Uno sguardo ai meccanismi della mente

Inside Neuroscience

8 giugno 2011 - 5:07 pm

Il sonno e la comunicazione: la danza delle api

L’insonnia è una delle malattie più diffuse del nostro tempo: chi non ha passato almeno una notte insonne, per ritrovarsi il mattino dopo incapace di ricordare con facilità nozioni o concetti? Per non parlare di come diventa difficile mantenere la concentrazione e portare avanti una conversazione di senso compiuto. Negli scorsi post vi ho raccontato di come l’insonnia alteri la memoria, oggi vi parlo di come il dormire male porti problemi a comunicare. Nelle api, e forse anche nell’uomo.

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Tags: acciaio, alveare, api, cibo, comunicare, comunicazione, concentrazione, danza, insonnia, Memoria, posizione, rame, sonno
1 marzo 2011 - 8:04 pm

Ho perso il sonno e…la memoria!

Dormire poco può far male...Vi sarà sicuramente capitato di passare una notte insonne. E, il giorno dopo, concentrarsi e riuscire a portare a termine le attività quotidiane è davvero molto difficile. Il sonno è necessario,anzi, fondamentale ma resta tutt’ora un illustre sconosciuto. Perchè si dorme? Cosa accade nel cervello durante questo stato di incoscienza? E cosa succede se, al contrario, non dormiamo abbastanza?Negli scorsi post vi ho accennato a come il sonno sia coinvolto con il consolidamento della memoria. Che dire se poi si scopre che questo meccanismo ha un ruolo addirittura nello svilupparsi di “false memorie”? Continue Reading »

Tags: caffeina, cervello, esperimento, Memoria, notte, riposo, sonno
22 ottobre 2010 - 7:55 pm

Memoria e apprendimento: chi ha spostato il mio formaggio?

Non si smette mai d’imparare… Già, ma come si fa? O meglio, cosa accade nel nostro cervello quando siamo impegnati ad apprendere e memorizzare un’informazione?
Un recente studio pubblicato su Nature Neuroscience fa il punto della situazione, dirigendo i riflettori su quello che viene definito “apprendimento spaziale”.

Stiamo parlando di quanto succede quando ad esempio dovete ricordarvi la posizione di un oggetto nello spazio. Continue Reading »

Tags: apprendimento, cervello, farmaco, informazione, Mappa, Memoria, NMDAR, plasticità, spazio
16 giugno 2010 - 5:25 pm

Le cellule-stella sono tante, milioni di milioni…Il responso finale (O quasi)

A cosa servono gli astrociti? Negli scorsi post abbiamo cercato di rispondere a questo interrogativo esaminando due opinioni opposte. Chi dice che le cellule-stella abbiano un ruolo nei processi cognitivi superiori come apprendimento e memoria, e chi dice che queste cellule siano solo di supporto ai neuroni. Qual’è la verità? Ad oggi, non abbiamo ancora certezze. Però, esiste un possibile “modello” che spiega quanto si è finora scoperto. Continue Reading »

Tags: apprendimento, Astrociti, Calcio, Cellule-stella, IP3, Memoria, Neuroni, transient receptor potential
31 maggio 2010 - 7:32 pm

Memoria e astrociti: una buia notte senza stelle?

Memoria, apprendimento… Meccanismi ben lontani dall’essere svelati. I neuroni, fino a pochi anni fa dominatori indiscussi della scena, stanno dividendo le luci della ribalta con qualcuno che potrebbe togliere loro il ruolo di protagonisti nei fenomeni neurologici: gli astrociti. Le ormai famose cellule-stella sono al centro di una diatriba: c’è chi sostiene un loro ruolo nella comunicazione tra neuroni e chi al contrario vorrebbe continuare a considerare queste cellule come “assistenti” che aiutano le cellule neuronali a vivere ben nutrite.

Quale sarà la giusta soluzione? Continue Reading »

Tags: Astrociti, Calcio, Cellule-stella, GPCR, IP3, Memoria, Neuroni, plasticità neuronale, recettori, sinapsi
23 maggio 2010 - 4:52 pm

La Sindrome di Fregoli

Preambolo

Dovete sapere che si può essere famosi nelle scienze per due motivi principali: per meriti di lunghe ricerche medico scientifiche (Alzheimer, Parkinson, Cushing, etc) oppure essere sfortunatamente il primo paziente descritto di una nuova patologia. Raramente però si può essere noti anche per una terza motivazione, come ad esempio per una similitudine tra i sintomi della patologia ed il carattere di un personaggio particolare (es Priapismo). Oggi vedremo, invece, un motivo anomalo che non corrisponde perfettamente ai suddetti casi.

