meno si conoscevano le dettagliate funzioni cerebrali. A quel tempo il campo delle neuroscienze era molto rudimentale, anche se in piena crescita esponenziale. Fu il chirurgo William Scoville, dell’Hartford Hospital a rimuovere parte dei lobi temporali mediali per tentare di curarlo. In seguito all’operazione Henry perse, oltre ad una parte dei lobi temporali mediali, circa due terzi dell’ippocampo, il giro paraippocampale e l’amigdala.

Il risultato dell’operazione fu un successo dal punto di vista delle crisi epilettiche ma i 2 cm di ippocampo che rimasero si atrofizzarono velocemente a causa dell’interruzione di alcune vie nervose della corteccia entorinale. Al risveglio dall’operazione ci si rese subito conto dei nuovi problemi che Henry aveva acquisito.

Da quel 1 Settembre 1953 la sua memoria si fermò e si aprì davanti a lui un lungo ed inconsapevole calvario tra tanti medici e ricercatori che se lo contesero per anni. Henry, a distanza di decine di anni ricordava perfettamente tutta la sua storia fino all’operazione chirurgica, ricordava tutti i dettagli della sua famiglia, dei suoi problemi e della sua storia, ma era incapace di riconoscere i medici e gli amici che sono stati accanto a lui per i successivi 55 anni dopo l’incidente. Ha partecipato, senza ricordarsene, a centinaia di studi ed ha aiutato a capire tantissime caratteristiche della memoria fino ad allora del tutto inattese.

Per inquadrare meglio il periodo storico, bisogna considerare che agli inizi del 1900 il campo delle neuroscienze era pura alchimia, non c’erano colture in vitro di neuroni, niente TAC, niente NMR, niente PET etc… Non c’era modo di guardare dentro il cervello di una persona viva e tanto meno potevano essere prevedibili gli effetti di contusioni ed operazioni chirurgiche alla testa. A quel tempo, mentre Freud sviluppò la contestata psicoanalisi, i neurologi si affacciavano all’immensità del campo delle neuroscienze.

La memoria

La teoria che andava per la maggiore all’inizio del secolo scorso era che la memoria fosse un’entità unica distribuita in modo uniforme in tutto il cervello, per cui si pensava che un trauma cerebrale poteva intaccare una determinata zona del cervello rendendo inaccessibile una parte della memoria passata. Da questo si poteva anche dedurre che eliminando una parte dell’encefalo si poteva rimuovere parte dei ricordi passati senza intaccare la funzionalità della memoria stessa. Non ci si deve meravigliare, quindi, se all’inizio il caso clinico di Henry fu accesamente discusso da chi pensava che fosse l’incidente traumatico che causò l’epilessia a condizionare il suo cervello oppure ad errori post-operatori. Tutti i test proposti e poi svolti su Henry dimostrarono che il paziente aveva una memoria pienamente intatta e funzionante in ogni aspetto fino al giorno dell’incidente per cui non è stata rimossa o resa inaccessibile la zona in cui la memoria vi è contenuta. Il problema mnemonico riguardava solo il meccanismo che fissa i nuovi ricordi.

La complessità della memoria

Presto i ricercatori però si accorsero che il problema era molto più complesso di quanto si pensasse, sebbene il paziente non ricordava alcunché di quello che aveva fatto, era in grado di imparare nuove cose. Si sapeva, infatti che Henry andava in bicicletta quando era ragazzo e la sua memoria aveva fissato il meccanismo prima dell’incidente, quindi era normale che riuscisse a farlo anche dopo. Tuttavia alcuni medici sapevano anche che Henry non aveva mai visto il mare e tanto meno sapeva nuotare. I medici provarono ad insegnarglielo e con grande sorpresa notarono che riusciva ad imparare la nuova tecnica. Ogni giorno Henry si stupiva nel vedere una piscina per la prima volta, e sorprendentemente scopriva anche di saper già nuotare. Lo stesso succedeva per esercizi di abilità.

I risultati dimostravano chiaramente che la memoria poteva essere divisa grossolanamente in memoria a breve termine ed a lungo termine, con meccanismi indipendenti. Tuttavia, l’altra scoperta ancora più interessante é che esiste anche una ulteriore suddivisione della memoria in procedurale e cognitiva.

Le sorprese non finiscono qui, poiché mentre il mondo si chiedeva quale fosse il limite tra la memoria breve termine quella a lungo termine, e poi cercava di dare una definizione alla memoria procedurale, alcuni ricercatori scoprirono che Henry era in grado di disegnare una piantina topografica della sua abitazione. Sicuramente fu una nuova scoperta sensazionale, poiché Henry non è mai stato in quella casa prima dell’incidente. Fu coniata così anche un altro tipo di memoria, detta spaziale, che interagisce con le altre tipologie di memoria pur rimanendone separata.

