Uno sguardo ai meccanismi della mente

Inside Neuroscience

23 novembre 2008 - 11:53 pm

Sonno e false memorie

In post precedenti abbiamo già parlato di memoria. Oggi vi voglio parlare di un recente studio che ho trovato molto interessante, e che analizza come il sonno possa influenzare la memoria. Una delle teorie riguardanti il sonno dice che esso ci permette di consolidare gli avvenimenti del giorno e formare nuove memorie grazie al riarrangiamento delle sinapsi fra i neuroni di diverse zone cerebrali. Un recente articolo di Susanne Diekelmann e colleghi, pubblicato su PlOS One, correla la deprivazione di sonno con la formazione delle cosiddette false memorie. Trovate il testo completo (accessibile gratuitamente) qui: “Sleep Loss Produces False Memories“.

Innanzitutto definiamo cosa si intende per falsa memoria: si intende il ricordo da parte di una persona di un fatto falso, di qualcosa che non è mai avvenuto, senza però che il soggetto stia mentendo; anzi, la persona è assolutamente in buona fede in quanto -almeno nella sua memoria- quello specifico avvenimento c’è effettivamente stato. L’ovvia domanda a questo punto è: come è possibile che vengano a formarsi queste false memorie?

Il processo di formazione della memoria ci è ancora in parte oscuro, ma sembra che il sonno sia una componente essenziale nel plasmarla. Durante il giorno noi assistiamo a degli avvenimenti, impariamo nuove nozioni, facciamo nuove scoperte e di notte il nostro cervello processa il tutto, escludendo alcune cose, e salvandone altre. Questo processo consiste di una consolidazione sinaptica, per cui i nuovi fatti che abbiamo imparato vengono stampati in particolari circuiti cerebrali, e di una consolidazione del sistema, per cui questi nuovi fatti vengono integrati con fatti preesistenti e già memorizzati in altri circuiti. Questo ultimo processo ci permette di correlare le nostre vecchie memorie con quelle nuove.
Una delle ipotesi sulle false memorie è quella che, poichè il nostro cervello non è una macchina perfetta, lo stesso processo di memorizzazione possa portare alla formazione di false memorie, se il consolidamento di questi nuovi dati non viene effettuato correttamente. Lo studio di cui voglio parlarvi oggi, tuttavia, analizza la situazione opposta, cioè la deprivazione del sonno, come fattore che può generare false memorie.

Lo studio in questione ha comparato la formazione di false memorie in diversi gruppi di persone deprivate o meno del sonno in diverse situazioni.

Ma come si può valutare una cosa del genere? Esiste un apposito test, chiamato test DRM (dalle iniziali dei suoi inventori: Deese, Roediger e McDermott) che massimizza la formazione di queste false memorie ed è quindi un buon metodo per valutarne la presenza. Il test è molto semplice: nella prima fase di training vengono lette ai partecipanti vari gruppi di 15 parole in qualche modo correlate, ad esempio: “notte”, “buio”, “carbone”, … In questa lista, tuttavia, manca il termine chiave, nel nostro esempio “nero”, che li collega tutti. Dopo un certo periodo ai partecipanti vengono mostrate delle parole rientranti in 3 categorie: le parole della lista, che erano presenti tra quelle lette nella fase di training, parole trabocchetto, cioè le parole chiave (“nero” nell’esempio di prima) che sono collegate alle altre ma non erano state lette, ed infine parole di altre liste, ad es. “alto”. I partecipanti devono quindi dire se le parole mostrate erano state lette loro in precedenza, e dare anche un’indicazione (come punteggio da 1 a 4) su quanto siano sicuri della propria risposta. Ovviamente, poichè le parole chiave sono correlate alle altre, è facile che una persona ne abbia una falsa memoria. Il test dà quindi tre risultati: false memorie (es. dire che “nero” era nella lista), hits, cioè risposte esatte (es. dire che “notte” era nella lista), e falsi allarmi (es. dire che “alto” era nella lista).

Per vedere se effettivamente il sonno ha un ruolo nella formazione di queste memorie, sono stati testati diversi paradigmi di deprivazione, mostrati in questa figura.