La Sindrome di Fregoli

Le coordinate di oggi sono determinate dalla parola “Fregoli”. Ovviamente non si tratta di una parola che compare nel dizionario italiano, essa deriva infatti da Leopoldo Fregoli, il trasformista italiano per antonomasia, famoso soprattutto nella prima metà del 1900 per cambiare abito e carattere in pochi secondi. In Italia fu coniato anche il termine ‘fregolismo politico’ per indicare una ben nota attitudine di alcuni dirigenti italiani.
Fin qui tutto ok, il termine ‘fregolismo’ può essere debitamente accettato dalla similitudine, ma recentemente questo nome é stato impropriamente attribuito anche ad una stranissima sindrome di cui parleremo oggi: la Sindrome di Fregoli per l’appunto.
La Sindrome di Fregoli é una patologia psichiatrica di difficile interpretazione. Essa si manifesta principalmente per schizofrenia, ma anche in seguito a neurodegenerazione oppure a danni a carico del SNC. Spesso può susseguire anche ad un evento ischemico in maniera transitoria. Il nome della patologia, tuttavia, non richiama un vero e proprio camaleontismo come nel caso della Sindrome di Zelig, anzi a trasformarsi sono proprio gli altri. Il paziente con la Sindrome di Fregoli manifesta un’ottima capacità di riconoscere le persone a lui familiari, o semplicemente vicine; tuttavia il riconoscimento é seguito da una profonda delusione di essere stato tratto in inganno da un sosia o un individuo travestito. In altre parole, il paziente vede, nei suoi conoscenti, degli ‘impostori’ sostituiti impunemente ad essi. Si tratta di una patologia con vari gradi di gravità e colpisce più frequentemente le donne. Nei casi peggiori si può avere anche una vera e propria mania di persecuzione perché si avverte, in tutte le persone intorno, sempre lo stesso individuo che di volta in volta si traveste da portiere, da passante, da medico, negoziante fino ai colleghi di ufficio etc etc. Comprenderete bene ora l’infelice attribuzione del nome alla sindrome.

Psichiatrico o neurologico?

Ovviamente non si tratta di un gioco poiché la patologia é altamente invalidante. C’é anche un discreto costo sociale per il mantenimento e la cura di una persona con tali sintomi. Sì certo, ma come curare un paziente con una tale sindrome? Questi pazienti oggi sono contesi tra psichiatri e neurologi perché non si é ancora certi di cosa siano affetti esattamente. Gli studi hanno mostrato che il paziente con la Sindrome di Fregoli conserva la piena capacità di riconoscere il viso delle persone e di attribuirgli una identità certa; la sua memoria visiva non é per nulla intaccata come anche la capacità di riconoscere le persone e dare a questi un nome. Gli psichiatri, forti di questi dati, sostengono che nei pazienti non c’è nulla di errato a livello neurologico, e quindi il trattamento deve essere di tipo psicologico. Ben presto la Sindrome di Fregoli é stata rinominata in “delusione di Capgras“ in riferimento al primo psichiatra che classificò questa sindrome ed in base all’atteggiamento dei pazienti quando incontrano i propri familiari.
I neurologi, invece, sostengono sempre di più che non si possa considerare questa sindrome come una patologia a se stante, ma piuttosto di un sintomo neurologico che può indicare altro (es Alzheimer, ictus etc). D’altro canto, la Sindrome di Fregoli compare proprio in seguito a neurodegenerazione e non può essere un caso.
Recenti studi su pazienti affetti dalla Sindrome di Fregoli hanno mostrato che alcuni di questi, in seguito al progredire della neurodegenerazione, hanno sviluppato anche prosopagnosia, ovvero l’incapacità totale di riconoscere le facce mentre conservano ancora la capacità di riconoscere gli oggetti inanimati. Secondo i neurologi questo dovrebbe escludere l’effetto psicologico e chiudere definitivamente il caso, tuttavia non è ancora chiaro come possa insorgere tale sintomo e soprattutto cosa possa ripristinare il normale stato mentale.