Se pensate che le suddivisioni della memoria finiscano qui siete ben lontani dalla realtà, proprio pochi anni fa sono state definite 2 nuove sottocategorie. E’ stato identificato un paziente, definito C.L., che soffre di una selettiva amnesia anterograda. Il paziente C.L. è in grado di avere una discreta capacità di acquisire nuove semplici informazioni oggettive. La cosa incredibile è che la sua capacità di fissare i ricordi correlabili con il tempo o con lo spazio è praticamente nulla. Nel giro di diversi mesi, infatti, i ricercatori sono stati in grado di insegnargli nuove parole ed aumentare le sue informazioni di cultura generale, però il paziente non è riuscito a manifestare alcun progresso nel ricordare dove fosse stato e cosa fosse successo pochi minuti prima. I ricercatori hanno definito così una memoria episodica, correlata con il tempo, ed una memoria semantica, correlata con semplici informazioni indipendenti dal contesto temporale. Ancora oggi si discute sull’esistenza reale di queste sottocategorie ed i limiti per definirle.

Purtroppo è improbabile trovare un modello animale in cui studiare la memoria a questi livelli di categorizzazione, attualmente le uniche possibilità per capire queste effimere differenze sono limitate dalla scoperta di pazienti affetti da forme di particolari di amnesia e da esperti ricercatori che riescano ad identificarle. È ipotizzabile quindi che le ulteriori suddivisioni e categorizzazioni della memoria sono solo all’inizio del loro percorso,

Riprodurre il fenomeno?

Si può riprodurre l’amnesia anterograda? E’ noto che alcuni farmaci e l’intossicazione da alcool possono riprodurre l’amnesia anterograda in maniera transitoria, ma non danno un’idea chiara del meccanismo molecolare su cui si basa. Oggi si sa che i circuiti neuronali presenti nei lobi temporali mediali sono coinvolti in questa patologia, ma si sa anche che si può ottenere lo stesso deficit mediante il danneggiamento selettivo di altre aree cerebrali. C’è da aggiungere che l’interruzione dei circuiti cerebrali dei lobi temporali non causano sempre dei danni alla memoria anterograda, quindi si tratta di una condizione non necessaria e neanche sufficiente. In definitiva, nonostante gli innumerevoli studi sui circuiti di queste regioni cerebrali, il processo di memorizzazione e di recupero della memoria rimane un grande mistero. Ancora oggi, i neuropsicologi e gli scienziati discutono su quale sia il deficit responsabile dell’amnesia anterograda. Sono state poste diverse teorie: difficoltà nella codifica delle nuove informazioni per la memoria, accelerazione dell’eliminazione dei ricordi appena acquisiti, oppure mancato accesso ai ricordi recenti.

La morte

Il martedì sera del 2 dicembre 2008, Henry Gustav Molaison si spegne in una clinica quasi dimenticato nonostante il suo incredibile contributo alla medicina ed alla civiltà mondiale. Le persone a lui vicine per ricerca o per la cura ricordano Henry come la persona più gentile, paziente, e di buona volontà che avessero mai incontrato. Era sempre sorprendente quando più volte al giorno si presentasse a persone a lui vicine da più di mezzo secolo, e quando raccontava del suo presente, in cui Truman era il presidente degli USA e la televisione era una ancora una nuova invenzione.

La dottoressa Corkin, che gli é stato vicino fino agli ultimi momenti definendolo un membro della sua famiglia, ha scritto un libro intitolato “una vita senza memoria” (“A Lifetime Without Memory.” “You’d think it would be impossible to have a relationship with someone who didn’t recognize you, but I did.”).

Alla morte, il cervello di Henry é stato accuratamente analizzato e dissezionato in circa 2400 fette in diretta web, per le generazioni future. Un ultimo ed inconsapevole contributo alle neuroscienze che spero non venga dimenticato.

Conclusione

Oggi é abbastanza chiaro che esistono tanti tipi di memoria e tanti meccanismi di immagazzinamento e di recupero. Le diverse aree cerebrali ed i circuiti in esse contenuti sono coinvolti in compiti specifici ma spesso difficilmente catalogabili secondo schemi oggettivi.

Nel prossimo post vedremo perché c’è un’oggettiva difficoltà nella comprensione i questi circuiti e come questi interagiscano con la memoria stessa.

Alla prossima

Tags: Casi clinici, hadicap, Memoria, Mente, Percezione, Psicologia
5 gennaio 2009 - 11:52 am

Essere Anormali: Vantaggio o Svantaggio?

Preambolo

Carissimi,

recentemente mi è capitato di incontrare una patologia rara, che ignoravo fino a poco tempo fa, e che ha innescato in me pensieri e teorie contrastanti a cui non saprei dare un giusto ordine.

Per capirci, come al solito, c’è bisogno di fare un po’ d’ordine nel linguaggio. Il punto d’origine dei nostri assi cartesiani verbali in questo post sarà la parola ‘Normale’ che identifica, senza ombra di dubbio, una qualsiasi caratteristica che si presenta nella quasi totalità della popolazione. Da questo ‘punto zero’ potremmo allontanarci definendo un maggiore o minore grado di ‘anormalità’. Si potrebbe persino tracciare un asse con una direzione per ‘anormalità buone’ e ‘cattive’ e deporre in queste due zone tutte le possibili caratteristiche che ci fanno allontanare dalla normalità. Questa semplificazione, purtroppo, ci porta ad un limite, cioè per quanto ci potremmo sforzare alcune ‘anormalità’ potrebbero essere difficili da sistemare. Per intenderci, tutti noi saremmo certamente lieti di essere ‘anormalmente intelligenti e forti’, molto meno per ‘anormalmente bassi e brutti’. Tuttavia, alcune di queste certezze sarebbero perse quando dovremmo ipoteticamente posizionare in questo contesto la sindrome di Asperger.