Sleep loss paradigms

L’esperimento 1 consiste di 3 gruppi:
- un gruppo che riceve il training (indicato da L nell’immagine) di sera, rimane sveglio (wake) di notte e viene testato (quadrato con R) la mattina dopo.
- un gruppo che riceve il training sempre di sera, ma dorme (sleep) di notte, per essere poi testato al mattino.
- un terzo gruppo che riceve il training di mattina e viene testato il pomeriggio, senza aver dormito.

Il risultato di questo primo esperimento è molto interessante: il gruppo deprivato di sonno, infatti, mostra più false memorie non solo rispetto al gruppo che ha dormito, ma anche rispetto al gruppo testato durante il giorno. Non c’è invece differenza fra il gruppo che ha dormito e quello testato di giorno. I tre gruppi hanno invece mostrato percentuali non differenti di hits e falsi allarmi.

Questo sembrerebbe indicare che la deprivazione del sonno durante la notte provoca un aumento delle false memorie, ma che il sonno non sia strettamente necessario per consolidare le memorie, almeno a breve termine.

Con l’esperimento 2 il gruppo ha investigato più nel dettaglio questi processi.
In questo caso entrambi i gruppi ricevono il training di sera, dormono e passano la giornata successiva senza essere testati. A questo punto, un gruppo dorme e l’altro viene deprivato del sonno, prima del test la mattina successiva.

Anche in questo caso i risultati sono gli stessi dell’esperimento 1. Il gruppo che non ha dormito prima del test presenta una maggiore percentuale di false memorie (ma non di hits o falsi allarmi) rispetto al gruppo di controllo che ha dormito. Questo vuol dire che il problema sta nella fase di retrieval, cioè di recupero delle memorie al momento del test. Chi non ha dormito di notte fa più fatica a recuperare quello che il suo cervello ha memorizzato e quindi ha più false memorie.

Questi risultati sono stati confermati dall’esperimento 3, in cui la deprivazione del sonno viene effettuata in uno dei due gruppi dopo il training, ma non prima del testing. In questo caso non ci sono state differenze fra i due gruppi. Questo significa che anche chi non ha dormito dopo il training è stato in grado di consolidare le nuove memorie, ma avendo entrambi i gruppi dormito prima del test hanno avuto ugual capacità di recuperare queste memorie, confermando quindi l’importanza del sonno per il retrieval.

Infine, l’ultimo esperimento che è stato effettuato ha valutato il coinvolgimento di un particolare neurotrasmettitore, chiamato adenosina, che in altri studi è stato visto essere correlato a problemi cognitivi risultanti dalla deprivazione del sonno. L’azione dell’adenosina nel cervello può essere “controllata” somministrando caffeina, in quanto questa sostanza lega gli stessi recettori che vengono legati dall’adenosina (ovvero, la caffeina è un antagonista dei recettori dell’adenosina).
In questo esperimento tutti i soggetti hanno subito deprivazione del sonno ma, un’ora prima del test, a metà è stata somministrata caffeina ed all’altra metà un placebo. In questo caso il gruppo trattato con caffeina ha avuto performance simili a quelle di chi negli altri esperimenti aveva dormito, quindi con una percentuale di false memorie più bassa rispetto a quella di chi ha ricevuto il placebo. Questo indicherebbe una possibile influenza dell’adenosina nella formazione di false memorie in seguito a deprivazione del sonno. La quantità di caffeina somministrata in questo studio (una capsula da 200mg) può essere comparata più o meno a quella presente in due tazzine di espresso. Ovviamente, come è noto, la caffeina ha anche un effetto sull’attenzione; andrebbe quindi valutato se l’effetto è veramente dovuto all’attivazione del sistema adenosinergico o se altri stimolanti non specifici per i recettori dell’adenosina hanno gli stessi effetti.

Gli autori concludono quindi che la deprivazione del sonno porta ad un aumento delle false memorie, mentre il sonno dopo il training non ha effetto sulla loro formazione.

Sarebbe interessante a questo punto studiare l’effetto di lunghi periodi di deprivazione. Cosa succederebbe dopo 2 o 3 giorni che uno non dorme? E dopo una settimana? Ok, immagino che forse sarebbe complicato trovare i volontari per l’esperimento… ma sarebbe decisamente interessante!