Le mosche bianche della ricerca

La Sindrome di Fregoli, o delusione di Capgras, rappresenta una vera rarità medica e pochissimi ricercatori conoscono tale patologia, tantomeno ne studiano i dettagli neurologici. Tuttavia esistono sempre delle mosche bianche che come formiche apportano, ogni tanto, un piccolo e prezioso contributo alla conoscenza. Proprio recentemente due ricercatori hanno ipotizzato che il motivo di questo alone di mistero sulle cause della Sindrome di Fregoli è derivato dal cercare nel punto sbagliato del cervello. Questa sindrome, infatti, potrebbe essere la controparte della prosopagnosia dove manca la capacità di riconoscere le persone mentre i sentimenti restano invariati. Secondo questi studi la Sindrome di Fregoli, invece, potrebbe essere causata dall’incapacità di suscitare emozioni da visi familiari, mentre la capacità di riconoscerli resta invariata. La delusione di Capgras, quindi, potrebbe essere derivata da una neurodegenerazione che può colpire prima una determinata area cerebrale coinvolta nelle emozioni e poi proseguire in un’altra area causando la prosopagnosia. Una teoria molto valida poiché le aree in questione sono molto vicine ed entrambe coinvolte nei fenomeni neurodegenerativi dell’Alzheimer per esempio.
Proprio su queste ipotesi una serie di ricercatori indipendenti sono saliti sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti ed hanno confermato, con l’uso della risonanza magnetica nucleare funzionale, che i pazienti con la Sindrome di Fregoli presentato delle anomalie neurologiche nell’area limbica. In altre parole hanno dei problemi proprio nelle regioni coinvolte nelle emozioni suscitate quando si vede un viso noto rispetto ai soggetti ‘sani’.

Conclusione

In questo post abbiamo visto una strana sindrome che oggi occupa ancora un posto nelle MIS, ovvero le sindromi da errata identificazione. Molto probabilmente questa classificazione protrebbe cambiare nei prossimi anni, se i prossimi risultati confermeranno che la causa di questa sindrome risiede nell’area dedicata alle emozioni suscitate dal vedere dei visi noti.
Restano ancora da capire alcuni dettagli, poiché questi ultimi studi sono stati fatti solo su pazienti schizofrenici, ed è difficile correlare tali risultati con soggetti che sono colpiti da neurodegenerazione o peggio da soggetti apparentemente ‘sani’.
Insomma c’é ancora spazio per altre ‘mosche bianche’ della ricerca.

Alla prossima

Tags: delusione di Capgras, Fregoli, Memoria, Prosopagnosia, Sindrome
3 maggio 2010 - 2:08 pm

Quando la memoria nasce da una stella: c’era una volta un’astrocita…

Come funziona la memoria? Quali parti del cervello sono coinvolte e quali cellule? Un mistero ancora da svelare…Opinione comune nel mondo scientifico è che gli attori principali nel meccanismo mnemonico siano i neuroni. Tuttavia, nell’encefalo esistono altre cellule, in quantità molto maggiore. E se fossero gli astrociti, le cellule-stella, a darci le risposte di questi interrogativi?

Dopotutto, queste cellule costituiscono circa il 90% del tessuto cerebrale…

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Tags: Astrociti, Attività sinaptica, Calcio, Cellule-stella, D-serina, Glutammato, Ippocampo, LTP, Memoria, Neuroni, NMDA
16 aprile 2010 - 2:37 pm

Memento

Preambolo

Oggi vi scrivo, ahimè, dal letto poiché ammalato. Con tanto tempo a disposizione e poco altro da fare ho scritto un nuovo post, spero per voi, interessante. Oggi parleremo della memoria e dei suoi aspetti più curiosi. La parola chiave di oggi è ‘Memento’, un termine latino ed inglese che significa “ricordati” e che tra l’altro è anche un titolo di un film utile da commentare.

Memento

Il film Memento, diretto da Christopher Nolan nel 2000, parla di un ragazzo di nome Leonard Shelby impegnato nel vendicarsi di alcuni criminali che violentarono ed uccisero la moglie durante una rapina andata male. Tentando di salvare la moglie dai due malviventi, Leonard rimane gravemente ferito alla testa, e  tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi (‘amnesia anterograda’). Leonard ricorda proprio tutto quello che è successo poco prima dell’incidente, ma è incapace di fissare nuovi ricordi. Per immedesimarsi meglio nel protagonista, il montaggio del film replica proprio il suo punto di vista. In pratica il film procede su due binari: le scene si susseguono alternativamente dall’ultima in ordine cronologico, poi alla prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. In questo modo lo spettatore insieme al protagonista vive il momento sospeso nel tempo e senza poterlo inquadrare in un contesto cronologico. L’intreccio, montato lungo tutto il film, verrà sciolto solo alla fine con una scena chiave. Consiglierei la visione di questo film agli appassionati di puzzle, ed a quelli che hanno un’ottima memoria.