Cosa è la Sindrome di Asperger?

EinsteinCosa è la Sindrome di Asperger?

Si potrebbe definire come un innato disordine del comportamento, ma è difficile avere una definizione di questa patologia in due parole, forse potrebbe essere meglio considerata semplicemente come un insieme di sintomi con una maggiore o minore gravità.

Se vi dicessi che alcuni studiosi pensano che Michelangelo, Wittgenstein, Kurt Gödel, Glenn Gould, Bobby Fischer, Satoshi Tajiri, The Vines Craig Nicholls, Albert Einstein e Isaac Newton soffrissero in qualche misura di questa ‘sindrome anormale’ e che proprio questa caratteristica donasse loro un qualcosa in più rispetto alla ‘normalità’?

Se tutto questo fosse vero, lo stesso concetto di ‘malattia’ o ‘sindrome’ si rivaluterebbe in qualcosa di assolutamente meraviglioso, anzi molti si precipiterebbero ad informarsi su come potersi ‘ammalare’ di questa ‘anormalità’.

L’anormalità è quindi positiva? Come ho già accennato non si tratta di una cosa semplice, poiché la malattia in questione è la sindrome di Asperger, un disordine psicologico che secondo alcuni appartiene alle mille sfaccettature dell’autismo. Già il concetto di autismo è di difficile comprensione, e la sindrome di Asperger sembra esserne una ulteriore complicazione, poiché prende alcune delle peggiori caratteristiche dell’autismo con le più belle caratteristiche che l’umanità possa desiderare in una complessa macchina psicologica completamente impenetrabile ad una semplice analisi.

Vi prego di non immaginare che le persone affette da questa ‘anormalità’ appaiono chiuse e taciturne come Dustin Hoffman in Rain Man; tutt’altro, la loro facilità di linguaggio è tale da poter essere definiti “iperlessici”. Si può dire anche che hanno un raro e sviluppato senso dell’umorismo, con un’abilità non comune per capire e creare doppi sensi, giochi linguistici, satira ed altro. Le persone con la sindrome di Asperger, inoltre, appaiono come delle persone molto intelligenti ed in molti casi dei veri e propri geni. Sono immersi nella società e spesso fanno dei lavori molto impegnativi e che richiedono una particolare intelligenza, cultura o concentrazione; ad esempio architettura, ingegneria, programmazione informatica e persino la chirurgia medica. Persone abbastanza ‘normali’ per trovarsi immersi nella società, ma abbastanza speciali per non essere classificati come persone mediocri anche se spesso non si rendono conto di essere così speciali.

I soggetti ‘malati’ della sindrome di Asperger sono spesso attratti, con un intenso livello di attenzione, solo da determinate cose che interessano loro e da attività in cui si possa ritrovare un certo ordine come le classificazioni, liste e simili.

L’individuo può portare avanti anche una vita di successo, poiché spesso manifesta ragionamenti estremamente sofisticati, un’attenzione pressoché ossessiva e una memoria eidetica, ovvero focalizzata sulle immagini visuali e sui dettagli, utile ad esempio nella chirurgia.

Ma allora cos’è che manca? Perché si definisce come sindrome?

L’altra faccia della medaglia

AspergerOvviamente tutto ha un prezzo, e queste persone pagano un prezzo altissimo per queste straordinarie ‘anormalità’. Quello che manca a loro è un’innata abilità di capire ed esprimere gli stati emotivi con gesti, linguaggio corporeo ed espressione facciale.

Le persone affette da sindrome di Asperger, sebbene non manchino di intelligenza e capacità linguistiche, appaiono incapaci di comprendere il significato di semplici segnali come un sorriso, che magari può essere interpretato come una semplice smorfia più che un segno di gradimento. Mancano, inoltre, dell’abilità di capire ciò che non viene detto esplicitamente ed in pari modo essi hanno difficoltà a comunicare con accuratezza il loro proprio stato emotivo.

Mentre la maggioranza delle persone al mondo si trova più o meno nella media per qualunque caratteristica fisica o psichica e di conseguenza non brilla per nessuna di queste, i bambini affetti da questa strana sindrome, invece, brillano come ‘piccoli professori’ in materie a loro piacevoli da studiare e spesso potrebbero mettere in difficoltà anche persone di livello universitario su determinati argomenti per cultura, profondità di pensiero e spiccato senso critico. Tutta questa straordinaria capacità di concentrazione, intelligenza, genialità, cultura, passione per lo studio e per la ricerca, però, è impotente di fronte alla capacità di percepire gli stati mentali degli altri a livello cognitivo ed emotivo. Le persone con la sindrome di Asperger possono osservare un sorriso e non capire se si tratti di un segno di comprensione, di accondiscendenza o di malizia, e nei casi più gravi non riescono neppure a distinguere la differenza tra sorriso, ammiccamento e altre espressioni non-verbali di comunicazione interpersonale. Per loro è estremamente difficile saper “leggere attraverso le righe”, ovvero capire quello che una persona afferma implicitamente senza dirlo direttamente.