Tags: Adenosina, Memoria, Neurotrasmettitori, Psicologia
10 agosto 2008 - 8:15 pm

Quando il cervello decide il “suicidio”: I Parte

Ischemia Cerebrale (Parte I): Introduzione

Rieccoci qua dopo un po’ di tempo di “meditazione lavorativa”, spero di recuperare i post di Nico, poiché sto un po’ indietro.

Allora, per ricominciare vorrei trattare un argomento che ha anche un importante risvolto filosofico che spero possa interessare anche ai “non addetti ai lavori”. Dovete sapere che quando ho iniziato a scrivere l’argomento qui di seguito ho scritto talmente tanto che mi sono subito reso conto che potrebbe essere un po’ troppo lungo e barboso per essere digerito in una sola volta. Di conseguenza ho deciso di farne un argomento a brevi “puntate”, spero che questo sistema vi sarà gradito maggiormente.

Se vi sono commenti vi prego di farmene partecipe.

Buona lettura

Pasquale

Ischemia Cerebrale: Definizione

Ischemia

Per introdurre questo lungo argomento definirò prima il termine “ischemia“. La parola deriva dal Greco ισχαιμία, ovvero isch (riduzione) ed haima (sangue) e sottintende un apporto di sangue insufficiente per soddisfare le richieste energetiche di un determinato distretto dell’organismo. Ovviamente, la mancanza di nutrienti e di ossigeno porta prima alla sofferenza cellulare e poi, se è prolungata, determina la morte dei tessuti circostanti. L’estensione, inteso come volume, e l’entità del danno, inteso come percentuale di cellule morte, dipendono dal tipo cellulare coinvolto e dalla differenza tra la richiesta energetica e l’energia effettivamente fornita.

Il termine ischemia è riferibile a qualsiasi zona dell’organismo; per cui si può parlare di ischemia cardiaca, renale, muscolare, cerebrale etc. Ognuno di questi organi ha caratteristiche diverse, e di conseguenza sono più o meno sensibili al danno ischemico.

Con il termine ictus (dal latino “colpo”) si intende specificamente l’ischemia che riguarda il cervello. Questa patologia è la prima causa di invalidità permanente e la terza causa di morte nei Paesi industrializzati. I recenti progressi medico-scientifici hanno portato a dei miglioramenti nella gestione dei pazienti ischemici come la diagnosi precoce, la trombolisi, la creazione di centri per lo stroke e la riabilitazione. Tuttavia, l’ictus oggi rappresenta ancora un problema medico senza un’efficace terapia. Stranamente, nonostante i numerosi studi sull’argomento in questione l’ischemia cerebrale è ancora una patologia con molti lati oscuri da chiarire.

L’ictus, infatti, presenta diverse caratteristiche anomale che lo contraddistinguano dagli altri tipi di ischemia. La caratteristica più evidente è che la morte dei neuroni non avviene quando c’è la carenza di carburante ed ossigeno, ma diverse ore fino a giorni dopo il ristabilirsi del normale flusso sanguigno. Si può affermare quindi che la morte neuronale non è causata direttamente della semplice mancanza di cibo ed ossigeno, ma per complessi meccanismi che sono scaturiti da questa mancanza. Questa caratteristica rende l’ischemia cerebrale una sezione medica di notevole interesse scientifico poiché è una patologia molto grave e diffusa, con un periodo di possibile intervento (finestra terapeutica) abbastanza ampia. Il tempo che intercorre tra l’ictus ed il raggiungimento del massimo danno cerebrale è abbastanza lungo per un tempestivo intervento farmacologico sul paziente. Purtroppo le attuali terapie mirano a fenomeni macroscopici come ripristinare il flusso sanguigno mediante agenti anticoagulanti che rompono il coagulo che ha occluso un’arteria. Queste terapie sono utili solo se sono effettuate entro 2-3 ore dall’inizio dei sintomi ed hanno scarsa efficacia. Secondo molti la “vera terapia” dovrebbe mirare a bloccare quei sistemi cellulari che portano una determinata cellula, apparentemente non sofferente, a morire dopo giorni dall’evento ischemico. Per questo motivo è in corso da tempo la caratterizzazione di questi complicati meccanismi cellulari per la ricerca di efficaci bersagli farmacologici che siano in grado fermare questo percorso neurodegenerativo ritardato. Sin dai primi risultati delle ricerche svolte è emerso che uno dei punti chiave della neurodegenearazione è lo ione calcio e la fine regolazione delle sue concentrazioni intracellulari ed extracellulari.