Henry Gustav Molaison

Tra le altre cose il protagonista del film ricorda dettagliatamente la storia di un certo Sammy che ha avuto il suo stesso problema di memoria. I frammenti di questa storia nella storia sono sparsi lungo tutto il film, ed è volutamente confusa da molte scene di pochi secondi che insinuano dubbi e perplessità nello spettatore.

Una cosa molto curiosa è che la storia di Sammy narrata dal protagonista nel film è ispirata da un fatto vero e che ha fatto molto eco nel campo delle neuroscienze. Si tratta di Henry Gustav Molaison, sicuramente uno dei più grandi contributori nel campo delle neuroscienze. Come avete capito, non si tratta di un grande ricercatore e neanche di un coraggioso eroe, bensì si tratta di una persona davvero molto sfortunata, che suo malgrado ha rivoluzionato il campo nelle neuroscienze degli ultimi 50 anni. La sua storia e la sua patologia è stata studiata dettagliatamente da neurologi, psichiatri e da tanti studenti di medicina per tantissimi anni. Per capirne l’importanza basta dire che su di lui ci sono centinaia di pubblicazioni su importanti riviste scientifiche internazionali che vanno dagli anni ’50 fino a pochi anni fa. Henry è stato definito da tutti il più importante paziente nella storia delle neuroscienze. Lo stesso prof. Eric Kandel, uno dei più grandi neuroscienziati moderni, definì lo studio di Brenda Milner sul paziente H. M. come una pietra miliare nella storia delle neuroscienze moderne per capire la memoria umana e le patologie ad esse correlate.

Andiamo con ordine

La storia di Henry, noto alla ricerca come paziente H.M., incomincia nel 1935 all’età di 9 anni con un incidente ciclistico che gli procurerà delle pericolose crisi epilettiche. All’età di 27 anni è costretto ad una operazione chirurgica per ridurre le crisi epilettiche e gli svenimenti che avrebbero potuto portarlo alla morte. C’è da dire che a quel tempo non c’erano ancora dei farmaci per trattare efficacemente le crisi epilettiche e tanto meno si conoscevano le dettagliate funzioni cerebrali. A quel tempo il campo delle neuroscienze era molto rudimentale, anche se in piena crescita esponenziale. Fu il chirurgo William Scoville, dell’Hartford Hospital a rimuovere parte dei lobi temporali mediali per tentare di curarlo. In seguito all’operazione Henry perse, oltre ad una parte dei lobi temporali mediali, circa due terzi dell’ippocampo, il giro paraippocampale e l’amigdala.

Il risultato dell’operazione fu un successo dal punto di vista delle crisi epilettiche ma i 2 cm di ippocampo che rimasero si atrofizzarono velocemente a causa dell’interruzione di alcune vie nervose della corteccia entorinale. Al risveglio dall’operazione ci si rese subito conto dei nuovi problemi che Henry aveva acquisito.

Da quel 1 Settembre 1953 la sua memoria si fermò e si aprì davanti a lui un lungo ed inconsapevole calvario tra tanti medici e ricercatori che se lo contesero per anni. Henry, a distanza di decine di anni ricordava perfettamente tutta la sua storia fino all’operazione chirurgica, ricordava tutti i dettagli della sua famiglia, dei suoi problemi e della sua storia, ma era incapace di riconoscere i medici e gli amici che sono stati accanto a lui per i successivi 55 anni dopo l’incidente. Ha partecipato, senza ricordarsene, a centinaia di studi ed ha aiutato a capire tantissime caratteristiche della memoria fino ad allora del tutto inattese.

Per inquadrare meglio il periodo storico, bisogna considerare che agli inizi del 1900 il campo delle neuroscienze era pura alchimia, non c’erano colture in vitro di neuroni, niente TAC, niente NMR, niente PET etc… Non c’era modo di guardare dentro il cervello di una persona viva e tanto meno potevano essere prevedibili gli effetti di contusioni ed operazioni chirurgiche alla testa. A quel tempo, mentre Freud sviluppò la contestata psicoanalisi, i neurologi si affacciavano all’immensità del campo delle neuroscienze.