Bisogna comunque notare che, trattandosi di un disturbo con ampio spettro di variazione, una certa percentuale di individui con la sindrome di Asperger appaiono quasi normali nella loro capacità di leggere le espressioni facciali e le intenzioni degli altri. Molti di questi inconsapevoli geni, infatti, non sanno neanche di essere affetto da una forma lieve di questa patologia, mentre altri più gravi mostrano difficoltà anche nel guardare negli occhi le altre persone, ritenendolo pericoloso e al di sopra delle proprie possibilità, oppure hanno un contatto visivo eccessivamente fisso, che può essere avvertito come “disturbante” per le persone comuni.

Genialità: Croce e Delizia

frustratoBisogna parlare anche della parte più oscura della sindrome di Asperger che come avrete intuito non dà quello che si potrebbe definire una vita tutta rose e fiori. Spesso può portare al soggetto molti problemi nelle interazioni sociali tra persone di pari livello. Un bambino affetto da tale sindrome, ad esempio, ha difficoltà a decodificare i segnali impliciti su cui si reggono le interazioni sociali e può essere messo da parte dai coetanei, generando un’alienazione sociale talmente intensa che il bambino può arrivare a creare degli amici immaginari per sentirsi in compagnia.

I problemi proseguono anche nella vita adulta, molti individui con la sindrome di Asperger, infatti, non possono avere una vita considerata socialmente appagante dalla gente comune, molti infatti rimangono pressoché soli, anche se è possibile che stringano strette relazioni con alcuni individui.

Stiamo trattando di una patologia con un diverso grado di severità, quindi si troveranno anche molte persone, che soffrendo di questo disturbo, si sono sposate e hanno avuto figli; i loro bambini possono essere persone comuni o soffrire di qualche disturbo di tipo autistico.

Tutt’oggi la causa della sindrome di Asperger non è ancora nota, anche se si sa che c’è una forte influenza genetica e non ci sono differenze neurologiche confrontati ai soggetti così detti ‘normali’.

I soggetti non hanno avuto alcun trauma evidente da piccoli, non sviluppano un ritardo nel parlare e non manca il desiderio di comunicare con l’esterno.

Tutto sommato le persone con la sindrome di Asperger sono vittime inconsapevoli dei lati oscuri della genialità, sono più facili a cadere in una forma depressiva rispetto alla popolazione generale perché essi hanno spesso difficoltà a comunicare problemi o capire quando è il momento di mostrare affetto. Amano come gli individui ‘normali’, e forse di più perché spesso sono soli, ma sono molto letterali nel parlare e hanno difficoltà nel comunicare in maniera emozionale, e frequentemente possono instillare nella propria compagna insicurezza e confusione.

Riflessioni

handicapMalattia quindi? o dono divino? Un fardello, appesantito dalla solitudine, da portare sulle spalle o semplici effetti collaterali della genialità?

Sicuramente le persone con la sindrome di Asperger non si potrebbero definire come semplici pazienti da ‘curare’, ma persone con grandi doti di intelligenza che possono contribuire attivamente allo sviluppo della società e della civiltà, come è già successo in passato. Il trattamento per la sindrome di Asperger, quindi, non c’è, ma attualmente si cerca di migliorare gli effetti collaterali che questi sintomi possono procurare. Poiché in fondo, spesso sono persone che hanno solo bisogno di essere accettati per le proprie caratteristiche. Come un non vedente che vuole dalla società un mondo più accessibile per non esserne escluso… allo stesso modo c’è chi non legge le espressioni degli altri e vorrebbe la stessa cosa. Immaginate chi si dovrebbe definire portatore di handicap… Un genio che ‘non vede’ le espressioni del viso? Oppure le persone ‘normali’ che hanno un intelletto più limitato?

Forse in questo caso la definizione ‘diversamente abile’ sarebbe più azzeccata che mai.

Tags: anormalità, autismo, genialità, handicap, Mente, Neuroscienze, normalità, Percezione, Psicologia, Sindrome di Asperger, Visione

23 novembre 2008 - 11:53 pm

Sonno e false memorie

In post precedenti abbiamo già parlato di memoria. Oggi vi voglio parlare di un recente studio che ho trovato molto interessante, e che analizza come il sonno possa influenzare la memoria. Una delle teorie riguardanti il sonno dice che esso ci permette di consolidare gli avvenimenti del giorno e formare nuove memorie grazie al riarrangiamento delle sinapsi fra i neuroni di diverse zone cerebrali. Un recente articolo di Susanne Diekelmann e colleghi, pubblicato su PlOS One, correla la deprivazione di sonno con la formazione delle cosiddette false memorie. Trovate il testo completo (accessibile gratuitamente) qui: “Sleep Loss Produces False Memories“.

Innanzitutto definiamo cosa si intende per falsa memoria: si intende il ricordo da parte di una persona di un fatto falso, di qualcosa che non è mai avvenuto, senza però che il soggetto stia mentendo; anzi, la persona è assolutamente in buona fede in quanto -almeno nella sua memoria- quello specifico avvenimento c’è effettivamente stato. L’ovvia domanda a questo punto è: come è possibile che vengano a formarsi queste false memorie?