Il Calcio: la “Spada di Damocle” dell’ischemia

Spada di Damocle

Il Calcio (Ca2+) è un componente essenziale per la vita; questo ione infatti oltre ad essere un componente fondamentale per le ossa, è usato anche come un importante segnale cellulare per innescare migliaia di processi fisiologici che vanno dalla contrazione cellulare, come nel caso delle cellule cardiache e muscolari, fino all’impulso nervoso di ogni singolo neurone del cervello.

Pensate che la concentrazione di calcio presente all’interno di una qualsiasi cellula del nostro organismo a riposo è estremamente bassa (50-100 nanoMolare), praticamente meno della concentrazione di calcio che si ha nella semplice acqua distillata! All’esterno delle cellule, invece, c’è una concentrazione di calcio di circa 10.000 volte superiore che è separata dall’interno delle cellule da un doppio strato lipidico sottilissimo. Questa differenza di concentrazione è fondamentale, poiché basta anche un lieve incremento dei livelli di calcio intracellulari per innescare in base al tipo di cellule interessate: l’apertura di canali, fusioni di vescicole, contrazioni cellulari, depolarizzazioni nervose, rilascio di neurotrasmettitori e/o ormoni. Una cellula neuronale, durante la sia attività, può passare per brevi istanti da concentrazioni di calcio di 50-100 nanoMolare fino a 1 milliMolare (1.000 volte di più) per poi ritornare ai livelli basali e prepararsi per essere stimolata nuovamente.

Potete immaginare che mantenere bassa la concentrazione di calcio all’interno delle cellule richiede molti sforzi energetici che consumano ATP, la molecola che conserva l’energia cellulare. Immaginate ora cosa può accadere quando manca il sangue in un determinato distretto del cervello; la mancanza di ossigeno e nutrimenti non consentirebbero alle cellule di produrre energia sottoforma di ATP e di conseguenza comincerebbero ad essere meno efficienti tutti i meccanismi che servono a mantenere basse le concentrazioni cellulari di Calcio. In definitiva, durante l’ischemia, i neuroni non riescono più a cacciare fuori il calcio che entra durante la propria attività, di conseguenza anche le funzioni fondamentali sono compromesse ed inizia la lunga agonia che porterà alla morte cellulare.

Il Calcio, quindi, è una spada di Damocle che pende su tutte le cellule che ne fanno uso; l’ingresso di calcio è fondamentale per attivare la maggior parte dei meccanismi cellulari, ma quando un neurone non c’è l’energia necessaria per estruderlo per ritornare nuovamente alle condizioni basali, le concentrazioni citoplasmatiche di questo ione aumentano e di conseguenza si innescano, in maniera incontrollabile, una serie di meccanismi non desiderati con un ulteriore dispendio energetico.

A complicare le cose c’è la fitta rete di contatti che i neuroni hanno tra di essi e con l’organismo. L’accumulo di calcio in un neurone provoca un’attivazione incontrollabile con il rilascio di neurotrasmettitori eccitatori verso altri neuroni, che a loro volta si attiveranno facendo entrare ioni calcio che non riusciranno ad estrudere. La reazione a catena potrebbe continuare all’infinito in tutto il cervello causando la generazione di scariche elettriche senza controllo che si propagano longitudinalmente rispetto il centro dell’infarto cerebrale (core ischemico) con liberazione di neurotrasmettitori e conseguenze che vedremo nelle prossime puntate.

Il calcio quindi è uno ione fondamentale per la vita perché è il centro di regolazione di funzioni cellulari importanti. Tuttavia proprio per questo motivo è anche uno ione molto pericoloso perché in condizioni patologiche, come l’ictus per l’appunto, può innescare l’autodistruzione cellulare. Un articolo pubblicato su Journal of Neuroscience descrive l’importanza di alcuni meccanismi; per chi è interessato

Durukan and Tatlisumak Pharmacology, Biochemistry and Behavior 87 (2007) 179-197.