La memoria

La teoria che andava per la maggiore all’inizio del secolo scorso era che la memoria fosse un’entità unica distribuita in modo uniforme in tutto il cervello, per cui si pensava che un trauma cerebrale poteva intaccare una determinata zona del cervello rendendo inaccessibile una parte della memoria passata. Da questo si poteva anche dedurre che eliminando una parte dell’encefalo si poteva rimuovere parte dei ricordi passati senza intaccare la funzionalità della memoria stessa. Non ci si deve meravigliare, quindi, se all’inizio il caso clinico di Henry fu accesamente discusso da chi pensava che fosse l’incidente traumatico che causò l’epilessia a condizionare il suo cervello oppure ad errori post-operatori. Tutti i test proposti e poi svolti su Henry dimostrarono che il paziente aveva una memoria pienamente intatta e funzionante in ogni aspetto fino al giorno dell’incidente per cui non è stata rimossa o resa inaccessibile la zona in cui la memoria vi è contenuta. Il problema mnemonico riguardava solo il meccanismo che fissa i nuovi ricordi.

La complessità della memoria

Presto i ricercatori però si accorsero che il problema era molto più complesso di quanto si pensasse, sebbene il paziente non ricordava alcunché di quello che aveva fatto, era in grado di imparare nuove cose. Si sapeva, infatti che Henry andava in bicicletta quando era ragazzo e la sua memoria aveva fissato il meccanismo prima dell’incidente, quindi era normale che riuscisse a farlo anche dopo. Tuttavia alcuni medici sapevano anche che Henry non aveva mai visto il mare e tanto meno sapeva nuotare. I medici provarono ad insegnarglielo e con grande sorpresa notarono che riusciva ad imparare la nuova tecnica. Ogni giorno Henry si stupiva nel vedere una piscina per la prima volta, e sorprendentemente scopriva anche di saper già nuotare. Lo stesso succedeva per esercizi di abilità.

I risultati dimostravano chiaramente che la memoria poteva essere divisa grossolanamente in memoria a breve termine ed a lungo termine, con meccanismi indipendenti. Tuttavia, l’altra scoperta ancora più interessante é che esiste anche una ulteriore suddivisione della memoria in procedurale e cognitiva.

Le sorprese non finiscono qui, poiché mentre il mondo si chiedeva quale fosse il limite tra la memoria breve termine quella a lungo termine, e poi cercava di dare una definizione alla memoria procedurale, alcuni ricercatori scoprirono che Henry era in grado di disegnare una piantina topografica della sua abitazione. Sicuramente fu una nuova scoperta sensazionale, poiché Henry non è mai stato in quella casa prima dell’incidente. Fu coniata così anche un altro tipo di memoria, detta spaziale, che interagisce con le altre tipologie di memoria pur rimanendone separata.

Se pensate che le suddivisioni della memoria finiscano qui siete ben lontani dalla realtà, proprio pochi anni fa sono state definite 2 nuove sottocategorie. E’ stato identificato un paziente, definito C.L., che soffre di una selettiva amnesia anterograda. Il paziente C.L. è in grado di avere una discreta capacità di acquisire nuove semplici informazioni oggettive. La cosa incredibile è che la sua capacità di fissare i ricordi correlabili con il tempo o con lo spazio è praticamente nulla. Nel giro di diversi mesi, infatti, i ricercatori sono stati in grado di insegnargli nuove parole ed aumentare le sue informazioni di cultura generale, però il paziente non è riuscito a manifestare alcun progresso nel ricordare dove fosse stato e cosa fosse successo pochi minuti prima. I ricercatori hanno definito così una memoria episodica, correlata con il tempo, ed una memoria semantica, correlata con semplici informazioni indipendenti dal contesto temporale. Ancora oggi si discute sull’esistenza reale di queste sottocategorie ed i limiti per definirle.

Purtroppo è improbabile trovare un modello animale in cui studiare la memoria a questi livelli di categorizzazione, attualmente le uniche possibilità per capire queste effimere differenze sono limitate dalla scoperta di pazienti affetti da forme di particolari di amnesia e da esperti ricercatori che riescano ad identificarle. È ipotizzabile quindi che le ulteriori suddivisioni e categorizzazioni della memoria sono solo all’inizio del loro percorso,

Riprodurre il fenomeno?

Si può riprodurre l’amnesia anterograda? E’ noto che alcuni farmaci e l’intossicazione da alcool possono riprodurre l’amnesia anterograda in maniera transitoria, ma non danno un’idea chiara del meccanismo molecolare su cui si basa. Oggi si sa che i circuiti neuronali presenti nei lobi temporali mediali sono coinvolti in questa patologia, ma si sa anche che si può ottenere lo stesso deficit mediante il danneggiamento selettivo di altre aree cerebrali. C’è da aggiungere che l’interruzione dei circuiti cerebrali dei lobi temporali non causano sempre dei danni alla memoria anterograda, quindi si tratta di una condizione non necessaria e neanche sufficiente. In definitiva, nonostante gli innumerevoli studi sui circuiti di queste regioni cerebrali, il processo di memorizzazione e di recupero della memoria rimane un grande mistero. Ancora oggi, i neuropsicologi e gli scienziati discutono su quale sia il deficit responsabile dell’amnesia anterograda. Sono state poste diverse teorie: difficoltà nella codifica delle nuove informazioni per la memoria, accelerazione dell’eliminazione dei ricordi appena acquisiti, oppure mancato accesso ai ricordi recenti.