Il processo di formazione della memoria ci è ancora in parte oscuro, ma sembra che il sonno sia una componente essenziale nel plasmarla. Durante il giorno noi assistiamo a degli avvenimenti, impariamo nuove nozioni, facciamo nuove scoperte e di notte il nostro cervello processa il tutto, escludendo alcune cose, e salvandone altre. Questo processo consiste di una consolidazione sinaptica, per cui i nuovi fatti che abbiamo imparato vengono stampati in particolari circuiti cerebrali, e di una consolidazione del sistema, per cui questi nuovi fatti vengono integrati con fatti preesistenti e già memorizzati in altri circuiti. Questo ultimo processo ci permette di correlare le nostre vecchie memorie con quelle nuove.
Una delle ipotesi sulle false memorie è quella che, poichè il nostro cervello non è una macchina perfetta, lo stesso processo di memorizzazione possa portare alla formazione di false memorie, se il consolidamento di questi nuovi dati non viene effettuato correttamente. Lo studio di cui voglio parlarvi oggi, tuttavia, analizza la situazione opposta, cioè la deprivazione del sonno, come fattore che può generare false memorie.

Lo studio in questione ha comparato la formazione di false memorie in diversi gruppi di persone deprivate o meno del sonno in diverse situazioni.

Ma come si può valutare una cosa del genere? Esiste un apposito test, chiamato test DRM (dalle iniziali dei suoi inventori: Deese, Roediger e McDermott) che massimizza la formazione di queste false memorie ed è quindi un buon metodo per valutarne la presenza. Il test è molto semplice: nella prima fase di training vengono lette ai partecipanti vari gruppi di 15 parole in qualche modo correlate, ad esempio: “notte”, “buio”, “carbone”, … In questa lista, tuttavia, manca il termine chiave, nel nostro esempio “nero”, che li collega tutti. Dopo un certo periodo ai partecipanti vengono mostrate delle parole rientranti in 3 categorie: le parole della lista, che erano presenti tra quelle lette nella fase di training, parole trabocchetto, cioè le parole chiave (“nero” nell’esempio di prima) che sono collegate alle altre ma non erano state lette, ed infine parole di altre liste, ad es. “alto”. I partecipanti devono quindi dire se le parole mostrate erano state lette loro in precedenza, e dare anche un’indicazione (come punteggio da 1 a 4) su quanto siano sicuri della propria risposta. Ovviamente, poichè le parole chiave sono correlate alle altre, è facile che una persona ne abbia una falsa memoria. Il test dà quindi tre risultati: false memorie (es. dire che “nero” era nella lista), hits, cioè risposte esatte (es. dire che “notte” era nella lista), e falsi allarmi (es. dire che “alto” era nella lista).

Per vedere se effettivamente il sonno ha un ruolo nella formazione di queste memorie, sono stati testati diversi paradigmi di deprivazione, mostrati in questa figura.

Sleep loss paradigms

L’esperimento 1 consiste di 3 gruppi:
- un gruppo che riceve il training (indicato da L nell’immagine) di sera, rimane sveglio (wake) di notte e viene testato (quadrato con R) la mattina dopo.
- un gruppo che riceve il training sempre di sera, ma dorme (sleep) di notte, per essere poi testato al mattino.
- un terzo gruppo che riceve il training di mattina e viene testato il pomeriggio, senza aver dormito.

Il risultato di questo primo esperimento è molto interessante: il gruppo deprivato di sonno, infatti, mostra più false memorie non solo rispetto al gruppo che ha dormito, ma anche rispetto al gruppo testato durante il giorno. Non c’è invece differenza fra il gruppo che ha dormito e quello testato di giorno. I tre gruppi hanno invece mostrato percentuali non differenti di hits e falsi allarmi.

Questo sembrerebbe indicare che la deprivazione del sonno durante la notte provoca un aumento delle false memorie, ma che il sonno non sia strettamente necessario per consolidare le memorie, almeno a breve termine.

Con l’esperimento 2 il gruppo ha investigato più nel dettaglio questi processi.
In questo caso entrambi i gruppi ricevono il training di sera, dormono e passano la giornata successiva senza essere testati. A questo punto, un gruppo dorme e l’altro viene deprivato del sonno, prima del test la mattina successiva.

Anche in questo caso i risultati sono gli stessi dell’esperimento 1. Il gruppo che non ha dormito prima del test presenta una maggiore percentuale di false memorie (ma non di hits o falsi allarmi) rispetto al gruppo di controllo che ha dormito. Questo vuol dire che il problema sta nella fase di retrieval, cioè di recupero delle memorie al momento del test. Chi non ha dormito di notte fa più fatica a recuperare quello che il suo cervello ha memorizzato e quindi ha più false memorie.

Questi risultati sono stati confermati dall’esperimento 3, in cui la deprivazione del sonno viene effettuata in uno dei due gruppi dopo il training, ma non prima del testing. In questo caso non ci sono state differenze fra i due gruppi. Questo significa che anche chi non ha dormito dopo il training è stato in grado di consolidare le nuove memorie, ma avendo entrambi i gruppi dormito prima del test hanno avuto ugual capacità di recuperare queste memorie, confermando quindi l’importanza del sonno per il retrieval.

