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Zu Schön, il transistor troppo bello per essere vero*

*gioco di parole tra zu schön, “troppo bello” in tedesco, e il nome del protagonista di questa vicenda.

Correva l’anno 2000 quando, durante un’estate torrida fatta di relazioni di laboratorio, io e i miei due compari decidemmo che i nostri artigianali cicli di isteresi non soddisfacevano gli standard di una relazione decente. Fu così che con l’aiuto di un popolarissimo foglio di calcolo iniziò il nobile processo di “taroccamento verosimile” dei dati, volto a riprodurre una bella curva, certo, ma ragionevolmente affetta da una sapiente mistura di errori casuali e sistematici. O almeno che lo sembrasse. Sorvolerò su come in sede d’esame apprendemmo che la nostra curva originale era così brutta semplicemente perché avevamo sbagliato la procedura sperimentale (ma, ehi, c’è una ragione per cui sono diventata una scienziata computazionale), e su come il prof attribuì – scetticamente, a onor del vero – ad un’improprietà di linguaggio la discrepanza tra la procedura descritta e la bella curva allegata. Mi concentrerò invece su uno di quegli episodi che mi fanno quasi venire voglia di credere alle coincidenze, perché mentre noi imbranati studenti taroccavamo i nostri dati onde evitare di ripetere il corso di laboratorio, nello stesso momento, in un altro continente, qualcuno più in alto di noi stava facendo la stessa cosa con scopi meno puerili, dando luogo a quella che fu ribattezzata “la più grande frode nella comunità scientifica”.

Nel 2000 Jan Hendrik Schön era un giovane ricercatore tedesco di stanza ai Bell Labs in New Jersey, la struttura che annovera tra i suoi impiegati 13 premi Nobel dal 1925 ad oggi. Schön lavorava in un campo tuttora all’avanguardia, quello dei semiconduttori organici, i materiali che – per capirci – hanno reso possibili i display ultrapiatti. Le applicazioni dei materiali organici, però, sono molteplici e potenzialmente rivoluzionarie (più rivoluzionarie di uno schermo sottile e flessibile come un foglio di plastica, che pure ha il suo fascino). Non ci è dato sapere se in seguito alla fredda premeditazione o in preda ad un temporaneo delirio di onnipotenza, ma Schön decise di far avverare tutte quelle predizioni che sino a quel momento costituivano solo la motivazione concettuale per le sue ricerche. Schön decise di fabbricarsi un Sacro Graal e di esporlo al mondo. A pagamento, s’intende.

Fu così che Schön esordì su Nature con la storia di un transistor molecolare. Molecolare in senso stretto: un’unica molecola organica che manifestava lo stesso comportamento elettrico di un chip di silicio, di quelli usati nei circuiti tradizionali. Le implicazioni di una simile scoperta sono sconvolgenti: sarebbe la fine dell’elettronica come la conosciamo – fine alla quale ci stiamo comunque avvicinando a causa dei limiti fisici del silicio – e l’avvento di una tecnologia basata su circuiti organici, molto più economici e molto, molto più piccoli di quelli al silicio. Ma quello era solo l’inizio: la classe di composti studiati da Schön esibiva comportamento superconduttore, fotovoltaico, emettitore di luce LASER e una serie di altre amenità. Plastic Fantastic, come suggerivano i titoli di giornale.

A trent’anni Schön era una star: citando Lydia Sohn, che smascherò l’inghippo come spiegherò tra poco, Schön “era come David Beckham per il calcio, come una rock star: avrebbe potuto presentarsi solo con il suo nome di battesimo, Hendrik, e tutti avremmo saputo chi fosse”. Pubblicò, tra gli altri, nove articoli su Science e sette su Nature; nel mese di novembre del 2001 arrivò a pubblicare sette articoli: per dare una misura, sette articoli in un anno rappresentano una produzione degna di nota per un professore a capo di un gruppo di medie dimensioni.

Sin da subito, però, il fantomatico metodo scientifico iniziò ad insinuare più di qualche dubbio: nessun altro gruppo di ricerca riusciva a riprodurre gli stessi risultati. Alle richieste di chi voleva visitare i suoi laboratori e vederlo all’opera, Schön rispondeva che quegli esperimenti erano stati condotti nel suo vecchio laboratorio in Germania. Chi voleva semplicemente dare un’occhiata ai suoi dati rimase deluso, perché a quanto pare Hendrik non disponeva di un hard-disk abbastanza capiente da contenere tutti i dati dei suoi esperimenti, che quindi venivano cancellati dopo l’elaborazione. I campioni sui quali aveva condotto gli esperimenti erano misteriosamente danneggiati o scomparsi. E ancora: come passavano, i suoi articoli, al setaccio della peer-review? Be’, per uno che sfornava scoperte sensazionali ad-hoc, addurre ulteriori prove non era certo un problema: il referee suggeriva la misura di un’ulteriore proprietà? No problem, un grafico che riproduceva esattamente le aspettative faceva la sua comparsa nel manoscritto. Et voilà.

Ma la fine era ormai vicina: nel 2002 la summenzionata Lydia Sohn (allora a Princeton, oggi a Berkeley) scoprì la punta dell’iceberg della colossale truffa. Due articoli, un Science e un Nature, che descrivevano due esperimenti molto diversi avevano in comune lo stesso grafico. Non lo stesso comportamento qualitativo: la stessa identica curva, con tutte le stesse minuscole deviazioni dall’idealità frutto dell’errore casuale, e che per questo motivo non dovrebbero mai e poi mai ripresentarsi perfettamente uguali in due esperimenti simili, e men che meno in due esperimenti realizzati a temperature differenti di 200 gradi. Il resto venne a cascata: la Bell aprì un’inchiesta il cui risultato costò a Schön il posto di lavoro e la cancellazione dei suoi articoli dalle riviste su cui erano comparsi. A seguito di una battaglia legale durata sette anni, l’Università di Costanza presso la quale Schön aveva conseguito il dottorato vinse la causa e gli revocò il titolo per “condotta disonorevole”.

Morali della favola:

1.      non si sfugge al metodo scientifico, che ci crediate o meno;

2.      bambini, non copiate! Ma se lo fate almeno non fatevi beccare.

 

 

La follia! Come se voi scriveste un romanzo, un best seller, e poi lo cancellaste, tenendo solo la sinossi. Oggi non sarebbe possibile, in quanto esistono delle regole per una “condotta scientifica appropriata” che includono anche l’obbligo di fornire, eventualmente dietro richiesta, i dati originali, bruti, della ricerca.

Link alla trascrizione di una trasmissione della BBC: The Dark Secret of Hendrik Schön.

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Scritto da Sabrina Pubblicato il 6 ottobre 2011

 

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