La morte

Il martedì sera del 2 dicembre 2008, Henry Gustav Molaison si spegne in una clinica quasi dimenticato nonostante il suo incredibile contributo alla medicina ed alla civiltà mondiale. Le persone a lui vicine per ricerca o per la cura ricordano Henry come la persona più gentile, paziente, e di buona volontà che avessero mai incontrato. Era sempre sorprendente quando più volte al giorno si presentasse a persone a lui vicine da più di mezzo secolo, e quando raccontava del suo presente, in cui Truman era il presidente degli USA e la televisione era una ancora una nuova invenzione.

La dottoressa Corkin, che gli é stato vicino fino agli ultimi momenti definendolo un membro della sua famiglia, ha scritto un libro intitolato “una vita senza memoria” (“A Lifetime Without Memory.” “You’d think it would be impossible to have a relationship with someone who didn’t recognize you, but I did.”).

Alla morte, il cervello di Henry é stato accuratamente analizzato e dissezionato in circa 2400 fette in diretta web, per le generazioni future. Un ultimo ed inconsapevole contributo alle neuroscienze che spero non venga dimenticato.

Conclusione

Oggi é abbastanza chiaro che esistono tanti tipi di memoria e tanti meccanismi di immagazzinamento e di recupero. Le diverse aree cerebrali ed i circuiti in esse contenuti sono coinvolti in compiti specifici ma spesso difficilmente catalogabili secondo schemi oggettivi.

Nel prossimo post vedremo perché c’è un’oggettiva difficoltà nella comprensione i questi circuiti e come questi interagiscano con la memoria stessa.

Alla prossima

Tags: Casi clinici, hadicap, Memoria, Mente, Percezione, Psicologia
23 novembre 2008 - 11:53 pm

Sonno e false memorie

In post precedenti abbiamo già parlato di memoria. Oggi vi voglio parlare di un recente studio che ho trovato molto interessante, e che analizza come il sonno possa influenzare la memoria. Una delle teorie riguardanti il sonno dice che esso ci permette di consolidare gli avvenimenti del giorno e formare nuove memorie grazie al riarrangiamento delle sinapsi fra i neuroni di diverse zone cerebrali. Un recente articolo di Susanne Diekelmann e colleghi, pubblicato su PlOS One, correla la deprivazione di sonno con la formazione delle cosiddette false memorie. Trovate il testo completo (accessibile gratuitamente) qui: “Sleep Loss Produces False Memories“.

Innanzitutto definiamo cosa si intende per falsa memoria: si intende il ricordo da parte di una persona di un fatto falso, di qualcosa che non è mai avvenuto, senza però che il soggetto stia mentendo; anzi, la persona è assolutamente in buona fede in quanto -almeno nella sua memoria- quello specifico avvenimento c’è effettivamente stato. L’ovvia domanda a questo punto è: come è possibile che vengano a formarsi queste false memorie?

Il processo di formazione della memoria ci è ancora in parte oscuro, ma sembra che il sonno sia una componente essenziale nel plasmarla. Durante il giorno noi assistiamo a degli avvenimenti, impariamo nuove nozioni, facciamo nuove scoperte e di notte il nostro cervello processa il tutto, escludendo alcune cose, e salvandone altre. Questo processo consiste di una consolidazione sinaptica, per cui i nuovi fatti che abbiamo imparato vengono stampati in particolari circuiti cerebrali, e di una consolidazione del sistema, per cui questi nuovi fatti vengono integrati con fatti preesistenti e già memorizzati in altri circuiti. Questo ultimo processo ci permette di correlare le nostre vecchie memorie con quelle nuove.
Una delle ipotesi sulle false memorie è quella che, poichè il nostro cervello non è una macchina perfetta, lo stesso processo di memorizzazione possa portare alla formazione di false memorie, se il consolidamento di questi nuovi dati non viene effettuato correttamente. Lo studio di cui voglio parlarvi oggi, tuttavia, analizza la situazione opposta, cioè la deprivazione del sonno, come fattore che può generare false memorie.