Infine, l’ultimo esperimento che è stato effettuato ha valutato il coinvolgimento di un particolare neurotrasmettitore, chiamato adenosina, che in altri studi è stato visto essere correlato a problemi cognitivi risultanti dalla deprivazione del sonno. L’azione dell’adenosina nel cervello può essere “controllata” somministrando caffeina, in quanto questa sostanza lega gli stessi recettori che vengono legati dall’adenosina (ovvero, la caffeina è un antagonista dei recettori dell’adenosina).
In questo esperimento tutti i soggetti hanno subito deprivazione del sonno ma, un’ora prima del test, a metà è stata somministrata caffeina ed all’altra metà un placebo. In questo caso il gruppo trattato con caffeina ha avuto performance simili a quelle di chi negli altri esperimenti aveva dormito, quindi con una percentuale di false memorie più bassa rispetto a quella di chi ha ricevuto il placebo. Questo indicherebbe una possibile influenza dell’adenosina nella formazione di false memorie in seguito a deprivazione del sonno. La quantità di caffeina somministrata in questo studio (una capsula da 200mg) può essere comparata più o meno a quella presente in due tazzine di espresso. Ovviamente, come è noto, la caffeina ha anche un effetto sull’attenzione; andrebbe quindi valutato se l’effetto è veramente dovuto all’attivazione del sistema adenosinergico o se altri stimolanti non specifici per i recettori dell’adenosina hanno gli stessi effetti.

Gli autori concludono quindi che la deprivazione del sonno porta ad un aumento delle false memorie, mentre il sonno dopo il training non ha effetto sulla loro formazione.

Sarebbe interessante a questo punto studiare l’effetto di lunghi periodi di deprivazione. Cosa succederebbe dopo 2 o 3 giorni che uno non dorme? E dopo una settimana? Ok, immagino che forse sarebbe complicato trovare i volontari per l’esperimento… ma sarebbe decisamente interessante!

Tags: Adenosina, Memoria, Neurotrasmettitori, Psicologia
11 novembre 2008 - 9:21 pm

Facciamo i conti…

Siete bravi in matematica? Se la risposta è sì, forse può dipendere dal fatto che abbiate una buona capacità matematica istintiva, non formale. Insomma, che avete un buon “sesto senso” per approssimare le quantità. Questa la tesi proposta da Halberda e colleghi in un loro recente articolo, apparso su Nature.Potete trovare il testo originale qui (richiesto abbonamento alla rivista): “Individual differences in non-verbal number acuity correlate with maths achievement

Approximate number systemLo studio ha comparato l’abilità matematica formale di 64 ragazzi di 14 anni con la loro abilità istintiva, ovvero il loro approximate number system (ANS) o sistema di conto approssimativo.
Per misurare questo indice i ricercatori hanno utilizzato un semplice test: ai ragazzi veniva presentata una schermata con un certo numero di pallini gialli e blu di diversa dimensione per un tempo di 200 ms, troppo breve per permettere un effettivo conteggio. A questo punto il soggetto doveva dire quali cerchi fossero più numerosi: quelli gialli o quelli blu. Ovviamente la disposizione e la quantità dei cerchi erano casuali, in modo da escludere un effetto della posizione. Un test molto semplice, che permette di valutare l’abilità istintiva a contare, che non necessita di alcuna abilità formale di matematica (es. non è necessario saper risolvere un’equazione per riuscire in questo test).

Come facilmente immaginabile, la percentuale di risposte giuste è correlata al rapporto fra il numero dei due gruppi: ad esempio, è più facile dare la risposta giusta avendo 10 cerchi blu e 5 gialli, che avendone 8 gialli e 9 blu. Questo fenomeno è noto come legge di Weber. La risposta dei singoli soggetti, tuttavia è stata estremamente variabile: alcuni soggetti sono stati in grado di misurare accuratamente quantità in rapporto 9:10 (es. 9 blu e 10 gialli), altri facevano fatica a discriminare rapporti più fini di 2:3 (es. 10 blu e 15 gialli).

La domanda che i ricercatori si sono posti è la seguente: può la capacità istintiva di contare essere la base di buoni risultati nella matematica formale? I ragazzi scelti per il test erano stati valutati nel corso degli anni scolastici precedenti per le loro capacità matematiche formali usando test matematici standardizzati. Il confronto fra i risultati di questi studi ha in effetti mostrato che la capacità matematica formale è correlata al livello di ANS. Il confronto con i risultati di altri 16 diversi test fatti sugli stessi soggetti, per valutare le loro abilità  cognitive e comportamentali più “generali”,  non hanno mostrato alcuna correlazione con il livello di ANS.

Gli autori concludono che poichè l’ANS è attivo durante l’infanzia, esso possa essere importante per lo sviluppo delle abilità cognitive. Alternativamente, la situazione potrebbe essere invertita: una maggiore quantità o qualità dell’insegnamento della matematica formale potrebbe infatti aumentare l’indice di ANS.