Tags: Biologia molecolare, Ictus, Ischemia Cerebrale, Mente, Neuroscienze, Neurotrasmettitori
21 luglio 2008 - 2:58 pm

Ormoni

» di in: Neuroscienze

Oggi vi parlerò di un tema che trovo particolarmente interessante: la relazione fra ormoni e cervello.

Molti ormoni infatti, oltre ad avere effetti a livello degli organi periferici hanno anche effetti a livello del sistema nervoso centrale. Voglio in particolare soffermarmi su una classe di ormoni, detti “ormoni steroidei”, che sono una serie di ormoni derivati dal colesterolo, dalla struttura chimica molto simile  e con moltissime funzioni a livello sia centrale che periferico. Sicuramente tutti voi conoscerete almeno di nome alcuni di questi ormoni, come l’estrogeno, il testosterone, il progesterone ed il cortisolo (il famoso “ormone dello stress“). Tutti questi ormoni hanno effetto a livello del sistema nervoso centrale. La cosa interessante è che gli effetti a livello centrale possono non essere correlati con quelli a livello periferico. Ad esempio, è noto che gli ormoni sopra citati sono coinvolti nel controllo del sistema riproduttivo, della gravidanza etc., ma a livello del sistema nervoso centrale possono avere effetti completamente diversi.

Uno dei primi studi di questi effetti risale all’inizio del ’900, quando venne scoperto che il progesterone (o meglio alcuni suoi metaboliti) hanno effetto anestetico. Nonostante al tempo di questa scoperta non si conoscesse molto a riguardo del funzionamento del cervello, è oggi chiaro che questo effetto deriva dal aumentata sensitività di un tipo di recettori per il GABA (chiamati GABA-A), uno dei maggiori neurotrasmettitori nel sistema nervoso. In presenza di GABA, i recettori GABA-A fanno entrare ioni cloro all’interno della gran parte dei neuroni, portando ad una generale depressione della loro attività. In presenza di progesterone questo effetto del GABA è amplificato e quindi la stessa quantità di neurotrasmettitore porta ad una riduzione più grande dell’attività neuronale, spiegandone quindi l’effetto anestetico.

Altri effetti molto studiati sono quelli dell’estrogeno. E’ noto ad esempio che l’estrogeno può essere neuroprotettivo (ma anche neurotossico a seconda della dose) e favorire la produzione di nuove sinapsi in diverse aree cerebrali, avendo ad esempio effetti sulla memoria.

Insomma, come vedete effetti abbastanza diversi da quelli classicamente noti. Ma la cosa non finisce qui! Il cervello stesso è sede di produzione di quelli che vengono chiamati neurosteroidi, cioè steroidi generati o modificati a livello cerebrale. Le cellule cerebrali (in particolar modo la glia, ma anche i neuroni) possiedono infatti tutto il corredo enzimatico necessario a produrre gli ormoni a partire dal colesterolo, oppure per modificare ormoni prodotti da altri organi. Anche se chimicamente gli ormoni prodotti sono gli stessi, sembra che le funzioni dei neurosteroidi possano essere diverse da quelli degli steroidi periferici. Infatti, la produzione a livello cerebrale permette di concentrare spazialmente e temporalmente la produzione di ormoni, ottenendo così alte concentrazioni in breve tempo, al contrario dei livelli sanguigni di ormoni che sono generalmente molto bassi e cambiano molto lentamente nel corso del tempo.

Quello dei neurosteroidi è un argomento complesso e con aspetti ancora molto controversi. Negli ultimi anni tuttavia, anche grazie al superamento di molte difficoltà tecniche dello studio di questi effetti si stanno cominciando a delineare più chiaramente i meccanismi coinvolti in questi processi.

Infine, a chi fosse interessato all’argomento, consiglio questa bella review di Balthazart e colleghi:

Functional significance of the rapid regulation of brain estrogen action: where do the estrogens come from?

Tags: Neuroscienze, Neurotrasmettitori, Ormoni