Lo studio in questione ha comparato la formazione di false memorie in diversi gruppi di persone deprivate o meno del sonno in diverse situazioni.

Ma come si può valutare una cosa del genere? Esiste un apposito test, chiamato test DRM (dalle iniziali dei suoi inventori: Deese, Roediger e McDermott) che massimizza la formazione di queste false memorie ed è quindi un buon metodo per valutarne la presenza. Il test è molto semplice: nella prima fase di training vengono lette ai partecipanti vari gruppi di 15 parole in qualche modo correlate, ad esempio: “notte”, “buio”, “carbone”, … In questa lista, tuttavia, manca il termine chiave, nel nostro esempio “nero”, che li collega tutti. Dopo un certo periodo ai partecipanti vengono mostrate delle parole rientranti in 3 categorie: le parole della lista, che erano presenti tra quelle lette nella fase di training, parole trabocchetto, cioè le parole chiave (“nero” nell’esempio di prima) che sono collegate alle altre ma non erano state lette, ed infine parole di altre liste, ad es. “alto”. I partecipanti devono quindi dire se le parole mostrate erano state lette loro in precedenza, e dare anche un’indicazione (come punteggio da 1 a 4) su quanto siano sicuri della propria risposta. Ovviamente, poichè le parole chiave sono correlate alle altre, è facile che una persona ne abbia una falsa memoria. Il test dà quindi tre risultati: false memorie (es. dire che “nero” era nella lista), hits, cioè risposte esatte (es. dire che “notte” era nella lista), e falsi allarmi (es. dire che “alto” era nella lista).

Per vedere se effettivamente il sonno ha un ruolo nella formazione di queste memorie, sono stati testati diversi paradigmi di deprivazione, mostrati in questa figura.

Sleep loss paradigms

L’esperimento 1 consiste di 3 gruppi:
- un gruppo che riceve il training (indicato da L nell’immagine) di sera, rimane sveglio (wake) di notte e viene testato (quadrato con R) la mattina dopo.
- un gruppo che riceve il training sempre di sera, ma dorme (sleep) di notte, per essere poi testato al mattino.
- un terzo gruppo che riceve il training di mattina e viene testato il pomeriggio, senza aver dormito.

Il risultato di questo primo esperimento è molto interessante: il gruppo deprivato di sonno, infatti, mostra più false memorie non solo rispetto al gruppo che ha dormito, ma anche rispetto al gruppo testato durante il giorno. Non c’è invece differenza fra il gruppo che ha dormito e quello testato di giorno. I tre gruppi hanno invece mostrato percentuali non differenti di hits e falsi allarmi.

Questo sembrerebbe indicare che la deprivazione del sonno durante la notte provoca un aumento delle false memorie, ma che il sonno non sia strettamente necessario per consolidare le memorie, almeno a breve termine.

Con l’esperimento 2 il gruppo ha investigato più nel dettaglio questi processi.
In questo caso entrambi i gruppi ricevono il training di sera, dormono e passano la giornata successiva senza essere testati. A questo punto, un gruppo dorme e l’altro viene deprivato del sonno, prima del test la mattina successiva.

Anche in questo caso i risultati sono gli stessi dell’esperimento 1. Il gruppo che non ha dormito prima del test presenta una maggiore percentuale di false memorie (ma non di hits o falsi allarmi) rispetto al gruppo di controllo che ha dormito. Questo vuol dire che il problema sta nella fase di retrieval, cioè di recupero delle memorie al momento del test. Chi non ha dormito di notte fa più fatica a recuperare quello che il suo cervello ha memorizzato e quindi ha più false memorie.

Questi risultati sono stati confermati dall’esperimento 3, in cui la deprivazione del sonno viene effettuata in uno dei due gruppi dopo il training, ma non prima del testing. In questo caso non ci sono state differenze fra i due gruppi. Questo significa che anche chi non ha dormito dopo il training è stato in grado di consolidare le nuove memorie, ma avendo entrambi i gruppi dormito prima del test hanno avuto ugual capacità di recuperare queste memorie, confermando quindi l’importanza del sonno per il retrieval.