Questa ipotesi alternativa potrebbe spiegare differenze nell’acuità dell’ANS in popolazioni di adulti che hanno ricevuto un’educazione matematica migliore di altre.
Se volete testare la vostra capacità matematica informale, potete trovare un test a questo indirizzo. Per avere un risultato “valido” ripetete il test almeno 25-30 volte. Io ho ottenuto un fantastico 89%! E voi?
Tags: Matematica, Mente, Neuroscienze, Psicologia
17 maggio 2008 - 4:44 am

Di che colore è il numero 6?

SinestesiaFinalmente torno a scrivere sul blog dopo un periodo di latitanza (mi scuso con tutti i lettori, ma sono stato assorbito dalla scrittura della tesi…).

Oggi vi voglio parlare di un argomento un po’ particolare: la sinestesia. No, non sto parlando della figura retorica…. bensì del fenomeno per cui alcune persone associano determinati stimoli sensoriali associati ad un senso differente.

Il tipo di sinestesia più comune è la sinestesia associata ai grafemi. Un sinesteta associa ad un certo grafema (es. la lettera “A” o il numero “7″) un certo colore. Ad esempio la “A” potrebbe essere associata al rosso: alcune persone vedono effettivamente le lettere colorate, altri creano un’associazione nella loro mente, ma riescono comunque a definire il “vero” colore della lettera. Altri tipi di sinestesia più rari coinvolgono, ad esempio, il gusto: in questo caso la persona percepisce una certa sensazione gustativa quando pronuncia una determinata parola.

Potete leggere un interessante report di un caso di questo tipo in questo articolo (free!)The perceptual reality of synesthetic colors.

L’articolo presenta un’analisi di un caso di sinestesia grafema->colore, in cui il soggetto vede lettere o numeri di un certo colore, anche se sono scritti effettivamente in nero. Uno degli esperimenti consiste nell’identificare un 2 in una figura (generata casualmente dal computer) piena di 5. Il tutto è scritto in bianco su nero, ma il sinesteta ha tempi di risposta più bassi di non-sinesteti a cui viene proposto lo stesso task in quanto per lui il 2 è arancione ed i 5 sono azzurri. Se però la stessa cosa viene fatta con 6 ed 8 che lui vede entrambi in blu, oppure con simboli che non rappresentano una lettera o un numero, i tempi di risposta non sono differenti da quelli dei non-sinesteti.

Un famoso test per individuare sinesteti grafema->colore è l’utilizzo dell’effetto Stroop. Un esempio di questo effetto è il seguente:

dite ad alta voce, ed il più velocemente possibile i colori di queste parole

Rosso Blu Verde Giallo Nero Blu

ora fate lo stesso con queste

Blu Giallo Blu Verde Rosso Rosso Blu

L’effetto Stroop è l’effetto per cui è più difficile dire i colori della seconda serie di parole rispetto alla prima, in quanto nel nostro cervello c’è un’interferenza fra il significato della parola e la percezione della parola stessa. Se ad un sinesteta che vede il numero 6 in rosso viene fatto lo stesso test chiedendogli di dire il colore di questi due numeri:

6 6

la performance nel nominare il colore del secondo sarà più bassa che per il primo.

Il primo report pubblicato di questo fenomeno risale a fine ’800 quando Francis Galton pubblicava su The Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland l’articolo (molto interessante, consiglio di leggerlo) “Visualised numerals“. Le esatte cause di questo fenomeno non sono note, ma sembra che derivi dal fatto che alcune aree della corteccia cerebrale deputate alla percezione di diversi sensi siano collegate in maniera “non corretta“. La sinestesia ha anche una componente genetica ed è infatti una condizione presente in più individui nella stessa famiglia.

Dunque vi chiedo… di che colore è il numero 6?

Tags: Mente, Percezione, Psicologia, Sinestesia
21 dicembre 2007 - 11:59 pm

Il camaleonte

Nel 1983 il genio Woody Allen porta sul grande schermo una storia strana che diventerà un cult. Trattasi del film comico Zelig che ha poi ispirato il famoso omonimo spettacolo italiano dei comici del venerdì sera.

Per chi non avesse mai visto o sentito parlare di questo film, si può definire come un “documentario” comico sulla vita di uno strano individuo, di nome Leonard Zelig (interpretato da Woody Allen), che privo di una propria memoria cerca inconsapevolmente di acquisire l’identità di chi gli sta intorno. Una storia ambientata nel 1920, quindi in bianco e nero, che racconta tra l’altro anche una piccola storia d’amore tra il protagonista e la dottoressa che lo tiene in cura (interpretata da Mia Farrow). La scrittura di questa storia si basò sulla pura fantasia di Woody Allen, ma oggi a distanza di tanti anni  si scontra all’improvviso con la realtà di uno strano caso clinico neurologico.

Nella psichiatria, infatti, esistono numerosi casi “strani”, e non sto parlando del classico tipo che si identifica in Napoleone, Cleopatra oppure uno delle migliaia di personaggi più o meno noti; questi casi, infatti, presentano una identificazione univica di un personaggio rifiutando la propria identità personale per un tempo prolungato. Nell’ambito della patologia psichiatrica c’è anche un’altra classificazione che va sotto il nome di dipendenza ambientale, anche detta sindrome d’uso o comportamento di utilizzazione, in cui i pazienti imitano i gesti dei loro interlocutori o tendono ad usare tutti gli oggetti che hanno davanti.

Sulla rivista inglese Neurocase, tre noti psichiatri napoletani (Giovannina Conchiglia, Gennaro Della Rocca e Dario Grossi) hanno descritto un caso, che hanno avuto recentemente tra le loro mani, unico nel suo genere. Il loro paziente è malato di un disturbo comportamentale che è stato definito Zelig-like syndrome. Quello che distingue questo paziente dai casi precedentemente riportati è la sua totale e onnipervasiva immersione in un contesto con un adattamento eccessivo a ruoli, e non a semplici stimoli, proposti di volta in volta dall’ambiente che lo circonda. Il tutto si manifesta con la perdita della capacità di mantenere costante la propria identità.

Il paziente in questione è un ex-professionista napoletano di 65 anni (con cui mi riferirò con il nome di fantasia Leonard) che in seguito ad un arresto cardiaco, che gli ha provocato un’ipossia cerebrale con danni al lobo fronto-temporale, ha dei disturbi comportamentali che lo fanno assomigliare molto al personaggio ideato da Woody Allen.

Ovviamente si tratta di un caso senza precedenti ed unico nel suo genere; Leonard riesce inconsapevolmente a trasformarsi nel suo interlocutore diventando medico quando interagisce con un medico, esperto di cocktail quando si trova di fronte ad un barman ed esperto di culinaria quando è in contatto con dei cuochi. Ovviamente non si tratta di un semplice caso di pazzia come si potrebbe dedurre da queste semplici frasi, l’immersione di Leonard nel contesto in cui di volta in volta si trova è pressoché totale. Gli psicologi hanno eseguito una serie di test dai risultati sorprendenti. Quando era barman, a chi gli chiedeva come si preparasse un determinato cocktail, ha risposto di essere ancora in prova: «Sono qui da due settimane, spero di avere il posto fisso». In cucina era un cuoco provetto: «Sono uno chef specializzato in menu per diabetici», ha spiegato senza un’ombra di esitazione, assolutamente immedesimato nella sua nuova identità. L’unico ruolo in cui non si è calato è stato, chissà perché, quello di addetto alla lavanderia della casa di cura. Ma per il resto, Leonard ha “rubato” il mestiere a tutte le persone che aveva davanti.

Una sorta di trasformismo psicologico coatto, di camaleontismo involontario che lo rende di volta in volta un perfetto giocatore di baseball in mezzo ai campioni di baseball, un trombettista nero in una banda di jazz, un pellerossa tra i pellerossa, un ebreo tra gli ebrei, uno psicanalista fra gli psicanalisti e cardiologo fra i cardiologi. In ogni occasione Leonard cerca anche di usare un linguaggio appropriato al ruolo che riveste. La dott.ssa Conchiglia ha descritto le domande “trabocchetto” a cui ha sottoposto il paziente, per esempio al cardiologo che gli ha chiesto a quale patologia corrispondesse una determinata anomalia del battito cardiaco, Leonard ha replicato in modo generico ed evasivo ma quanto più appropriato possibile, del tipo “La domanda è troppo complessa, dipende da paziente a paziente”. Da perfetto Zelig, Leonard usa inconsciamente una formidabile arma di difesa contro il suo involontario trasformismo: cancella totalmente dalla memoria il ruolo che ha appena sostenuto quando si immedesima in uno nuovo. Quando è un medico non è mai stato un barman o un libero professionista, nè sa dire nulla di quando sosteneva di saper cucinare alla perfezione.

La dott.ssa Conchiglia ci tiene a precisare anche che, durante i numerosi e repentini cambi di identità, l’uomo-camaleonte, non perde mai il suo carattere e la sua personalità; quel che maggiormente colpisce, piuttosto, è la capacità di adattarsi ai contesti sociali più diversi in cui viene a trovarsi. C’è da dire anche che il paziente non ha mai una completa amnesia, Leonard riconosce e ricorda quasi sempre la moglie ed i figli che non lo perdono di vista per un solo istante.

Probabilmente non guarirà mai, anche se le terapie in day hospital a cui è sottoposto hanno consentito un lieve miglioramento delle sue condizioni. Anche se le crisi sono meno frequenti, l’uomo-camaleonte non è certo in grado condurre un’esistenza normale, e di conseguenza anche la sua autonomia è limitata.

Questo caso napoletano ha avuto un certo eco nel mondo delle neuroscienze e non solo, recentemente nella serie americana Dr. House, portata anche in Italia su canale 5, uno degli autori ha preso ispirazione da questo caso per una delle nuove puntate (titolo inglese “Mirror mirror”) che arriverà prossimamente anche in Italia nella quarta serie. Il burbero medico diagnostico si troverà infatti di fronte ad un paziente con una sindrome clinica simile a quella recentemente identificata (la Giovannini’s syndrome). Lascio a voi vedere come andrà a finire.

Tags: Casi clinici, Memoria, Mente, Neuroscienze, Psicologia