Infine, l’ultimo esperimento che è stato effettuato ha valutato il coinvolgimento di un particolare neurotrasmettitore, chiamato adenosina, che in altri studi è stato visto essere correlato a problemi cognitivi risultanti dalla deprivazione del sonno. L’azione dell’adenosina nel cervello può essere “controllata” somministrando caffeina, in quanto questa sostanza lega gli stessi recettori che vengono legati dall’adenosina (ovvero, la caffeina è un antagonista dei recettori dell’adenosina).
In questo esperimento tutti i soggetti hanno subito deprivazione del sonno ma, un’ora prima del test, a metà è stata somministrata caffeina ed all’altra metà un placebo. In questo caso il gruppo trattato con caffeina ha avuto performance simili a quelle di chi negli altri esperimenti aveva dormito, quindi con una percentuale di false memorie più bassa rispetto a quella di chi ha ricevuto il placebo. Questo indicherebbe una possibile influenza dell’adenosina nella formazione di false memorie in seguito a deprivazione del sonno. La quantità di caffeina somministrata in questo studio (una capsula da 200mg) può essere comparata più o meno a quella presente in due tazzine di espresso. Ovviamente, come è noto, la caffeina ha anche un effetto sull’attenzione; andrebbe quindi valutato se l’effetto è veramente dovuto all’attivazione del sistema adenosinergico o se altri stimolanti non specifici per i recettori dell’adenosina hanno gli stessi effetti.

Gli autori concludono quindi che la deprivazione del sonno porta ad un aumento delle false memorie, mentre il sonno dopo il training non ha effetto sulla loro formazione.

Sarebbe interessante a questo punto studiare l’effetto di lunghi periodi di deprivazione. Cosa succederebbe dopo 2 o 3 giorni che uno non dorme? E dopo una settimana? Ok, immagino che forse sarebbe complicato trovare i volontari per l’esperimento… ma sarebbe decisamente interessante!

Tags: Adenosina, Memoria, Neurotrasmettitori, Psicologia
4 marzo 2008 - 2:06 am

Allo specchio

A tutti noi è capitato di dover imparare a fare qualcosa: come è noto uno dei modi migliori è iniziare guardando qualcun altro che fa ciò che vogliamo imparare. Che si tratti di suonare uno strumento, usare un macchinario in laboratorio o imparare a parlare, infatti, l’imitazione gioca sicuramente un ruolo importante nel nostro processo di apprendimento. Ma come funziona esattamente tutto ciò? Abbiamo già detto in post precedenti (ad es. questo e questo) che il nostro cervello memorizza ed impara attraverso il rafforzamento di alcune sinapsi e l’indebolimento di altre… ma come entra l’imitazione in questo sistema?
Purtroppo non vi posso dare una risposta completa, ma vi posso raccontare almeno parte della storia.


Un macaco neonato imita un ricercatore che tira fuori la lingua!
(da Evolution of Neonatal Imitation. Gross L, PLoS Biology Vol. 4/9/2006, e311)

Tutto cominciò circa una decina di anni fa con gli studi di Giacomo Rizzolatti e colleghi all’università di Parma, i quali stavano studiando l’attività dei neuroni della corteccia premotoria del macaco, una regione coinvolta nella pianificazione delle azioni e nella decisione di quali atti compiere (da cui il nome premotoria). Ad esempio, alcuni neuroni di questa regione potrebbero venire attivati quando il macaco prende un pezzo di cibo da un piatto per metterlo in bocca, altri potrebbero essere attivati quando invece si arrampica su di un albero.
Durante i loro studi, Rizzolatti e colleghi scoprirono l’esistenza di una sottopopolazione (10-20%) di questi neuroni, i quali vengono attivati sia quando l’animale fa una certa azione (es. prende una banana), sia quando vede un altro animale fare la stessa azione. Questi neuroni furono chiamati mirror neurons o neuroni specchio e sembrano essere degli ottimi candidati per spiegare questi processi di apprendimento per imitazione.
La precisione di questi neuroni è notevole: ad esempio, un certo neurone che veniva attivato quando la scimmia prendeva il cibo, veniva anche attivato quando vedeva il ricercatore prendere il cibo. Se però quest ultimo usava delle pinze per prendere il cibo l’attivazione era molto minore, e praticamente nulla se faceva il gesto di prendere qualcosa, ma senza che effettivamente ci fosse del cibo.
Da allora, molti studi sono stati fatti nel campo dei neuroni mirror che sono stati trovati anche nell’uomo e in alcune specie di uccelli (come vedremo nella seconda parte di questo post).
In particolare sembra che questi neuroni siano molto importanti nei processi di apprendimento del linguaggio e altri studi hanno suggerito che un loro malfunzionamento potrebbe essere in parte implicato nell’autismo.

Per chi fosse interessato, ecco il link ad uno degli articoli di Rizzolatti: Action recognition in the premotor cortex

(continua…)

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